3 giugno 2009

Come si arrangiano i senzatetto di Gaza.

La dichiarazione finale della conferenza internazionale dei donatori di Sharm el Sheikh era ridondante di toni trionfalistici: i Palestinesi avevano ottenuto per la ricostruzione della Striscia di Gaza ben 4,481 miliardi di dollari!

E, tuttavia, da subito alcuni commentatori avevano osservato come questa generosità finanziaria fosse vanificata dalla codardia politica della comunità internazionale su due fronti politici: da una parte nell’imporre a Israele il rispetto del diritto internazionale nei rapporti con i Palestinesi e, dall’altra, nel prendere coscienza delle realtà politiche palestinesi, specialmente della legittimazione e del ruolo ricoperto da Hamas.

Sta di fatto che tutta questa montagna di denaro giace inutilizzata nelle casse mondiali, in quanto la comunità internazionale rifiuta di consegnare le somme per la ricostruzione direttamente ad Hamas, bollata a tutt’oggi come organizzazione terroristica.

E. soprattutto, il blocco pressoché totale all’importazione di merci nella Striscia di Gaza imposto da Israele – una punizione collettiva nei confronti di un milione e mezzo di Palestinesi ignobilmente consentita dai governi occidentali – impedisce che a Gaza arrivino i materiali necessari per la ricostruzione, cemento, macchinari, tondini di ferro, pezzi di ricambio e quant’altro.

Perché, nonostante nessuno ne parli, a Gaza non sono finite né la guerra né l’occupazione.

Dal cessate il fuoco unilaterale del 18 gennaio di quest’anno, Israele ha ucciso ben 22 Palestinesi.

Israele continua a vietare arbitrariamente la pesca oltre le tre miglia nautiche dalla costa e, solo nella settimana compresa tra il 20 e il 26 maggio, ha aperto il fuoco in cinque diverse occasioni contro le barche palestinesi e ha arrestato due pescatori.

Il 24 maggio l’aviazione israeliana ha lanciato dei volantini in differenti aree della Striscia di Gaza, avvertendo i residenti che è vietato loro avvicinarsi a più di 300 metri dal confine, a pena dell’incolumità personale: si tratta di una zona-cuscinetto arbitrariamente stabilita da Israele al confine con la Striscia, e che impedisce a molti agricoltori palestinesi di recarsi a coltivare i propri terreni.

Le importazioni di merci ai Gaza restano limitate ad alcuni beni umanitari essenziali: nel periodo 20-26 maggio solo 688 camion di merci sono potuti entrare nella Striscia, il 27% di quanto passava ai valichi prima della presa del potere da parte di Hamas. Sono esclusi del tutto – o ammessi in minima parte – i materiali per la ricostruzione, i pezzi di ricambio per le attrezzature sanitarie e per gli acquedotti, i materiali agricoli e industriali.

A questa penuria di materie prime i Palestinesi cercano di ovviare attraverso i tunnel del contrabbando, ma vi riescono solo in parte e ad un prezzo carissimo: solo nel 2008, 46 Palestinesi sono rimasti uccisi e 69 feriti a causa del crollo dei tunnel che attraversano il confine tra Gaza e l’Egitto.

In queste condizioni, i numerosi Palestinesi rimasti senza un tetto sotto cui vivere a seguito dell’operazione “Piombo Fuso” (si calcola che l’attacco israeliano abbia distrutto e/o danneggiato ben 21.100 case) sono costretti a vivere sotto le tende, con i disagi facilmente immaginabili, oppure si costruiscono case con mattoni fatti d’argilla.

E’ quello che ci racconta Djallal Malti in un reportage scritto il 26 maggio per l’AFP, qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews.

Resta solo da capire quanto ancora la comunità internazionale continuerà a consentire il disumano trattamento riservato da Israele ad un milione e mezzo di Palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, una punizione collettiva imposta ad una popolazione aggredita e massacrata che davvero non ha precedenti nella storia contemporanea.

Senzatetto a Gaza e un’impresa d’argilla.
26.5.2009

Gaza City – Tutti i sogni che Amer Aliyan ha di ricostruire la sua vita sono riposti in un foglio di carta accuratamente ripiegato nel suo portafogli, un documento che nel prossimo futuro a Gaza non sarà che un pezzo di carta senza valore.

“Aspetto la ricostruzione, ma so che ci vorrà tempo”, dice il trentaseienne palestinese.

Questo è a dir poco un eufemismo nella Striscia di Gaza assediata e impoverita, dove il blocco israeliano paralizza gli sforzi di ricostruzione dopo la devastazione causata dalla breve ma letale guerra verificatasi all’inizio dell’anno.

La casa di Aliyan è una fra le diverse migliaia che sono state distrutte durante l’attacco furibondo, durato 22 giorni, che Israele ha scatenato contro la Striscia di Gaza governata dal movimento islamico Hamas a dicembre, in risposta ai razzi ed ai colpi di mortaio provenienti dall’enclave assediata.

Dopo la fine della guerra, questo impiegato di una tintoria, ora disoccupato, ha vissuto con sua moglie e cinque bambini in una delle 93 tende che sono state erette alla periferia del campo profughi di Beit Lahiya, a nord di Gaza.

Il documento gelosamente custodito nel suo portafogli è un’attestazione ufficiale che afferma che la sua casa è stata distrutta, ed è un documento che dovrebbe dargli diritto ai fondi per la ricostruzione, una volta che quest’ultima partirà.

Ma è improbabile che ciò accada a breve termine, e fino a quando la ricostruzione non partirà, le migliaia di gazesi che, come Aliyan, hanno perso le loro case durante la guerra dovranno cavarsela da soli.

La ricostruzione è un “non-evento” non perché vi sia assenza di richiesta. Circa 4.100 abitazioni sono andate distrutte durante la guerra, oltre a 48 edifici governativi, 31 stazioni di polizia, 20 moschee, ed altre infrastrutture.

Non è neanche a causa di mancanza di denaro – nelle casse mondiali giace l’enorme cifra di 4,5 miliardi di dollari che i donatori hanno promesso ai palestinesi a marzo, la maggior parte dei quali dovrebbe andare alla ricostruzione a Gaza.

Ma essa non può partire a causa del blocco imposto a Gaza da Israele a partire dal giugno 2007, quando Hamas, un gruppo votato alla distruzione dello stato ebraico, ha preso possesso dell’enclave con la violenza.

I miliardi di dollari promessi rimangono dove sono perché la comunità internazionale rifiuta di consegnare il denaro direttamente a Hamas, marchiato come organizzazione terroristica da Israele e da gran parte dell’Occidente.

Il blocco, a causa del quale solo i generi umanitari essenziali vengono fatti entrare in questo territorio schiacciato fra Israele e l’Egitto, impone che i materiali da costruzione restino fuori da Gaza, perché Israele afferma che essi potrebbero essere utilizzati anche a scopi bellici.

Nel tentativo di aggirare queste restrizioni, i gazesi hanno scavato decine di tunnel sotto il confine con l’Egitto, che vengono utilizzati per far entrare rifornimenti a Gaza, inclusi i materiali da costruzione come cemento, vernici e legname.

Il commercio che ne deriva è fiorente, ma limitato e pericoloso. I tunnel frettolosamente scavati spesso crollano, seppellendo vivi i contrabbandieri. L’aviazione israeliana tuttora li prende di mira nel corso di occasionali bombardamenti aerei.

A causa dell’assedio, i prezzi dei materiali da costruzione sono schizzati alle stelle. Un sacco di cemento ora costa 220 shekel (56 dollari, 40 euro) rispetto ai 20 shekel del passato.

Ma il cemento è di bassa qualità, secondo Hadj Salim, che gestisce uno dei tunnel, e non può essere usato per farne calcestruzzo da costruzione.

Altri materiali d’importanza vitale, come i tondini di ferro usati per rinforzare il calcestruzzo, sono troppo lunghi per poter passare attraverso i tunnel, dice Salim.

Con la ricostruzione congelata, i nuovi senzatetto di Gaza, dove la grande maggioranza del milione e mezzo di abitanti dipende dagli aiuti stranieri, hanno dovuto arrangiarsi.

I più fortunati hanno trovato alloggi temporanei. Alcuni abitano presso parenti, in quello che è già di per sé uno dei luoghi più densamente popolati della terra. Ma le persone che non hanno altro posto dove andare vivono nelle tende.

“Quelli che possono vanno con le famiglie, gli altri restano qui. C’è una famiglia di 12 persone che vive in un deposito. E pagano per questo”, dice Khaled Abu Ali, responsabile degli affari amministrativi della tendopoli.

Altri hanno adottato misure innovative.

Jihad al-Shaer, 36 anni, viveva con sua moglie e 5 bambini nella casa dei suoi genitori a Rafah, quando gli è venuta l’idea di costruire una casa fatta di mattoni d’argilla, a dicembre, prima che la guerra uccidesse più di 1.400 palestinesi e 13 israeliani.

“L’idea mi è venuta dalle case che avevo visto in Bangladesh e in Pakistan”, dice.

Egli ha completato la sua casa di 80 metri quadrati a febbraio – dopo la guerra – e oggi mostra orgogliosamente i risultati.

“E’ fresca d’estate, e calda d’inverno, e mi è costata solo 3.000 dollari”, dice.

La struttura a un piano, che sembra emergere dai dintorni sabbiosi, è stata felicemente benedetta alcune settimane fa dalla nascita del primo figlio maschio di Shaer, dopo quattro femmine.

La sua idea si è diffusa rapidamente nella minuscola Gaza, e all’inizio di maggio i governanti di Hamas hanno annunciato che avrebbero offerto la possibilità di costruire case fatte d’argilla a coloro che lo avessero desiderato.

Dopo settimane di ricerche, Aliyan ha finalmente trovato un alloggio temporaneo per i prossimi mesi – che alcuni temono potrebbero diventare anni – fino a quando Israele toglierà l’assedio e la ricostruzione potrà finalmente avere inizio nella polverosa Gaza.

Lui, sua moglie e i suoi bambini sono riusciti ad affittare un piccolo spazio sul retro di una panetteria, vicino al forno.

Djallal Malti

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19 novembre 2008

Un crimine disumano.



Il totale assedio imposto da Israele alla Striscia di Gaza continua a causare indicibili sofferenze e privazioni a un milione e mezzo di Palestinesi che vi risiedono.

Più della metà di essi, in particolare, è affetta da continue interruzioni nell’erogazione dell’energia elettrica, a causa del blocco delle importazioni di carburanti operato da Israele la scorsa settimana. Ma se l’essere privi di corrente è per molti un pur grave disagio, per qualcuno la scarsità di carburanti può rappresentare una vera e propria condanna a morte.

E’ il caso descritto nel video di Russia Today, che racconta la vicenda di un bambino palestinese di 8 anni, Makher al-Asli, paralizzato e completamente dipendente da un respiratore artificiale, alimentato da un generatore diesel.

Per mantenere in vita Makher, come racconta il padre nel video, la sua famiglia è costretta ad estenuanti ricerche presso ogni distributore aperto per reperire i quantitativi di gasolio necessari a mantenere in funzione il macchinario che lo tiene in vita.

Ma Makher al-Asli non è il solo a rischiare la vita nella Striscia di Gaza a causa dell’assedio israeliano e del blocco totale di ogni importazione di merci.

I continui black out nell’erogazione della corrente elettrica colpiscono gravemente anche ospedali e cliniche, non solo a causa della conseguente sospensione delle operazioni e delle cure nelle unità intensive, ma anche per i danni provocati a vaccini, sieri e medicinali da conservare nei refrigeratori.

A ciò aggiungasi la crescente scarsità di medicine, attrezzature e parti di ricambio, che hanno un impatto devastante sul già fragile sistema sanitario della Striscia di Gaza. Secondo la World Health Organization (WHO), attualmente a Gaza risultano esauriti ben 95 farmaci essenziali e 174 tipi di attrezzature mediche (cfr. Unrwa, Gaza Humanitarian Situation Report, 17 novembre).

Ma se niente entra, niente può nemmeno uscire da Gaza, nemmeno gli ammalati.

E dunque la Croce Rossa Internazionale denuncia come il numero di malati gravi che necessitano di cure in ospedale in Cisgiordania, in Israele o all’estero e che sono autorizzati ad uscire dalla Striscia si sia ridotto di circa la metà, e stiamo parlando di persone affette da disturbi cardiaci, da tumore o da altre amenità del genere, destinati alla morte se non riceveranno le cure adeguate alle loro patologie.

Ma il blocco israeliano ha anche altre conseguenze sulla salute degli abitanti di Gaza.

Come riportato alcuni giorni addietro dal Corriere della Sera – citando alcune anticipazioni di un rapporto della CRI – nella Striscia scarseggiano molti alimenti essenziali, tra cui cereali, olio, frutta fresca, verdura, zucchero, farina, e 7 bambini su 10 mostrano preoccupanti carenze di ferro, vitamina A e D.

L’UNRWA, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, ha fatto sapere che, perdurando il blocco (persino dei beni umanitari!), non sarà più in grado di provvedere alle necessità dei 750.000 Palestinesi che attualmente assiste tra mille difficoltà.

Va segnalato, infine, come il 30% della popolazione di Gaza ha accesso all’acqua corrente per 4-6 ore ogni quattro giorni, il 30% per 4-6 ore ogni tre giorni e il 40% per 4-6 ore ogni giorno; questo in teoria, perché in pratica, negli edifici più alti, spesso i residenti non riescono ad avere l’acqua anche quando le autorità provvedono a rifornire l’area.

Questo quadro assolutamente sintetico – perché molto altro vi sarebbe da dire – mostra di tutta evidenza la drammaticità della situazione umanitaria a Gaza.

Non è un caso che si moltiplichino gli appelli a favore di una cessazione del blocco israeliano della Striscia, con parole a volte pesanti e inusuali per agenzie umanitarie, necessariamente dedite alla diplomazia. Ne citiamo solo alcuni.

Ban Ki-moon, Segretario Generale dell’Onu: “il cibo e altri aiuti necessari per la vita vengono negati a centinaia di migliaia di persone, e quelle misure che accrescono le privazioni e le sofferenze della popolazione civile di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente”.

Karen Koning AbuZayd, Commissario Generale dell’UNRWA: “Gaza è sul punto di diventare il primo territorio ad essere intenzionalmente ridotto ad uno stato di completa indigenza”.

Navi Pillay, Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani: 1,5 milioni di Palestinesi “sono stati privati con la forza per mesi dei più basilari diritti umani”.

Il vero è che gli Israeliani, questi carnefici nazisti del XXI secolo, hanno trasformato la Striscia di Gaza in un vero e proprio campo di concentramento, costringendo un milione e mezzo di Palestinesi a vivere in condizioni miserabili, privi di luce, acqua, cibo, medicinali nelle quantità necessarie ad una vita civile, sana, dignitosa, ponendo in essere una inaudita punizione collettiva che è insieme un crimine per il diritto e un abominio morale.

E l’inerzia e/o l’indifferenza del nostro come di altri governi europei – che si affannano a dichiararsi amici di Israele e si preoccupano per la sua “sicurezza” - rappresentano una vergogna incancellabile ed un clamoroso fallimento del dovere etico e giuridico di ogni Stato civile di difendere un’intera popolazione inerme e alla mercé di un brutale oppressore.

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