Le masse egiziane non saranno alleate di Israele.
Fa una certa impressione vedere la storia che passa davanti ai nostri occhi incollati agli schermi televisivi, le masse oceaniche di Egiziani inquadrati dalle telecamere di al-Jazeera che sfidano il coprifuoco e rischiano la vita per dare la spallata finale al morente regime di Mubarak.
Nessuno credo si sarebbe potuto aspettare un così repentino precipitare degli eventi in Egitto. Non se lo aspettava il nostro ministro degli esteri Frattini – evidentemente occupato da altre faccende – che sulla sua pagina di Facebook, ancora il 26 gennaio, scriveva “Mubarak continui a governare con saggezza”.
Ma non se lo aspettavano nemmeno i pur solitamente bene informati servizi segreti israeliani che, come ci racconta Gideon Levy di Ha’aretz nell’articolo segue (tradotto a cura di Medarabnews), assicuravano con certezza di come Mubarak fosse saldamente al potere ed avesse la situazione sotto controllo.
Da questa premessa, il giornalista israeliano trae lo spunto per una analisi delle conseguenze della fine del regime del rais egiziano riguardanti più da vicino Israele.
La prima, di carattere generale, concerne l’ipocrisia, ma anche l’inutilità, di sostenere regimi dittatoriali e impopolari nella vana speranza che assicurino pace e stabilità e, soprattutto, che facciano da argine al sempre incombente pericolo dell’estremismo islamico.
La seconda, che riguarda più da vicino lo stato israeliano, concerne il fatto che Israele, per essere davvero accettato in medio oriente, non può limitarsi a contare sull’appoggio di qualche ambasciata amica o a dare un frettoloso maquillage alla propria immagine alleviando in misura minima l’assedio di Gaza, ma deve porre termine senza alcun indugio all’occupazione dei territori e all’oppressione del popolo palestinese.
Se davvero l’obiettivo è quello di tagliare le radici che nutrono l’estremismo fanatico di matrice islamista, esso potrà essere perseguito soltanto favorendo in Egitto e nel mondo arabo i processi democratici, la tutela dei diritti civili e politici, lo sviluppo economico.
Gli Usa sembrano aver compreso tutto ciò, laddove si osservi che ieri il presidente Obama ha dichiarato che il processo di transizione che dovrà portare l’Egitto verso la vera democrazia “deve includere un vasto spettro di voci e di partiti dell’opposizione” e “deve portare a elezioni libere e pulite”. Anche se, va detto, anche Hamas nel 2007 aveva vinto elezioni “libere e pulite”, e tutti sanno come poi è andata a finire…
Gli Israeliani, invece, dapprima si sono mostrati scioccati per le prese di posizione di Ue e Usa, che invitavano Mubarak a non reprimere con la forza le manifestazioni popolari, e ora, addirittura, temono che Obama – dopo aver “pugnalato alle spalle” il rais egiziano – possa un giorno abbandonare Israele al suo destino.
Riuscirà questo timore, invero poco fondato, a determinare un significativo cambiamento della politica israeliana, un rinnovato impegno nel processo di pace, l’abbandono dei territori occupati? Ne dubitiamo fortemente.
Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.
di Gideon Levy – 30.1.2011
Tre o quattro giorni fa, l’Egitto era ancora nelle nostre mani. Il nostro esercito di esperti – compreso il nostro massimo esperto di Egitto, Benjamin Ben-Eliezer – aveva detto che “tutto è sotto controllo”, che il Cairo non è Tunisi e che Mubarak è forte. Ben-Eliezer aveva detto di aver parlato al telefono con un alto funzionario egiziano, il quale gli aveva assicurato che non c’è niente di cui preoccuparsi. Potete contare su Hosni, in procinto di diventare l’ex presidente dell’Egitto.
Venerdì notte tutto è cambiato. Si è scoperto che le valutazioni dei servizi segreti israeliani, che erano state recitate fino alla nausea dagli analisti di corte, erano ancora una volta, potremmo dire, non proprio il massimo dell’accuratezza. Il popolo dell’Egitto ha voluto dire la sua, ed ha avuto il coraggio di non mostrarsi in linea con i desideri di Israele. Un attimo prima che il destino di Mubarak sia sancito una volta per tutte, è giunto il momento di trarre le conclusioni israeliane.
Non la piaga delle tenebre in Egitto, ma la luce del Nilo: la fine di un regime sostenuto dalle baionette è una fine annunciata. Esso può andare avanti per anni, e la rovina a volte arriva quando meno la si aspetta, ma alla fine arriva. Non solo Damasco e Amman, Rabat e Tripoli, Teheran e Pyongyang: anche Ramallah e Gaza sono destinate a crollare.
La divisione ipocrita e bigotta, compiuta dagli Stati Uniti e dall’Occidente, tra paesi appartenenti all’ “asse del male” da un lato, e paesi “moderati” dall’altro, è crollata. Se c’è un asse del male, allora comprende tutti i regimi non democratici, compresi i paesi “moderati”, “stabili” e “filo-occidentali”. Oggi l’Egitto, domani la Palestina. Ieri Tunisi, domani Gaza.
Non solo il regime di Fatah a Ramallah e il regime di Hamas a Gaza sono destinati a cadere, ma un giorno forse anche l’occupazione israeliana, che risponde certamente a tutti i criteri della tirannia e di un regime criminale. Essa si basa fin troppo soltanto sulle armi. Anch’essa è odiata da tutte le componenti del popolo dominato, anche se quest’ultimo si trova impotente, non organizzato e non attrezzato, di fronte a un grande esercito. La prima conclusione: meglio porvi fine con buoni modi, con accordi basati sulla giustizia e non sulla potenza, un attimo prima che le masse dicano la loro e riescano a scacciare le tenebre.
Una seconda, non meno importante, conclusione: le alleanze con regimi impopolari possono essere distrutte nel giro di una notte. Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.
Il regime egiziano era divenuto un alleato dell’occupazione israeliana. L’assedio congiunto di Gaza è la prova inconfutabile di ciò. Al popolo egiziano questo non piaceva. Esso non ha mai gradito l’accordo di pace con Israele, nel quale Israele si è impegnata a “rispettare i diritti legittimi del popolo palestinese” senza mai mantenere la parola. Invece, il popolo egiziano ha ricevuto in cambio le immagini dell’operazione Piombo Fuso.
Non è sufficiente avere una manciata di ambasciate al fine di essere accettati nella regione. Devono esserci anche ambasciate di buona volontà, una giusta immagine e uno Stato che non sia uno Stato occupante. Israele deve farsi strada nel cuore dei popoli arabi, i quali non potranno mai accettare la continua repressione dei loro fratelli, anche se i loro capi dell’intelligence continueranno a collaborare con Israele.
Se c’è una cosa condivisa da tutte le fazioni dell’opposizione egiziana, è il loro odio ribollente nei confronti di Israele. Ora i loro rappresentanti saliranno al potere, e Israele si troverà in una situazione difficile. Né rimarrà alcunché del successo virtuale che Netanyahu ha spesso ostentato – l’alleanza con i regimi arabi “moderati” contro l’Iran. Una vera alleanza con l’Egitto e con i paesi suoi fratelli può essere basata solo sulla fine dell’occupazione, così come desidera il popolo egiziano, e non su un nemico comune, come è nell’interesse del suo regime.
Le masse del popolo egiziano – si prega di notare: a tutti i livelli – hanno preso il loro destino nelle loro mani. C’è qualcosa di impressionante e di rasserenante in questo. Nessun potere, nemmeno quello di Mubarak, che a Ben-Eliezer piace tanto, può impedirlo. A Washington la gravità del momento è già stata compresa, e l’amministrazione americana si è affrettata a dissociarsi da Mubarak, cercando di accattivarsi il favore del popolo egiziano. Lo stesso dovrebbe accadere, ad un certo punto, a Gerusalemme.
Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982
Etichette: egitto, Israele, mondo arabo, questione palestinese
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