24 marzo 2010

I veri amici di Israele (e, soprattutto, della pace).

In concomitanza con la visita in Israele del Vice Presidente Usa Biden, il 9 marzo scorso, sono stati resi noti in una sequenza impressionante i piani dell’ulteriore, massiccia colonizzazione israeliana di Gerusalemme e dei suoi sobborghi, il che ha creato seri attriti tra l’amministrazione Obama e il governo israeliano.

L’8 marzo, le autorità israeliane hanno dato il via libera alla costruzione di 112 nuove unità abitative nell’insediamento di Beitar Illit, a ovest di Betlemme, venendo meno persino a quella minima promessa di “congelamento” per 10 mesi delle nuove costruzioni nelle colonie della West Bank.

Il 9 marzo, tanto per render chiaro a Biden come stavano le cose, il Ministro degli Interni israeliano ha reso nota l’approvazione di 1.600 nuovi appartamenti a Gerusalemme est. Queste costruzioni, stando ad Ha’aretz, dovrebbero sorgere nel quartiere ultra-ortodosso di Ramat Shlomo, al fine di assicurarne l’espansione verso est e verso sud.

L’11 marzo, il quotidiano israeliano Ha’aretz ha svelato come oltre 50.000 nuove abitazioni, da edificare nei quartieri di Gerusalemme oltre la “linea verde”, siano in vario grado di pianificazione e di approvazione. Alcuni di questi piani sono ormai in fase avanzata di attuazione e si tratta, in particolare, di: 3.000 abitazioni nella colonia di Gilo, 1.500 ad Har Homa, 1.500 a Pisgat Ze’ev, 3.500 a Givat Hamatos, 1.200 a Ramot, 600 ad Armon Hanetziv e 450 nella colonia di Neveh Yaakov. In aggiunta risulta programmata la costruzione di un nuovo quartiere di ben 13.000 unità abitative nei pressi del villaggio di al-Walajah, a nord-ovest di Betlemme, che domina Gerusalemme.

L’annuncio di questa imponente mole di nuove costruzioni ha di colpo reso molto tesi i rapporti tra gli Usa ed Israele, ben esemplificati dal botta e risposta tra Hillary Clinton e il premier israeliano “Bibi” Netanyahu al congresso dell’Aipac, la (tristemente) nota e potente lobby ebraica statunitense. Alla Clinton che sosteneva che le colonie sono un ostacolo e che Israele deve compiere “scelte difficili” per raggiungere la pace con i Palestinesi, Netanyahu ha infatti replicato che “Gerusalemme non è una colonia, è la capitale di Israele”.

Su questo argomento, è apparso in questi giorni un articolo redazionale del sito Medarabnews, che bene sintetizza tutte le questioni sul tappeto e che vi propongo qui di seguito.

Qui voglio soltanto aggiungere una cosa. La costruzione di abitazioni in territorio occupato, a Gerusalemme est come nella West Bank, non è solo un “ostacolo”, non è sufficiente dire che “non aiutano” o usare le similari formulette adoperate in passato dalle varie amministrazioni americane. Costruire in territorio occupato è immorale e illegale, e costituisce un vero e proprio crimine di guerra per aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

E questo lo ha ricordato solo il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon

Ma persino il generale David Petraeus ha ritenuto di intervenire sottolineando i pericoli che potrebbero derivare agli Stati Uniti dalle politiche dissennate di Israele. Secondo Petraeus, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese e la sensazione assolutamente prevalente nel mondo arabo dell’atteggiamento sbilanciato degli Usa a favore di Israele rende più facile alle organizzazioni terroristiche reclutare nuovi seguaci, e all’Iran di godere di maggior influenza nel mondo arabo.

Petraeus ha assolutamente ragione, ma lui teme per la sicurezza delle truppe americane, noi temiamo, piuttosto, per la nostra sicurezza e per i destini della pace nel mondo.

“Nella lite sugli insediamenti, chi sono i veri amici di Israele?”, si è chiesto qualche giorno fa, dalle pagine del Washington Post, Stephen M. Walt, professore di Relazioni Internazionali all’Università di Harvard, in merito alla crisi scoppiata fra Washington e Tel Aviv a seguito dell’annuncio israeliano di un piano edilizio per la costruzione di 1.600 abitazioni a Gerusalemme Est.

La disputa ha suscitato un intenso dibattito negli Stati Uniti, fra coloro che hanno valutato positivamente la reazione dell’amministrazione Obama e coloro che l’hanno invece aspramente criticata, ritenendola indegna di uno stretto alleato di Israele.

Su posizioni molto critiche nei confronti di Obama si sono schierati l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) – la principale e più potente lobby filo-israeliana negli USA – ed altri gruppi fra cui l’ Anti-Defamation League, a cui bisogna aggiungere un consistente blocco di membri del Congresso, non solo repubblicani ma anche democratici.

A sostegno della posizione adottata dalla Casa Bianca si sono schierati gruppi filo-israeliani pacifisti come J Street e Americans for Peace Now. Degna di nota è anche la posizione espressa dal generale David Petraeus, attualmente a capo dello U.S. Central Command (la cui area di responsabilità copre tutto il Medio Oriente, fino all’Asia centrale, con l’esclusione di Israele e dei Territori palestinesi). Petraeus ha affermato che la sicurezza delle truppe americane in Medio Oriente è messa in pericolo dal conflitto israelo-palestinese.

Questo conflitto alimenta sentimenti anti-americani, secondo Petraeus, a causa di quello che viene percepito in Medio Oriente come un atteggiamento parziale degli Stati Uniti a favore di Israele. Il generale americano ha affermato che la collera suscitata nei paesi arabi dall’irrisolta questione palestinese rende più facile ad al-Qaeda e ad altri gruppi estremisti il compito di reclutare nuovi seguaci, e permette all’Iran di avere maggiore influenza nel mondo arabo.

La crisi di questi giorni ha dunque messo in evidenza una crescente spaccatura all’interno della comunità filo-israeliana negli Stati Uniti, fra difensori dello “status quo” e sostenitori della soluzione dei due stati. Questi ultimi sono stati accusati dai primi – che si ritengono i “veri amici di Israele” – di aver adottato un atteggiamento che danneggerebbe gli interessi di Tel Aviv.

In questo caso – sostiene tuttavia il prof. Walt, nell’articolo sopra citato – sono il presidente Obama e coloro che lo appoggiano ad avere realmente a cuore i veri interessi di Israele e degli Stati Uniti. Si possono condividere o meno le tattiche dell’amministrazione Obama – afferma in sostanza Walt – ma essa è seriamente impegnata a realizzare la soluzione dei due stati, e questo può essere ben difficilmente considerato un atto ostile nei confronti di Israele.

D’altra parte, come afferma Ron Kampeas, direttore degli uffici di Washington della Jewish Telegraphic Agency (JTA), quando in passato si sono manifestate aspre divergenze fra gli Stati Uniti ed Israele, e gli americani hanno esercitato pressioni reali nei confronti del loro stretto alleato mediorientale, il risultato è sempre stato vantaggioso per Tel Aviv.

Nel 1978, il presidente americano Jimmy Carter ed il primo ministro israeliano Menachem Begin si scontrarono duramente perché quest’ultimo si rifiutava di fermare la costruzione degli insediamenti. Tuttavia, gli sforzi di Carter portarono agli accordi di Camp David che avrebbero aperto la strada alla firma del trattato di pace fra Egitto e Israele nel 1979.

Nel 1991, ci fu un duro scontro fra l’amministrazione guidata da George H.W. Bush ed il governo Shamir, che l’anno successivo portò alla sconfitta elettorale di quest’ultimo ed all’elezione di Yitzhak Rabin, la quale aprì la strada agli accordi di Oslo ed alla pace fra Giordania ed Israele.

Malgrado questi fatti del passato, coloro che negli Stati Uniti si definiscono i “veri amici di Israele” hanno aspramente criticato l’amministrazione Obama per la sua reazione, ritenuta troppo dura, soprattutto se paragonata alla sua “scarsa determinazione” nell’affrontare la questione iraniana. Contro l’Iran vuole focalizzare l’attenzione, in particolare, l’AIPAC, la cui conferenza annuale si è tenuta proprio in questi giorni. Alla luce della “minaccia iraniana”, la condanna della Casa Bianca nei confronti del governo israeliano è stata definita “un regalo ai nemici di Tel Aviv”.

Ramat Shlomo, il sobborgo di Gerusalemme Est nel quale dovrebbero essere costruite le 1.600 unità abitative annunciate dal governo Netanyahu, è un quartiere ebraico che rimarrà a Israele anche in un futuro accordo di pace – sostengono coloro che si sono schierati dalla parte del primo ministro israeliano, criticando i passi compiuti dalla Casa Bianca.

Del resto, anche coloro che spingono per un maggiore impegno americano a favore del processo di pace non hanno risparmiato critiche all’amministrazione Obama, accusata di non avere una strategia precisa. Aaron David Miller, consulente di ben sei segretari di stato in merito ai negoziati israelo-palestinesi, ha affermato che una serie di dure prese di posizione da parte della Casa Bianca non costituiscono necessariamente una politica compiuta.

Che la strategia seguita dall’amministrazione Obama sia stata fino a questo momento poco coerente è un fatto difficilmente contestabile – sostengono altri – tuttavia l’obiettivo finale di spingere il governo israeliano a fare maggiori concessioni in vista di un negoziato produttivo è assolutamente condivisibile.

Dal canto loro, molti commentatori arabi ritengono che l’attuale crisi fra Washington e Tel Aviv sia “una tempesta in un bicchier d’acqua”, e che le divergenze saranno ben presto ricomposte, magari avviando colloqui israelo-palestinesi indiretti che avranno l’unico scopo di “guadagnare tempo”, senza portare a nessun risultato concreto.

E in effetti, i “gesti di buona volontà” nei confronti dei palestinesi, promessi da Netanyahu all’amministrazione americana, sono talmente trascurabili da far temere che l’esito di qualsiasi negoziato sarà inevitabilmente il fallimento.

Se le prospettive di una svolta positiva nel processo di pace israelo-palestinese appaiono scarse, la realtà sul terreno rischia invece di diventare esplosiva.

Mentre l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Catherine Ashton, di ritorno dalla sua visita a Gaza avrebbe definito la situazione laggiù “peggiore di Haiti”, in Cisgiordania la tensione cresce di giorno in giorno, con una serie di incidenti che ultimamente hanno portato all’uccisione di alcuni palestinesi, e con un’intifada strisciante a Gerusalemme.

Alla luce di questa situazione, sembrano aver ragione coloro che affermano che la reazione dell’amministrazione americana all’annuncio israeliano del piano edilizio di Ramat Shlomo, se non nella forma, sia corretta nella sostanza – ovvero, sia la giusta reazione di un alleato ed amico che vuole mettere in guardia il governo israeliano.

Infatti, se la costruzione di alcune abitazioni in un quartiere ebraico può apparire poco significativa, come hanno sostenuto molti commentatori israeliani, essa acquista ben altro peso se la si considera nel contesto della situazione complessiva esistente a Gerusalemme Est ed in Cisgiordania.

Tale decisione appare inoltre di una maggiore gravità se si tiene conto che fa parte di un pacchetto ben più ampio, di circa 50.000 unità abitative che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, dovrebbero essere costruite nei prossimi anni a Gerusalemme Est.

Questa pianificazione edilizia, del resto, è in perfetta armonia con la volontà di Netanyahu di considerare Gerusalemme capitale eterna e indivisibile dello stato di Israele, e come tale non facente parte del processo negoziale. Questo concetto è stato ribadito dal primo ministro israeliano alla conferenza dell’AIPAC a Washington, quando egli ha affermato: “Gerusalemme non è un insediamento; è la nostra capitale”.

Netanyahu sembra aver dimenticato, drammaticamente, che Gerusalemme dovrebbe essere non solo la capitale di Israele, ma anche del futuro stato palestinese. Chiunque abbia una minima dimestichezza con il conflitto arabo-israeliano sa bene che nessun leader palestinese o arabo potrà mai accettare una pace che comporti la rinuncia a Gerusalemme Est.

L’affermazione di Netanyahu che “costruire a Gerusalemme è come costruire a Tel Aviv” rappresenta il totale disconoscimento del significato che ha Gerusalemme (non solo per l’ebraismo, ma anche per le altre grandi fedi monoteiste), e in particolare di ciò che essa rappresenta per gli arabi ed i musulmani.

Come ha scritto Doron Rosenblum sul quotidiano Haaretz, quando Netanyahu guarda a Gerusalemme, non sembra considerare “la città reale, con i suoi problemi geo-demografici e con le soluzioni pratiche che sono necessarie nel quadro di un accordo complessivo, ma la cosiddetta Gerusalemme celeste”, una Gerusalemme mitica che tuttavia è drammaticamente lontana dalla città reale con i suoi problemi di oggi.

A Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ovvero in quello che dovrebbe essere il futuro stato palestinese, vivono ormai più di 500.000 coloni israeliani. Nonostante il parziale congelamento degli insediamenti, la colonizzazione non si è fermata del tutto, e ci si attende una sua ripresa a settembre, quando scadranno i dieci mesi di sospensione decretati dal governo.

Alcune misure approvate ultimamente dal governo israeliano hanno contribuito ad accrescere la tensione in Cisgiordania. Il 13 dicembre 2009 è stata approvata la risoluzione sulle Aree di Priorità Nazionale (NPA). Queste aree comprendono anche diversi insediamenti in Cisgiordania, ovvero in territorio palestinese. Lo scorso 23 febbraio il governo ha inserito nella lista di siti che appartengono al “patrimonio nazionale di Israele” anche la Tomba dei Patriarchi a Hebron e la Tomba di Rachele a Betlemme, entrambi situati in Cisgiordania, ed entrambi luoghi sacri anche per i musulmani.

Questi ed altri provvedimenti, insieme all’espansione complessiva degli insediamenti, non possono che convincere i palestinesi e gli arabi che Israele vuole mantenere il controllo sulla Cisgiordania, facendo svanire qualunque speranza di un futuro stato palestinese indipendente ed in grado di sopravvivere.

L’alternativa che si profila alla soluzione dei due stati, non soltanto è drammatica per i palestinesi, ma non lascia presagire nulla di buono nemmeno per gli israeliani. Mantenere il controllo della Cisgiordania e continuare a portare avanti la colonizzazione significa infatti porre Israele davanti a due alternative: diventare uno stato bi-nazionale, concedendo i pieni diritti alla popolazione palestinese all’interno dello stato israeliano (che così cesserebbe di essere uno stato a maggioranza ebraica); oppure continuare a negare ai palestinesi i loro diritti, trasformando così Israele in uno stato non democratico – quello che lo stesso ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha definito “uno stato di apartheid”.

La seconda ipotesi appare essere la più probabile, tenendo conto del fatto che la maggioranza degli israeliani non sembra disposta a rinunciare al carattere ebraico del proprio stato. Questa prospettiva, inoltre, non appartiene a un futuro lontano, ma, secondo molti osservatori, è una realtà concreta già oggi in Cisgiordania, dove, tanto per fare un esempio, i villaggi di Bil’in e Na’alin sono stati dichiarati zone militari chiuse la scorsa settimana, allo scopo di impedire le manifestazioni (rigorosamente pacifiche) organizzate dagli abitanti di questi villaggi per protestare contro il muro di separazione eretto dagli israeliani (definito una violazione del diritto internazionale dalla Corte Internazionale di Giustizia).

Alla luce di questi dati, sembra aver ragione il prof. Walt quando, nell’articolo del Washington Post precedentemente citato, afferma che i gruppi che negli Stati Uniti si oppongono al congelamento di tutti gli insediamenti, e che sono favorevoli al mantenimento dello “status quo”, sono in realtà falsi amici di Israele, perché le posizioni che essi sostengono “spingono Israele a proseguire lungo la pericolosa strada che ha intrapreso”.

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3 Commenti:

Alle 25 marzo 2010 alle ore 00:07 , Blogger Matteo ha detto...

Come viene giustamente detto nell'articolo le lobby di pressione sioniste sono un grande problema.
Impediscono agli Usa di essere abbastanza determinati quando (quelle rare volte che)censurano la politica a dir poco aggressiva d Israele. Dubito che gli Stati Uniti vogliano davvero fare qualcosa di concreto per bloccare gli insediamenti, per ora restano solo parole e niente fatti.

 
Alle 25 marzo 2010 alle ore 00:07 , Anonymous Andrea ha detto...

Perché mai i palestinesi dovrebbero avere una capitale a Gerusalemme, o vantare diritti sulla capitale di Israele?
Gerusalemme (Est e Ovest) non è mai stata assegnata ai Palestinesi dall'Onu, ha una maggioranza ebraica documentata dai censimenti almeno da centocinquant'anni, e naturalmente una presenza ebraica altrettanto documentata che risale a un millennio e mezzo prima che nascesse due o tremila chilometri più a Est un tizio che oggi conosciamo come Maometto.

 
Alle 25 marzo 2010 alle ore 10:17 , Blogger vichi ha detto...

Io credo che la civile e pacifica convivenza tra i popoli debba essere regolata dal diritto, non da considerazioni storiche o religiose.

Innumerevoli risoluzioni Onu hanno statuito l'inammissibilità dell'acquisizione di territori mediante l'uso della forza, e hanno altresì dichiarato nulli tutti gli atti legislativi e amministrativi prodotti da Israele e tesi a modificare lo status di Gerusalemme.

A cominciare dalla legge che ne ha fatto la capitale dello Stato israeliano, che infatti non è riconosciuta come tale da alcuno al mondo.

In quanto territorio occupato, l'edificazione di nuove costruzioni a Gerusalemme est è una palese violazione del diritto umanitario e costituisce pertanto un crimine di guerra, che tutti gli Stati avrebbero il dovere di impedire.

Ma, di tutta evidenza, il termine "umanitario" non ha nulla a che vedere con Israele.

 

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