Una terra di muri.
Il quadro della situazione israelo-palestinese, in questo inizio del 2010, presenta diverse e sostanziali novità.
La principale consiste nel fatto che la regione sta diventando una vera e propria “terra di muri”, considerato che lo scorso 10 gennaio il primo ministro israeliano ha manifestato la volontà israeliana di costruire una barriera lungo il confine con l’Egitto, mentre prosegue la costruzione del muro d’acciaio sotterraneo tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, muro che mira a strangolare ancor più di quanto non sia adesso i Palestinesi della Striscia e la cui costruzione gode del finanziamento e della supervisione tecnica americani.
A ciò, ma non solo, è legato il netto peggioramento dei rapporti esistenti tra Hamas e il governo egiziano, mentre parallelamente un analogo peggioramento segnano le relazioni tra lo stato israeliano e la Turchia.
Nel frattempo in Israele, non contenti dei massacri dell’operazione “Piombo Fuso”, i vertici militari meditano di sferrare nuovi e pesanti attacchi contro la Striscia di Gaza nell’illusione di distruggere definitivamente Hamas. Tutto questo nell’ottimo editoriale della redazione di Medarabnews qui riportato.
Israele-Palestina: una terra di muri … sull’orlo della guerra?
Il nuovo anno non si è aperto con delle buone notizie in Israele e Palestina. Il 10 gennaio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la costruzione di una barriera tecnologicamente avanzata per chiudere il confine tra Israele e l’Egitto. Nel frattempo, prosegue la costruzione del muro d’acciaio sotterraneo al confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza, voluto dalle autorità egiziane per bloccare i tunnel sotterranei che permettono di far giungere nella Striscia beni di prima necessità, materiali da costruzione, ma anche armi. Le manifestazioni di attivisti e organizzazioni umanitarie finalizzate a rompere l’embargo internazionale imposto a Gaza sono state in gran bloccate in Egitto, ma soprattutto sono state coronate da scontri tra sostenitori di Hamas e l’esercito egiziano in prossimità del confine. Nel corso di tali scontri è stato ucciso un soldato egiziano e diversi palestinesi sono rimasti feriti, anche gravemente. La tensione fra Hamas e il Cairo ha raggiunto livelli senza precedenti. Ed infine un nuovo incidente diplomatico tra Israele e la Turchia, a seguito di un incontro fra il viceministro degli esteri israeliano Danny Ayalon e l’ambasciatore turco Oguz Celikkol, ha segnato una nuova crisi nei rapporti fra i due paesi, rendendo ancora più difficile una mediazione della Turchia nel conflitto arabo-israeliano.
La decisione israeliana del 10 gennaio era certamente attesa, e la ragione che l’ha determinata non è in primo luogo la questione palestinese, bensì l’esigenza di bloccare l’immigrazione clandestina ed il contrabbando che provengono dal Sinai, una regione scarsamente popolata sulla quale il Cairo non è in grado di esercitare un pieno controllo. A causa delle misure imposte dagli accordi di Camp David, che siglarono la pace fra Israele e l’Egitto nel 1978, il Sinai deve essere una regione smilitarizzata [1], sottoposta alla supervisione di una forza multinazionale. L’Egitto può mantenere nella regione soltanto una presenza militare e di polizia estremamente ridotta. Nel Sinai vivono inoltre popolazioni nomadi che sono state spesso maltrattate e discriminate dal governo centrale. Queste ad altre ragioni fanno sì che nell’area fioriscano traffici illeciti di vario genere, e che essa sia attraversata dalle rotte dell’immigrazione clandestina proveniente dall’Africa.
Tuttavia, se è vero che questi problemi esistono, la decisione di costruire un nuovo “muro” nel Vicino Oriente ha destato la preoccupazione di numerosi osservatori. Secondo molti, la soluzione prospettata cura i sintomi, e non le ragioni profonde del problema. Sotto questo profilo, la decisione israeliana di costruire una barriera lungo il confine con l’Egitto si pone in linea di continuità con la decisione statunitense di costruire una barriera al confine con il Messico, o anche con le recinzioni che esistono nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in territorio marocchino. Israele, da questo punto di vista, si allinea a un Occidente “ricco” che si chiude di fronte all’immigrazione proveniente dal Sud del mondo, ritenendo di poter vivere come una “cittadella fortificata” [2] del benessere in mezzo a un oceano di povertà. Alcuni commentatori della stampa araba hanno anche criticato le particolari motivazioni addotte dal primo ministro israeliano Netanyahu, il quale ha dichiarato che questa decisione ha lo scopo di “assicurare il carattere ebraico e democratico di Israele”, aggiungendo che i confini israeliani rimarranno aperti ai richiedenti asilo, ma che non si può permettere a migliaia di lavoratori clandestini di invadere il paese.
Vi è però un altro aspetto, in questa recente decisione del governo di Gerusalemme, che è stato messo in evidenza anche da alcuni commentatori israeliani. La barriera al confine con l’Egitto giunge a coronamento di una serie di altre opere ingegneristiche che hanno completamente recintato ed isolato Israele dalla regione che la circonda. Il muro di separazione, costruito per ampi tratti con lastre di cemento alte fino a 8 metri, separa Israele dalla Cisgiordania. La Striscia di Gaza è completamente isolata da una recinzione che corre lungo tutto il confine con Israele, e da una barriera che la separa dall’Egitto lungo il confine meridionale (a cui bisogna aggiungere il muro d’acciaio sotterraneo attualmente in costruzione per volere del Cairo, che ha scatenato rabbia e indignazione in tutto il mondo arabo). Anche i confini israeliani con la Siria e con il Libano sono percorsi da recinzioni e da sistemi di sorveglianza. Lo stesso vale per il confine fra la Giordania e la Cisgiordania.
Sui giornali israeliani, vi è chi ha osservato che queste barriere che isolano fisicamente Israele dal resto del mondo sono solo il risultato esteriore di un isolamento che è già in atto da tempo a livello psicologico, culturale e politico, e che nasce in gran parte dalla convinzione di vivere in un mondo ostile, di essere circondati, e di non avere alcun altro posto dove andare. Ma questo isolamento, secondo altri, è anche la conseguenza di un malriposto senso di superiorità, e dell’incapacità di pensare alle popolazioni vicine in termini positivi. Il risultato è spaventoso e tragico allo stesso tempo: il primo ghetto ebraico autoimposto [3] della storia.
Però, come abbiamo visto, Israele non è l’unica a costruire muri e barriere nella regione. Il muro d’acciaio che il governo egiziano ha deciso di costruire al confine con Gaza sta suscitando aspre polemiche in Egitto e in tutti i paesi arabi. Temendo di macchiare irreparabilmente la propria immagine nel mondo arabo, le autorità egiziane avevano cercato di tenere nascosti i lavori in prossimità della frontiera, ma inutilmente. I sostenitori di Hamas, e canali satellitari come al-Jazeera, hanno dipinto gli egiziani come pedine di una congiura israelo-americana volta a strangolare la Striscia di Gaza. E in effetti, diverse fonti hanno confermato che i lavori proseguono sotto la supervisione di esperti americani, e con attrezzature tecnologiche fornite da Washington.
Se il muro dovesse essere completato, il rischio concreto è che davvero la popolazione di Gaza rimanga schiacciata sotto il peso di un embargo totale. Se è vero che attraverso i tunnel passano anche le armi, è altrettanto vero che essi permettono l’ingresso a Gaza di medicinali, cibo, ed altri beni di prima necessità, senza i quali la situazione umanitaria della Striscia, già spaventosa in queste condizioni, si tradurrebbe rapidamente in una vera e propria catastrofe. L’embargo israeliano ed internazionale proibisce l’ingresso a Gaza di molti generi alimentari, di tutti i materiali da costruzione (dal cemento al vetro, al legno e all’alluminio), delle forniture scolastiche, come libri e quaderni, del carburante, del materiale sanitario e dei farmaci (ad esclusione dei cosiddetti farmaci essenziali), ecc.. Per poter sopravvivere, i palestinesi di Gaza hanno creato al confine con l’Egitto un vero e proprio mondo sotterraneo [4] fatto di centinaia di tunnel, i quali rappresentano l’unico contatto con il mondo esterno per gli abitanti della Striscia, tenuto conto che anche le coste sono pattugliate dalle motovedette israeliane, le quali impediscono ai palestinesi perfino di contare sulla tradizionale risorsa della pesca. Però, questa rete di tunnel è anche una rete di morte: a causa delle precarie condizioni lavorative, i tunnel sono soggetti a frequenti crolli. Inoltre l’aviazione militare israeliana li ha più volte bombardati. Ora il muro egiziano potrebbe sottrarre definitivamente a Gaza anche quest’ultima risorsa.
Ma i rapporti fra l’Egitto e Hamas si sono deteriorati non soltanto in conseguenza della costruzione del muro sotterraneo. Il regime egiziano è sempre stato desideroso di riaffermare il proprio ruolo nel mondo arabo, e di risolvere il più rapidamente possibile la questione palestinese al fine di sbarazzarsi di un focolaio di instabilità ai propri confini. A tale scopo, esso ha a lungo cercato di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas, chiedendo però delle condizioni ritenute inaccettabili da quest’ultimo. Il Cairo ha anche cercato di negoziare la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas dal giugno del 2006, ma senza successo. Questa mediazione è ora passata in mani tedesche.
Il regime egiziano accusa ora Hamas di rappresentare una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Il movimento islamico palestinese è accusato di aver concentrato le proprie proteste sulla chiusura del valico di Rafah, sul confine meridionale di Gaza controllato dall’Egitto, invece che sull’embargo israeliano, compromettendo in questo modo l’immagine dell’Egitto nel mondo arabo. Inoltre, ricevendo finanziamenti da Teheran, Hamas viene tacciato di essere una pedina nelle mani del regime iraniano ostile al fronte dei cosiddetti paesi arabi “moderati”, di cui l’Egitto fa parte. Molti giornalisti vicini al regime egiziano danno grande risalto a questa accusa. Vi è però chi ha ricordato che Hamas fu gettato tra le braccia dell’Iran dagli stessi paesi arabi moderati, i quali all’indomani della vittoria elettorale del movimento islamico palestinese (avvenuta a seguito di consultazioni ritenute ampiamente democratiche), lo hanno boicottato non meno di quanto hanno fatto Israele, l’Europa e gli Stati Uniti.
Secondo alcuni, la retorica anti-iraniana adottata dal Cairo, in relazione alla sua ostilità nei confronti di Hamas, è da un lato indice dell’asprezza della contrapposizione che vede paesi arabi come l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania schierati contro l’Iran; ma, dall’altro, è un tentativo del regime egiziano di dissimulare le vere ragioni che lo spingono a considerare Hamas come un nemico. Quest’ultimo è infatti un esponente di quell’Islam politico che ha sempre spaventato i regimi arabi, ed ha uno stretto legame con i Fratelli Musulmani, il principale movimento di opposizione in Egitto, sebbene non riconosciuto a livello ufficiale. Il Cairo teme inoltre – secondo molti analisti, a ragione – che Israele stia cercando di sbarazzarsi delle sue responsabilità di potenza occupante, che la obbligano ad assicurare il benessere della popolazione di Gaza, scaricando il fardello di questa popolazione sulle spalle dell’Egitto.
Il regime egiziano si vede dunque minacciato da questi potenziali pericoli [5], in un momento particolare della sua evoluzione. E’ ormai opinione largamente condivisa che il presidente Hosni Mubarak stia preparando le condizioni per permettere la trasmissione ereditaria del potere al figlio Gamal. Questo delicato passaggio si preannuncia però tutt’altro che scontato, poiché stanno emergendo in Egitto diverse forze che vi si oppongono. In un momento così critico, il regime egiziano vede sminuito il proprio ruolo regionale a causa dell’insuccesso della sua mediazione sul fronte palestinese, e vede gravemente macchiata la sua reputazione agli occhi del proprio popolo, e degli arabi in generale, a causa della costruzione di un muro sotterraneo che ha l’obiettivo di strangolare i fratelli palestinesi di Gaza. D’altra parte, secondo gli oppositori del regime [1], è proprio il carattere non democratico di quest’ultimo, e dunque il fatto che esso non ha una legittimazione popolare, che lo obbliga a sottostare ai diktat di Israele e degli USA per garantirsi dei protettori, anche al prezzo di sacrificare la questione palestinese.
In questo clima così teso, i rapporti tra Hamas ed il Cairo sono ormai ai limiti della rottura definitiva. Ciò lascia ben poche speranze per una futura riconciliazione tra Fatah e Hamas attraverso la mediazione egiziana, ma anche per un ruolo egiziano in grado di favorire la ripresa dei negoziati con Israele. D’altra parte, L’Egitto non è l’unico mediatore che sembra in questo momento uscire dall’orizzonte del negoziato arabo-israeliano. L’amministrazione Obama ha già fallito una volta, non riuscendo ad imporre al governo Netanyahu un congelamento totale degli insediamenti in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est, e non sembra in grado, in questo momento, di avviare una nuova offensiva diplomatica sulla base di un approccio rinnovato ed efficace. L’altro mediatore che sembra aver perso il proprio ruolo negoziale è la Turchia, a seguito del raffreddamento dei rapporti fra Ankara e Gerusalemme.
Dopo le ripetute condanne rivolte dal primo ministro turco Erdogan ad Israele per l’uccisione di oltre 1.400 palestinesi nella guerra di Gaza dello scorso anno, un nuovo episodio negli ultimi giorni ha inferto un altro duro colpo alle relazioni fra i due paesi [6]. Dopo aver ripetutamente protestato per una serie televisiva turca che ritraeva gli agenti segreti israeliani come sadici rapitori di bambini, il viceministro israeliano Danny Ayalon ha convocato l’ambasciatore turco Oguz Celikkol, facendolo dapprima attendere in maniera umiliante, e poi facendolo sedere su una poltrona più bassa della sua, in una stanza dove c’era solo la bandiera israeliana, e non quella turca, e facendo filmare tutto quanto dalle troupe televisive convocate appositamente per documentare il fatto. La dura reazione di Ankara è stata smorzata solo in parte dalle successive scuse presentate dal governo israeliano.
L’episodio, al di là del suo contenuto spicciolo, è un altro segnale della perdurante incomprensione fra Gerusalemme ed Ankara. Quest’ultima fino a pochi giorni prima della guerra di Gaza aveva mediato colloqui indiretti fra Israele e la Siria. Il raffreddamento dei rapporti turco-israeliani successivo alla guerra di Gaza ha spinto Gerusalemme ad affermare che il governo turco non è più un mediatore credibile nel conflitto arabo-israeliano. Dal canto suo, Ankara ha ripetutamente condannato Israele per il trattamento disumano riservato alla popolazione di Gaza.
Al di là di questo, tuttavia, molti analisti turchi hanno affermato di essere rimasti sorpresi dall’incapacità degli israeliani di comprendere le dinamiche in atto in Turchia e di orientare di conseguenza il loro rapporto con Ankara. Invece di focalizzare le proprie critiche contro il governo, Israele ha replicato duramente contro la nazione turca nel suo complesso, rischiando di alienarsi irreparabilmente le simpatie del popolo turco, al cui interno le tendenze anti-israeliane sono effettivamente in aumento. E’ opinione diffusa, in Turchia, che Gerusalemme continui a rapportarsi con Ankara così come faceva negli anni ’90, quando era sufficiente assicurarsi l’amicizia dell’establishment militare turco per garantirsi un atteggiamento benevolo da parte dello stato turco in generale. Ma in Turchia, a prendere le decisioni è sempre più un governo che è espressione della volontà popolare, in un paese a maggioranza musulmana. Di conseguenza, secondo molti osservatori turchi, Israele deve rivedere il proprio approccio nei confronti di Ankara, se vuole continuare ad avere rapporti amichevoli con la Turchia.
D’altro canto, questa scarsa capacità di interpretazione da parte di Israele sarebbe, secondo altri, proprio il risultato della tendenza israeliana a chiudersi di fronte al mondo esterno, a isolarsi per mezzo di barriere fisiche e psicologiche, le quali a loro volta impediscono agli israeliani di pervenire a una corretta lettura della realtà che li circonda.
Se questa analisi è esatta, costituisce un dato estremamente allarmante per il futuro della regione. Uno stato ricco e militarmente potente, ma isolato dietro muri e barriere, tormentato dall’ossessione di essere accerchiato, di vivere in un ambiente ostile, e sempre più propenso ad adottare soluzioni esclusivamente militari, vive fianco a fianco ad una popolazione di un milione e mezzo di palestinesi assediati in un esile lembo di terra privo di tutto, ed anch’esso segregato dietro recinti e muri, anche sotterranei. Questo lembo di terra è governato da un movimento islamico che rischia ormai di diventare, agli occhi del vicino regime egiziano, uno dei suoi peggiori nemici. Tale regime a sua volta sta attraversando una fase di grave delegittimazione agli occhi delle masse arabe, e sta vivendo una delicata crisi di successione. A ciò si può aggiungere il sempre instabile confine tra Israele e Libano, dove si sta assistendo a una corsa al riarmo che vede contrapposte le forze armate israeliane al movimento sciita libanese Hezbollah, e una Cisgiordania che, sebbene economicamente meno sofferente di Gaza, continua a subire la repressione dell’occupazione militare e ad assistere all’espansione delle colonie israeliane (malgrado il parziale congelamento imposto da Netanyahu). Questo sconfortante panorama si completa con il ridimensionamento del ruolo di mediazione di paesi come gli Stati Uniti, l’Egitto e la Turchia.
Proprio in questi giorni, in Israele si sono rincorse voci secondo le quali i vertici militari del paese riterrebbero inevitabile un secondo (e ancora più letale) round di combattimenti [7]contro Hamas nella Striscia di Gaza. L’area del Vicino Oriente è un vulcano sottoposto a incredibili pressioni e tensioni sotterranee. Se questa pressione non verrà ridotta, ad esempio togliendo l’assedio a Gaza, ed aprendo una nuova fase negoziale in grado di dare delle speranze reali, essa prima o poi esploderà (che questo avvenga fra un mese o fra un anno, non ha molta importanza). Se ciò accadrà, nessuno è in grado di predire quale dei fragili equilibri della regione sarà in grado di resistere all’onda d’urto, e quale invece sarà destinato a soccombere.
Etichette: egitto, embargo, hamas, Israele, palestina, striscia di gaza
2 Commenti:
Agli israeliani non fa certo piacere dover ricorrere a muri per difendersi ed evitare l'ingresso di terroristi islamici suicidi, la cosa che vogliono di più è la pace...purtroppo però Israele non confina con la pacifica Svizzera ma con milioni di arabi che vogliono la sua fine, quindi la scelta è inevitabile per cercare di salvare la pelle. In ogni caso mi sembra chiaro però che esiste un doppio standard: quando sono gli israeliani a costruire muri (vedi la “barriera difensiva” che separa Israele dalla Cisgiordania) scoppia un grande scandalo. Quando invece sono gli egiziani a fare la stessa cosa, regna il silenzio pressoché più assoluto dei vari pacifinti...
Mi pare che quantomeno nell'articolo qui sopra si parli anche del muro egiziano. E del resto si tratta di progetti complementari volti a raggiungere un unico obiettivo. Si chiamano interessi convergenti, quelli che accomunano gli Stati Uniti, Israele ed alcuni dei regimi arabi NON DEMOCRATICI come l'Egitto: mettere a tacere una questione scomoda, che dà fastidio a tutti. Se per far questo bisogna cancellare un popolo, quello palestinese, poco importa...non sarebbe la prima volta nella storia
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