13 luglio 2005

Costruzioni e demolizioni.

Da anni, ormai, in ogni discussione pubblica che verta sulla lotta al terrorismo di matrice islamica, un punto centrale viene occupato dalla necessità di risolvere in via definitiva la questione dei rapporti israelo-palestinesi e di consentire, finalmente, la nascita di uno Stato palestinese.
All’inizio della guerra contro l’Iraq, in una conferenza stampa congiunta, Bush e Blair ebbero a sostenere che la “esportazione” della democrazia in quel disgraziato Paese avrebbe avuto un benefico effetto-domino nei confronti di tutti gli stati dell’area mediorientale e che, anzi, il primo passo successivo sarebbe consistito proprio nella creazione di uno Stato palestinese democratico e dai confini certi e riconosciuti.
Come siano andate le cose nella realtà e quale sia l’attuale tragica situazione dell’Iraq “democratizzato” è sotto gli occhi di tutti, e i media non mancano quotidianamente di fornire il bollettino delle vittime innocenti ed il quadro aggiornato dei disastrosi risultati della guerra preventiva di Bush.
Meno noto, perché in questo caso le notizie vengono accuratamente centellinate ed occupano un minimo spazio sui giornali e nei programmi d’informazione televisivi, è quale sia la situazione nel vicino oriente e a che punto sia quella ormai dimenticata “mappa stradale” che avrebbe dovuto portare, in tempi brevi (e ormai scaduti…), alla nascita dello Stato palestinese.
Ebbene il tanto decantato “disengagement plan”, cioè il ritiro farsa degli israeliani da Gaza e da 4 colonie del West Bank, che dovrebbe partire il 18 agosto, è messo in discussione dalle manifestazioni di protesta dei coloni (i quali, by the way, non si preoccupano più di tanto di mandare i loro bambini a farsi arrestare durante cortei e blocchi stradali), dalla spaccatura del Likud e dal malcontento strisciante in larghi settori dell’esercito e dell’opinione pubblica israeliani: si tratterebbe, in ogni caso, dello spostamento di poche migliaia di coloni, certamente poco significativo a fronte del problema delle colonie della Cisgiordania.
Nel contempo, zitto zitto, il governo israeliano domenica ha approvato il nuovo percorso del “muro di sicurezza” (o meglio, di apartheid) nell’area di Gerusalemme (circa 60 km. di percorso, già per metà costruiti), che avrà come risultato di tagliar fuori circa 55.000 palestinesi (ma per l’Anp si tratta almeno di 100.000 persone), residenti di Gerusalemme est, dal resto della città, mentre circa 30.000 coloni israeliani verrebbero inclusi (illegalmente) nel versante israeliano, compresi gli abitanti di Ma’aleh Adumim, il più grosso insediamento colonico (illegale) del West Bank.
Anche a prendere per buona la cifra di 55.000 palestinesi fornita dal governo israeliano, si tratta comunque di una cifra impressionante, dato che costituisce quasi un quarto della popolazione palestinese residente a Ggerusalemme; tra essi vi sono circa 3.600 bambini in età scolare (cifra fornita dal vice primo ministro Olmert), i quali ogni giorno dovrebbero passare attraverso gli appositi varchi costruiti lungo il muro di apartheid per andare e tornare da scuola, così come dovranno fare gli adulti per andare al lavoro, per riscuotere sussidi, per ricevere cure mediche, per vivere la loro vita normale, insomma.
Ma niente paura: Israele farà di tutto per agevolare la libertà di movimento dei palestinesi, tranne che nei casi di emergenza (diciamo un giorno sì ed uno no…); addirittura il governo incoraggerà (!?) gli ospedali di Gerusalemme est ad aprire propri reparti al di là della barriera di sicurezza!Non si sa davvero se ridere o piangere…
Alla fine, insomma, si discute, si predispongono road map di pace, si fanno proclami roboanti, ma l’unica realtà è che Israele, inesorabilmente, continua la costruzione del muro di apartheid che, è bene ricordarlo, l’Alta Corte dell’Aja e l’Assemblea dell’Onu hanno dichiarato illegale, chiedendone la demolizione.
Il responsabile della politica estera della Ue Javier Solana, ieri a Gerusalemme, ha ancora una volta ribadito ai giornalisti l’illegalità del muro costruito al di là della green line, ma si tratta – una volta ancora – di parole al vento se, come sempre, non saranno seguite da precise e severe sanzioni verso quello Stato che detiene il record dell’illegalità internazionale e della violazione di risoluzioni Onu.
Il vero è, come è sfuggito al ministro Haim Ramon (laburista) in una intervista alla radio israeliana, che il muro di sicurezza serve non solo a proteggere Israele ma anche (o soprattutto?) a rendere Gerusalemme “più ebrea”…
Nel frattempo, la stampa israeliana rende noto che Israele chiederà agli Stati Uniti di finanziare il disengagement plan con una generosa “donazione” ammontante a circa 2,2 miliardi di dollari; soldini, questi, che si vanno ad aggiungere ai circa 2,8 miliardi di dollari che ogni anni lo zio Sam versa nelle casse di Israele.
Evidentemente il ritiro da Gaza deve costare molto, soprattutto perché sta avvenendo ed avverrà con la demolizione di ogni casa, edificio pubblico, fabbrica costruita in questi anni dagli israeliani: la Striscia di Gaza, insomma, verrà riconsegnata ai palestinesi rasa al suolo!
“Ci lasceremo dietro un’area che sembrerà essere stata colpita da una bomba atomica … Secondo me, è un incubo”: sono le parole di Yonatan Bassi, il capo dell’Amministrazione israeliana deputata a sovraintendere il ritiro, e non si può che condividerne il pensiero.
In un mondo perfetto, si dovrebbe demolire il muro di apartheid e salvare gli edifici di Gaza che potrebbero essere riutilizzati dai palestinesi, ma, si sa, questo non è un mondo perfetto, e dunque accade il contrario.
Come si possa parlare di pace tra israeliani e palestinesi quando i primi continuano la loro politica colonialista, continuano a costruire un muro illegale, continuano a espandere i loro insediamenti illegali proprio non si riesce a comprendere.
Chissà mai se qualcuno, un giorno, ci illuminerà in proposito.
P.S. Mentre scrivevo queste righe, è giunta notizia di un attentato suicida della Jihad islamica a Netanya, che è costato la vita a quattro povere donne innocenti.
Questo atto vile e barbarico va senz'altro condannato con forza, al pari di ogni assassinio di vittime inermi e innocenti.
E tuttavia non si può che ribadire l'assoluta ed urgente necessità di giungere a un vero accordo di pace tra israeliani e palestinesi, sulla base di reciproci scambi e concessioni, e purtroppo l'attuale politica israeliana fatta di annessioni unilaterali e costruzioni di muri non si muove in questo senso.
E affidarsi solo alla sicurezza preventiva - ormai dovrebbe esser chiaro - non è conducente per nessuno.

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