26 ottobre 2005

Nuovo attentato in Israele.


Poco prima delle 4 di oggi pomeriggio un ennesimo attentato suicida avvenuto ad Hadera, cittadina costiera israeliana, ha provocato almeno cinque morti e numerosi feriti, di cui almeno uno in condizioni critiche: l’esplosione, probabilmente opera di una donna kamikaze, è avvenuta nei pressi di una bancarella che vendeva felafel, all’ingresso di un grosso mercato all’aperto.
L’azione, quasi immediatamente, è stata rivendicata dalla Jihad islamica, come risposta all’uccisione – avvenuta domenica scorsa – di Luai Sa’adi, il capo dell’ala militare dell’organizzazione nel West Bank (vedi “L’allegra mattanza” – 24 ottobre).
Si tratta del primo attentato all’interno di Israele dal 28 di agosto, quando a Be’er Sheva un kamikaze palestinese si fece saltare in aria alla stazione degli autobus ferendo una ventina di persone.
Quasi immediata quanto la rivendicazione di Hamas, è giunta la condanna del Governo israeliano nei confronti dell’Autorità palestinese, accusata di non far nulla per disarmare i terroristi, secondo l’usuale refrain.
Ora, è necessario essere chiari.
Più volte abbiamo ribadito, e ancora una volta purtroppo è doveroso farlo, che gli attentati suicidi contro la popolazione civile inerme ed innocente costituiscono un atto atroce ed immorale, un vero e proprio abominio.
E però – anche questo abbiamo detto – il premier palestinese Mahmoud Abbas era riuscito ad impegnare le fazioni palestinesi ad una tregua, che negli ultimi tempi era stata sostanzialmente rispettata.
A fronte di ciò, nel solo mese di settembre e nella prima metà di ottobre, secondo le statistiche fornite da B’tselem, l’esercito israeliano – tra esecuzioni extra-giudiziarie ed assassinii di civili innocenti – ha ucciso ben 22 Palestinesi, di cui 4 minori di 18 anni, e numerosi altri ne ha feriti, e ciò naturalmente senza considerare i morti di sabato e di domenica.
In un editoriale di ieri su Ha’aretz (“Lift the siege of Gaza”) si poteva leggere: “il Governo Sharon potrebbe erroneamente pensare che il muro, le uccisioni mirate, le sparatorie siano una ricetta efficace per mantenere la calma”: parole che oggi assumono quasi un valore profetico.
Nel mio post “La carta straccia della Roadmap” (22 ottobre) avevo scritto: “non si può pretendere che cessino gli attacchi terroristici se Tsahal continua le sue esecuzioni extra-giudiziarie e i suoi arresti di massa; non si può chiedere che le organizzazioni dei militanti palestinesi depongano le armi se non si dà loro una prospettiva politica che conduca al raggiungimento di un equo accordo di pace, non si può chiedere all’Anp di implementare la road map e rispettare gli obblighi da essa derivanti se per primo è Israele a non rispettarne gli impegni, soprattutto per quanto attiene all’espansione degli insediamenti e alla cessazione degli attacchi contro la popolazione civile…”.
Ma anche questa, purtroppo, era una facile profezia: la pace, per ottenerla davvero, bisogna volerla in due.

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24 ottobre 2005

L'allegra mattanza.

Periodo di straordinari per l’esercito israeliano, neanche per il weekend si fermano i raid dei soldati di Tsahal nei Territori palestinesi e le sistematiche uccisioni di militanti e di civili, al di fuori di ogni controllo e di ogni norma di diritto umanitario.
Domenica 23 ottobre, nel corso di un “tentativo di arresto” operato nel campo profughi di Tul Karm, l’esercito israeliano ha ucciso Luai Saadi, il capo dell’ala militare della Jihad islamica nel West Bank, e Majed al Aksar, un militante del gruppo.
Più volte si è parlato delle operazioni di arresto compiute dall’esercito israeliano, e di come troppo spesso queste si trasformino in una vera e propria uccisione extra-giudiziaria dei militanti palestinesi; sul punto, è sufficiente rimandare all’ottimo report di B’tselem sull’argomento, dal significativo titolo di “Take no prisoners”.
(http://www.btselem.org/English/Publications/Index.asp).
Sabato 22 ottobre, verso sera, l’esercito israeliano ha ucciso il 19enne Abdullah Tamimi, nei pressi della città di Ramallah, in Cisgiordania.
E' successo che i soldati israeliani della riserva avevano intravisto due Palestinesi che camminavano lungo la strada che porta all’insediamento di Neveh Tzuf, uno dei quali trasportava una sacca “sospetta”; ritenendo senza ombra di dubbio che quella sacca servisse a trasportare esplosivi, i valorosi soldatini di Tsahal hanno aperto il fuoco senza esitazione, uccidendo uno dei due Palestinesi.
Solo dopo ci si è resi conto che la sacca trasportava solo delle pietre, ma per il povero Tamimi, purtroppo, era già troppo tardi.
Con questo ennesimo assassinio, illegale e immotivato, sale a 4.853 il numero degli uccisi durante la seconda Intifada, di cui quasi l’80% Palestinesi.
E purtroppo nessuno, nel mondo, trova niente da ridire.

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22 ottobre 2005

La carta straccia della Roadmap.

La settimana che si avvia a concludersi ha visto, ancora una volta, del sangue innocente versato nei Territori palestinesi occupati.
L’episodio più grave si è avuto domenica 16 ottobre, quando militanti palestinesi delle Brigate al-Aqsa hanno aperto il fuoco da un auto in corsa ad una stazione di autostop presso il raccordo di Gush Etzion, un blocco di colonie israeliane nel West Bank, uccidendo tre giovani coloni israeliani e ferendo altre tre persone.
Poco dopo, un ragazzino 14enne israeliano è stato ferito gravemente durante un altro attacco presso la colonia di Eli, sempre in Cisgiordania.
Le tre vittime del fuoco palestinese sono state due ragazze di 23 e 21 anni, Kinneret Mandel e Matat Adler-Rosenfeld, e un ragazzino di 14 anni, Oz Ben-Meir.
Kinneret e sua cugina Matat erano state insieme a Gerusalemme e aspettavano di poter tornare a casa a Carmel; una macchina del loro insediamento si era fermata per prender su alcuni autostoppisti, ma non vi era posto anche per loro e pochi minuti dopo si è scatenato l’inferno, quando da un auto in corsa – probabilmente proveniente da Betlemme – un gruppo di Palestinesi ha cominciato a sparare all’impazzata.
Così ha trovato la morte anche il povero Oz Ben-Meir, il quale con un suo amico stava invece cercando di arrivare a Gerusalemme ed era in attesa di un passaggio; Oz, il secondo di sei fratelli, abitava con la sua famiglia nell’insediamento di Ma’on, vicino Hebron.
E’ largamente diffusa nel mondo arabo l’idea che i coloni israeliani – in quanto residenti illegalmente nei Territori occupati – possano costituire un obiettivo lecito per gli attacchi dei militanti armati, ma questa è pura e semplice follia perché l’uccisione di civili inermi è sempre e comunque un atto immorale oltreché contrario al diritto umanitario, e nessuna lotta di liberazione può giustificare la distruzione di tre giovani vite incolpevoli.
Questi metodi terroristici, peraltro, non aiutano in nulla la causa palestinese, ed anzi a pagare le conseguenze di questo ennesima azione sanguinosa saranno proprio gli abitanti della Cisgiordania, dato che Israele ha immediatamente decretato la chiusura al traffico privato palestinese delle principali strade di congiunzione delle varie comunità con la highway 60, la strada che congiunge Gerusalemme a Nablus ed Hebron, ha ridisposto l’esercito circondando Hebron e Betlemme e ha reinstallato i check points già dismessi intorno a queste due città e a Ramallah, con tutte le conseguenze che ciò comporta per gli spostamenti di lavoratori, commercianti, studenti, nonché delle persone che necessitano di accedere a cure mediche.
Ciò detto, tuttavia, non può essere sottaciuto come il sangue di questi giovani innocenti ricada in pari misura sul governo israeliano, per la cieca e brutale linea di condotta da esso tenuta nei confronti del popolo palestinese.
Il Presidente dell’Anp Mahmoud Abbas era riuscito a promuovere una tregua fra Israele e le varie fazioni palestinesi, tregua che nelle ultime settimane era stata sostanzialmente rispettata da queste ultime.
Ma come ha risposto Israele?
Nella settimana tra il 29 settembre ed il 5 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso 7 Palestinesi, tra cui una donna ed un bambino, a Jenin e Nablus, e ha condotto oltre 30 incursioni nel West Bank arrestando 66 civili, tra cui una donna e due ragazzi; i coloni israeliani, nello stesso periodo, hanno compiuto indisturbati raid contro gli abitanti Palestinesi di Hebron e le loro proprietà, ed hanno divelto oltre 200 alberi di ulivo nel villaggio di Artas, vicino Betlemme.
Nella settimana compresa tra il 6 e il 12 ottobre, Tsahal ha ucciso quattro Palestinesi, tra cui due ragazzi di 15 e 17 anni (vedi “Ombre nella notte”), ha compiuto 26 incursioni in Cisgiordania arrestando 36 civili, ha confiscato 60 ettari di terreni agricoli vicino Nablus per permettere l’espansione dell’insediamento di Shavi Shomron.
Nelle stesse ore dell’attacco di Gush Etzion, nel villaggio di Barqeen, a ovest di Jenin, l’esercito israeliano ha ucciso un militante della Jihad islamica, il 33enne Nehad Abu Ghanem, nel corso di un tentativo di arresto che in realtà si è tramutato nell’ennesimo assassinio extra-giudiziario compiuto da Israele, considerato che l’uomo è stato colpito alla testa da distanza ravvicinata e che i soldati israeliani, per oltre mezz’ora, hanno impedito che si tentasse di soccorrerlo, fino a che non sono stati sicuri della sua morte.
Il 18 ottobre, vicino a Hebron, l’esercito israeliano – in risposta al lancio di alcuni sassi – ha sparato ad altezza d’uomo, ferendo due ragazzini palestinesi, il 12enne Hammam Abu Tharee’ e il 13enne Mohammed Yasser Masalma.
Il 20 ottobre, vicino Hussan, località nei pressi di Betlemme, i valorosi soldatini di Tsahal hanno ucciso il 16enne Akram Zaor, sospettato di voler tirare bombe molotov contro le auto israeliane di passaggio: come sempre, al momento del bisogno, le pietre magicamente si trasformano in bombe o cocktail esplosivi di varia natura!
Nel frattempo, è continuata l’espansione degli insediamenti colonici e il furto di terra a danno dei Palestinesi; è continuata la costruzione del muro di “sicurezza” che taglia quasi in due il West Bank e, soprattutto, tende ad impedire che i Palestinesi possano mai accampare qualche diritto su Gerusalemme est, altro che farla divenire la capitale del futuro Stato Palestinese!
Nel frattempo, è continuata la sequela impressionante di arresti in Cisgiordania – almeno 500 da settembre ad oggi – soprattutto di esponenti di Hamas, nel tentativo da parte di Israele di impedire la partecipazione di questa organizzazione alle prossime elezioni politiche palestinesi.
Nel frattempo, nella Striscia di Gaza è continuata la chiusura del valico internazionale di Rafah e del valico di Beit Hanoun (Erez), rendendo ancora più ridicola la farsa del ritiro israeliano tanto strombazzato dai media: come possa qualificarsi Gaza un territorio “liberato”, infatti, non si capisce proprio, visto che i suoi confini sono sigillati per le persone e per le merci, che lo spazio aereo e marittimo sono controllati da Israele, che persino alla pesca sono imposte severe restrizioni.
Il premier palestinese Mahmoud Abbas ha cercato seriamente di porre un freno al problema del terrorismo, con determinazione che non è disconosciuta nemmeno dagli Israeliani, anche se i risultati non sono stati certo soddisfacenti.
L’Anp si è dimostrata pronta anche allo scontro armato con Hamas, e per questo ha subito anche perdite umane, ha sventato almeno 17 attacchi terroristici nell’ultimo mese e, soprattutto, il suo Presidente era riuscito a convincere le fazioni palestinesi ad una tregua.
Ora l’attacco di Gush Etzion fornisce il destro ad Israele per accusare nuovamente l’Anp di non far nulla di quanto stabilito dalla roadmap ma – come abbiamo visto – è proprio Israele a mancare clamorosamente alle previsioni della roadmap stessa e a non ottemperare a nessuno degli obblighi che pure anche ad esso sono imposti.
In questo quadro fosco, molte speranze erano riposte – almeno da parte Palestinese – nell’incontro tra Abu Mazen ed il Presidente Usa George Bush, avvenuto ieri, ma l’esito dell’incontro è stato assai deludente.
Se da una parte Abbas ha incassato l’atteggiamento neutrale degli Usa rispetto alla partecipazione di Hamas alle prossime elezioni politiche ed un invito, ancorché generico, rivolto agli Israeliani a sospendere l’espansione degli insediamenti colonici, dall’altra nulla ha detto il Presidente Usa riguardo alla sospensione della costruzione del muro, alla cessazione dei raid dell’esercito israeliano, alla liberazione dei prigionieri palestinesi, e Bush non si è neppure impegnato riguardo ad una data limite per la costituzione dello Stato palestinese.
Eppure sono proprio questi i punti focali della questione.
Non si può pretendere che cessino gli attacchi terroristici se Tsahal continua le sue esecuzioni extra-giudiziarie e i suoi arresti di massa; non si può chiedere che le organizzazioni dei militanti palestinesi depongano le armi se non si dà loro una prospettiva politica che conduca al raggiungimento di un equo accordo di pace, non si può chiedere all’Anp di implementare la road map e rispettare gli obblighi da essa derivanti se per primo è Israele a non rispettarne gli impegni, soprattutto per quanto attiene all’espansione degli insediamenti e alla cessazione degli attacchi contro la popolazione civile, così come del resto non rispetta nemmeno le prescrizioni dell’Icj dell’Aja riguardo al muro di “sicurezza”.
Poco prima dell’incontro tra Bush e Abu Mazen, Yuval Steinitz, il Presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, ha affermato che se il Presidente dell’Anp non combatterà più attivamente il terrorismo, Israele potrebbe isolarlo alla Muqata, come aveva fatto per il suo predecessore Arafat.
Bene, è proprio grazie ad atteggiamenti come questo che la roadmap verso la pace può davvero considerarsi morta e sepolta.


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11 ottobre 2005

Ombre nella notte.

Nella notte tra domenica e lunedì il valoroso esercito israeliano ha compiuto l’ennesima prodezza, uccidendo tre Palestinesi disarmati che cercavano di attraversare il confine tra la Striscia di Gaza e Israele nella zona ad est di Deir al-Balah.
Secondo la versione israeliana, i soldati avevano visto nella notte tre ombre “sospette”, tre Palestinesi che si avvicinavano al confine, di cui uno recava con sé una borsa: sospettando che trasportassero esplosivi, i militari israeliani hanno aperto il fuoco, colpendoli con diverse pallottole.
I tre giovani, feriti, sono stati lasciati lì sanguinanti, a morire come cani, senza che i soldati di Tsahal si degnassero di portar loro soccorso: evidentemente non rientra nei loro compiti istituzionali!
Soltanto due ore dopo, ad una ambulanza palestinese è stato concesso di avvicinarsi al luogo della sparatoria, ma al personale medico non è rimasto che il compito di portare via i corpi.
Così hanno trovato la morte Mohammed Suleiman ‘Edwan, di 20 anni, ‘Eissa Suleiman al-Omour, di 17 anni, Bassam Mohammed Suleiman Abu Gharaba, di 15 anni, tre poveri ragazzi disarmati e che non trasportavano alcun esplosivo, la cui unica colpa è stata quella di tentare di infiltrarsi illegalmente in territorio israeliano per cercare lavoro.
Ancora un ennesimo crimine commesso dai soldati israeliani, l’ennesimo uso eccessivo della forza, l’ennesima uccisione di civili innocenti; non è ammissibile – in un Paese civile - che non si tenti nemmeno l’arresto dei sospetti, non è ammissibile che il solo muoversi di alcune ombre nella notte abiliti l’esercito a sparare per uccidere, non è ammissibile che chi tenta di varcare illegalmente la frontiera debba essere massacrato senza alcun controllo e senza alcuna ragione.
L’assassinio dei tre Palestinesi coincide con l’ennesimo allarme attentati lanciato dalle forze di sicurezza israeliane; come è successo anche nelle settimane passate, nessun attentato si è verificato, ma si è raggiunto lo stesso il risultato cercato dai servizi: nuovi arresti di massa, nuove norme in materia di detenzione preventiva, licenza di uccidere a vista qualunque “sospetto”.
E così tre poveri ragazzi che cercavano solo di sfuggire alla miseria e alla devastazione di Gaza hanno pagato il loro sogno con la morte, tre ombre nella notte stroncate dalla furia assassina di Tsahal.

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4 ottobre 2005

Escalation di terrore e morte in Palestina.

Al riparo dell’operazione “cosmetica” costituita dal miniritiro da Gaza e da quattro colonie della Cisgiordania, il governo israeliano ha potuto sguinzagliare i suoi cani di Tsahal in una operazione su larga scala nella Striscia di Gaza e nel West Bank, comprendente il solito repertorio di esecuzioni extragiudiziarie, raid aerei e terrestri, arresti di massa, coinvolgimento di civili inermi.
Ciò, tra l’altro, mostra come Israele continui nella sostanza ad occupare Gaza, visto che vi ha condotto oltre 30 attacchi aerei, distruggendo case ed edifici scolastici e sparando, altresì, vari colpi di artiglieria.
Il vero e proprio bollettino di guerra – relativo al solo periodo compreso tra il 22 ed il 28 settembre scorsi – comprende:
- l’esecuzione extragiudiziaria di quattro palestinesi nella Striscia di Gaza, in due separati attacchi aerei del 24 e 25 settembre, che hanno comportato anche il ferimento di quattro ignari passanti;
- l’uccisione, avvenuta il 22 settembre, di tre militanti armati nel villaggio di ‘Allar e di un civile disarmato a Jenin, che voleva solamente issare una bandiera palestinese nell’avamposto militare “Dutan” appena abbandonato dall’Idf;
- il ferimento di oltre 30 civili e la distruzione di numerosi edifici nella Striscia di Gaza nel corso di ben 27 attacchi aerei contro obbiettivi civili.
In Cisgiordania inoltre, nello stesso periodo, l’esercito israeliano ha arrestato circa 420 Palestinesi “ricercati” nel corso di oltre 100 raids, soprattutto nelle città di Nablus, Ramallah ed Hebron; molti dei “ricercati”, in realtà, erano semplici attivisti e candidati di Hamas alle ultime elezioni municipali, e ciò evidentemente significa che Sharon ha intenzione di mantenere la sua “promessa” di impedire la partecipazione di Hamas alle tornate elettorali.
Molti uffici di assistenza umanitaria e di welfare dell’organizzazione sono stati chiusi, in quanto davano sostegno alle famiglie dei kamikaze, un’altra delle tante forme di punizioni collettive espressamente vietate dal diritto umanitario.
Il 29 settembre, nel corso di due separate serie di scontri armati nella zona di Jenin, sono stati uccisi tre militanti palestinesi, tra cui il capo delle Brigate al Aqsa di Jenin, Samer al Sa’adi; gli altri due morti erano militanti della Jihad islamica, uccisi nel villaggio di Burqin; nel corso di quest’ultima operazione, il fratello di uno dei due uccisi è stato usato dai soldati israeliani come scudo umano.
Il 30 settembre, nel campo profughi di Balata, a Nablus, sono stati uccisi due militanti di Fatah, mentre, quasi contemporaneamente, si compiva l’ennesimo crimine dell’esercito israeliano.
Nel campo profughi di Askar, infatti, i paracadutisti israeliani trucidavano un ragazzino 13enne Palestinese, Udai Tantawi.
Un’indagine preliminare, condotta dal colonnello dell’Idf Yuval Bazak, ha accertato la violazione delle procedure di ingaggio, dato che il ragazzino era chiaramente disarmato e i soldati non erano in alcuna situazione di pericolo.
L’amministrazione israeliana ha contattato la famiglia di Tantawi, e si è detta dispiaciuta dell’accaduto, sostenendo che verrà condotta un’inchiesta.
Ci permettiamo di far osservare, tuttavia, che quasi mai le “inchieste” israeliane conducono ad alcuna condanna per gli autori di assassinii come quello di Udai Tantawi, e ciò accade perché è lo stesso esercito israeliano ad essere chiamato ad indagare ed eventualmente “punire” se stesso!
Non a caso, infatti, il direttore generale del movimento Peace Now, Yariv Oppenheimer, ha subito richiesto che venga condotta un’accurata indagine da parte di organismi esterni a Tsahal.
Ancora morti civili innocenti in Palestina, dunque, che non sono casuali se considerati nel quadro di una serie impressionante di attacchi militari, aerei e terrestri, condotti in spregio ad ogni convenzione di diritto umanitario e senza alcuna cautela e salvaguardia per la vita ed i beni della popolazione palestinese.
Ma, ormai, nemmeno la morte di un povero ragazzino indifeso merita l’attenzione del consesso delle nazioni “civili”.


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