18 settembre 2008

Due destini separati per Gaza e la Cisgiordania?

In questi giorni in cui cade il 15° anniversario degli accordi di Oslo, la soluzione del conflitto israelo-palestinese secondo la formula “due stati per due popoli” appare più lontana che mai, e solo gli Usa restano, almeno ufficialmente, aggrappati alla speranza che un accordo di pace possa essere raggiunto entro la fine del 2008.

Il pericolo piuttosto, vista la distanza tra le parti ed il rifiuto di Israele di discutere i nodi fondamentali del conflitto (Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi, in particolare), è che un accordo di pace non potrà mai essere raggiunto.

Nel campo palestinese si comincia a guardare con sempre maggior favore ad una soluzione che preveda, all’opposto, un unico stato binazionale all’interno del quale arabi ed ebrei godano di eguali diritti, vuoi per intima convinzione, vuoi in maniera strumentale, brandendo questa ipotesi come una minaccia contro gli Israeliani, che tale soluzione hanno sempre aborrito.

Ma, secondo l’analisi svolta da Ghassan Khatib nell’articolo che segue, pubblicato il 13 settembre su Bitterlemons.org e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews, anche la strategia di Israele nei confronti della questione palestinese tende ad abbandonare, non da ora, la strada della soluzione negoziata a due stati, ma con un punto d’arrivo ben diverso: rendere definitiva la separazione tra Gaza e West Bank assegnando il controllo e la responsabilità di questi territori, rispettivamente, all’Egitto e alla Giordania.

Con quale gioia per Mubarak e, soprattutto, per il re Abdullah II si può facilmente immaginare.

In questo quadro assume nuova luce la denuncia delle ong B’tselem e HaMoked, che recentemente hanno sottolineato come Israele tenda sempre più a istituzionalizzare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, attraverso il “congelamento” di fatto dei registri della popolazione civile.

Israele, in sostanza, nega ogni validità ai cambi di residenza da Gaza alla West Bank e viceversa, richiedendo ad esempio a chi risulta registrato nella Striscia un apposito permesso militare per poter rimanere nella propria casa in Cisgiordania, oppure richiedendo un deposito in denaro a chi, da Gaza, deve recarsi in Cisgiordania per sposarsi, a garanzia di un rientro immediato nella Striscia dopo la cerimonia!

E, naturalmente, Israele si riserva di deportare a Gaza chiunque si trovi a risiedere “illegalmente” in Cisgiordania, in spregio a tutti quegli accordi e dichiarazioni che, a partire da Oslo, hanno sempre riaffermato il principio dell’unicità dei territori palestinesi.

Ma sembrano acquistare una luce diversa anche le dichiarazioni di vari esponenti politici occidentali, da ultimo l’ottimo amico di Israele che risponde al nome di Franco Frattini, il quale – in occasione di un convegno all’Aspen Institute – dopo aver ricordato per l’ennesima volta come l’antisemitismo stia dilagando in Europa, confondendosi “con la legittima critica politica” (e dagli!), ha aggiunto che la soluzione del conflitto israelo-palestinese passa attraverso l’adozione di un nuovo “Piano Marshall”, “che nasca da interessi condivisi tra israeliani, palestinesi, ma anche giordani ed egiziani…”.

Nessuno che si preoccupi – nemmeno per sbaglio – di ricordare che la pacificazione tra israeliani e palestinesi deve passare, ancor prima e necessariamente, attraverso il rispetto dei diritti umani, del principio di autodeterminazione dei popoli, della legalità internazionale.

Nessuno che si preoccupi – nemmeno per sbaglio – di propugnare la piena applicazione della risoluzione Onu n.242 del 1967, che oltre a prevedere una soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base di due stati dalle frontiere certe e riconosciute, aveva scolpito quel principio fondamentale per la convivenza tra i popoli che è, o dovrebbe essere, quello dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori altrui attraverso la guerra.


EGITTO E GIORDANIA: DUE DESTINI SEPARATI PER GAZA E LA CISGIORDANIA?
13/9/2008

La strategia di Israele nei confronti dei territori palestinesi è cambiata in maniera significativa dopo il primo accordo raggiunto tra le due parti nel 1993. Tale cambiamento sta costringendo la Giordania e l’Egitto, controvoglia, ad adattarsi.

Prima dell’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1995 da parte di un estremista ebreo, la visione israeliana di una soluzione consisteva nel porre fine all’occupazione di Gaza e della Cisgiordania e di permettere la creazione di uno stato palestinese. Una visione sicuramente non in linea con il diritto internazionale. Al tavolo dei negoziati, Israele continuava a mercanteggiare sull’esatta collocazione dei confini, nonché su alcuni aspetti relativi a Gerusalemme ed alla questione dei profughi. Ma lontano dal tavolo negoziale Israele creava fatti compiuti, costruendo ed espandendo insediamenti, nel tentativo di pilotare il risultato dei negoziati.

Ciò nonostante, le due parti in causa, e terze parti interessate ed impegnate nella questione palestinese, nonché la comunità internazionale in generale, continuavano a promuovere il conseguimento di una soluzione tramite negoziati che implicavano la creazione di due stati sulla base dei confini del 1967. Una strategia perseguita, sebbene in maniera più cauta, anche negli anni intercorsi fra l’omicidio di Rabin e l’ascesa al potere di Ariel Sharon.

Da un punto di vista storico, la soluzione a due stati liberava dal fardello della questione palestinese sia l’Egitto che la Giordania. Il conflitto palestinese era, e rimane, un conflitto dalle notevoli implicazioni emotive per le società arabe, e specialmente per l’opinione pubblica di questi due paesi. Tuttavia, il processo di Oslo ha permesso a entrambi i paesi di fare un passo indietro rispetto a questo conflitto – atteggiamento che è culminato con la decisione presa dal re Hussein (di Giordania, (N.d.T.) ) di disimpegnarsi dalla Cisgiordania, limitandosi ad appoggiare l’OLP come unico rappresentante del popolo palestinese con l’obiettivo di ottenere uno stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza.

Eppure, anche durante tutti questi anni in cui il Likud non ha dominato l’agenda politica israeliana, Ariel Sharon è rimasto saldo nella sua antica convinzione che, se fosse stata necessaria la creazione di uno stato palestinese indipendente, questo stato sarebbe dovuto essere la Giordania. Sharon considerava la Cisgiordania come una parte di Israele e, in ogni caso, riteneva che la popolazione della Giordania fosse a maggioranza palestinese, per cui una soluzione del genere si conciliava con la sua impostazione di estrema destra.

Di conseguenza, quando Sharon salì al potere nel 2001, vi fu una ‘evoluzione’ nella visione strategica israeliana. I leader di Israele continuarono a rispettare solo a parole la soluzione a due stati. Ma, sul terreno, Israele ha in effetti compiuto passi unilaterali per determinare il futuro dei territori occupati e modellare i loro rapporti non solo con lo stato ebraico ma anche con l’Egitto e la Giordania. Mentre i negoziati sono ripresi e sono tuttora in corso, d’altra parte essi servono, principalmente, a dare a Israele il tempo di implementare questa nuova strategia.

Infatti, le pratiche di Israele contraddicono fortemente gli impegni verbali presi dallo stato ebraico nel corso dei negoziati. Israele sta gradualmente separando le politiche di Gaza e della Cisgiordania l’una dall’altra. Allo stesso tempo, sta riducendo la dipendenza di queste due regioni da Israele. Ciò è manifesto nel caso di Gaza, sebbene stia diventando lentamente più evidente anche in Cisgiordania.

La separazione di fatto di Gaza sia dalla Cisgiordania che da Israele, combinata con l’assedio brutale che Israele ha imposto su quella striscia di terra ormai impoverita, ha lasciato ben poche alternative agli abitanti di Gaza oltre a quella di intensificare in un modo o nell’altro i contatti con l’Egitto. E, se da un lato l’Egitto non ha nessun interesse in questo processo, dall’altro non può che adeguarvisi.

Questo spiega il ruolo attivo che l’Egitto ha assunto sia verso la politica interna di Gaza sia nel mediare le relazioni tra Israele e Gaza e, in generale, tra palestinesi, promuovendo il dialogo tra Fatah, Hamas e la altre fazioni.

Ci si può aspettare qualcosa di simile in Cisgiordania, specialmente una volta che Israele avrà finito di costruire il muro di separazione. Questo muro, oltre a separare le aree palestinesi l’una dall’altra, separerà le parti popolate della Cisgiordania da Israele. In questo modo, i palestinesi dovranno necessariamente dipendere da qualcun altro, e questo qualcun altro dovrà per forza essere la Giordania, o quantomeno passare per la Giordania.

Sebbene la Giordania sia meno coinvolta nella politica interna palestinese di quanto lo sia l’Egitto, stiamo assistendo ad un aumento della circolazione tra Giordania e Palestina, oltre che ad una crescita delle relazioni economiche e delle interazioni attraverso il fiume Giordano. Ci sono nuovi progetti; la Giordania fornisce energia elettrica alla parte palestinese della valle del Giordano, compresa la città di Gerico. Inoltre, ci sono notizie, confermate da Hamas, secondo cui l’Egitto starebbe fornendo carburante a Gaza. E’ possibile che il recente riavvio degli sforzi di riconciliazione tra Hamas e il governo giordano faccia parte di questi sintomi di cambiamento.

La Giordania e l’Egitto stanno adattandosi a questo mutamento nella visione israeliana perché non hanno molte alternative. Questi due paesi si trovano a prendere parte, controvoglia, ad una strategia israeliana unilaterale che segna la fine di una soluzione negoziata a due stati.

Ghassan Khatib è vicepresidente della Birzeit University, ed è stato ministro palestinese della pianificazione

Titolo originale:
[1] Forcing the neighbors into play

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26° anniversario della strage di Sabra e Chatila.

16/18 settembre 1982 - 16/18 settembre 2008
26° ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI SABRA E CHATILA
Dalla mailing list Conflitti dell'associazione PeaceLink ricevo e pubblico questo messaggio in occasione del ventiseiesimo anniversario della strage avvenuta nel 1982 in questi due campi profughi situati alla periferia di Beirut, durante la quale vennero massacrati centinaia di Palestinesi inermi, in gran parte donne, vecchi e bambini, il cui numero è stato successivamente stimato secondo cifre che vanno da 1500 a 3500 profughi.

"A 26 anni da quel massacro il governo sionista israeliano continua la sua politica criminale di occupazione e distruzione dei territori palestinesi.
In occasione di questo anniversario la nostra Associazione diffonde un breve filmato di 7 minuti, tratto dal nostro documentario "Libano e Palestina: due popoli in lotta contro l’imperialismo", che ricostruisce tutte le fasi principali di questa orrenda strage con testimonianze dei familiari delle vittime che ogni anno si riuniscono il 16 settembre per chiedere una giustizia che non é mai arrivata.
Al momento é disponibile solo la versione da 1Mb di qualità bassa.
Per avere il DVD completo del documentario scrivi a laltralombardia@laltralombardia.it".

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Summit internazionale delle ong di Palestina e Israele.


Ong di Palestina e Israele, torna il summit internazionale in Toscana


Il 19 e 20 settembre a Pisa 150 organizzazioni non governative al lavoro per la pace - presente Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento Ue

“Il ruolo dell'Europa nella risoluzione del conflitto Israelo-Palestinese”: torna in Toscana l'appuntamento internazionale del Forum per la Pace delle Ong israeliane e palestinesi.

A Pisa venerdì 19 e sabato 20 settembre si ritroveranno nelle sale del Centro Congressi del My One Hotel i rappresentanti di 50 Ong palestinesi e di 50 Ong israeliane per lavorare sui temi della pace. Insieme a loro, i rappresentanti di altrettante Ong italiane ed europee.
La conferenza, organizzata dalla Regione Toscana con il sostegno dell'Unione Europea e rivolta agli operatori, si svolge sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e rappresenta il secondo appuntamento di questo tipo che si svolge in Toscana con la partecipazione della società civile di Israele e Palestina.
Dopo il felice esordio dello scorso anno, che vide impegnate le Ong in una tre giorni di lavori a Montecatini e a Firenze, questa è l'occasione per ritrovarsi e confrontare il lavoro compiuto, ma soprattutto per gettare la base di nuovi progetti comuni. Progetti che riguarderanno temi primari come la tutela dei diritti civili e umani, gli aiuti umanitari, la salute, l'istruzione, la ricerca e l'università, la salvaguardia dell'ambiente, ma anche l'informazione.


Programma del Forum.
I lavori cominceranno venerdì, 19 settembre, intorno alle 10, con i saluti del sindaco di Pisa, Marco Filippeschi e quelli del presidente della Provincia, Andrea Pieroni. Subito dopo sarà l'assessore regionale alla pace e riconciliazione, Massimo Toschi, a svolgere l'intervento introduttivo che, insieme a quelli dei capidelegazione, il palestinese Saman Khoury, e l'israeliano Ron Pundak presidente del Centro Peres per la pace, oltre all'intervento di Anne Luvigsson, parlamentare svedese e rappresentante del Centro “Olof Palme” porterà nel cuore dei lavori della conferenza.

Sempre nella mattinata del 19 settembre si potranno ascoltare i contributi dell'ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir, e di un rappresentente dell'ambasciata palestinese. Nel pomeriggio due workshop. Il primo dedicato a fare il punto della situazione del negoziato per la pace in corso, alla luce dell'iniziativa araba, e l'analisi del contributo potenziale delle iniziative di pace regionali. Il secondo dedicato più in particolare al ruolo della società civile israeliana, palestinese e di quella europea, nella costruzione della pace attraverso la cooperazione trilaterale.
L'intervento del presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, intorno alle 11,30 della seconda giornata di lavori, sabato 20 settembre, vertera' sul tema “La scommessa della pace”. Prima di lui testimonianze di personalità provenienti da altri paesi, la cui storia è stata segnata dal conflitto, come l'Irlanda del Nord e il Sudafrica. Seguirà un workshop che permetterà di approfondire il ruolo della società civile nelle situazioni di conflitto.

Nel pomeriggio di sabato 20 settembre, intorno alle 15,30, attesi gli interventi di Stefano Cacciaguerra, responsabile della cooperazione decentrata della Farnesina e della vicepresidente del parlamento Europeo, Luisa Morgantini. Infine spazio alla presentazione di programmi di cooperazione particolarmente significativi, come Med Cooperation, che vedono la partecipazione di varie regioni italiane e la presentazione della Conferenza Europea delle autorità locali per la cooperazione e la pace che si terrà a Venezia il 27 e 28 settembre.

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2 settembre 2008

L'ennesima "generosa" offerta di Israele.

Ormai alla vigilia delle sue annunciate dimissioni, il primo ministro israeliano Ehud Olmert sta compiendo ogni sforzo possibile per convincere il presidente palestinese Abbas a concludere quell’accordo, ormai noto come “shelf agreement”, che dovrebbe prefigurare i principi generali della pace tra Israeliani e Palestinesi e dei rapporti tra Israele e il futuro stato palestinese.

Olmert, che deve anche far fronte al “fuoco amico” della Livni e di Ehud Barak, per vari motivi contrari a questo accordo dell’ultimo minuto, non ha più il tempo, naturalmente, per ulteriori negoziati che portino ad un accordo più dettagliato; il problema, tuttavia, è che non solo alcuni punti che resterebbero al di fuori dell’accordo sono tutt’altro che “dettagli” marginali, ma che persino le proposte rese esplicite risultano difficilmente accettabili per la controparte palestinese.

Ma cosa prevedono, in particolare per quanto riguarda i confini, le proposte israeliane?

Israele terrebbe per se circa il 7% della West Bank, dando in cambio ai Palestinesi una estensione di territori vicini alla Striscia di Gaza equivalenti a circa il 5,5% della Cisgiordania medesima; verrebbe altresì assicurato il passaggio, senza alcuna restrizione, da Gaza alla Cisgiordania e viceversa, e gli Israeliani intendono tale libertà di movimento come compensazione ai Palestinesi per l’1,5% di differenza (e ciò sia pure mantenendo il controllo del territorio su cui si concretizzerebbe detto “passaggio”).

Dunque la terra che Israele vorrebbe annettersi ricomprende i maggiori blocchi di insediamenti colonici (Ma’aleh Adumim, Gush Etzion, le colonie intorno a Gerusalemme) e il confine correrebbe lungo il perimetro del muro di “sicurezza”: con il che si dimostra – ancora una volta e come se ce ne fosse bisogno – che l’intento del muro non era affatto la “sicurezza” ma la sottrazione dei territori ai legittimi proprietari palestinesi.

Il che è anche comprensibile dal punto di vista ebraico (dopo tutti quei bei soldini spesi per costruire il muro…), ma il problema è che queste terre rappresentano circa l’80% delle risorse idriche cisgiordane, in cambio delle quali i Palestinesi riceverebbero una porzione desolata di deserto del Negev adiacente alla Striscia di Gaza: di tutta evidenza, non si tratta certo di uno scambio vantaggioso per i Palestinesi!

Questo senza considerare che, nel contesto dell’accordo, Israele manterrebbe il controllo di ampie estensioni del territorio palestinese tra cui, in particolare, la Valle del Giordano, considerata una necessaria zona “cuscinetto” per prevenire eventuali attacchi arabi (torna ancora la scusa della sicurezza…); già da tempo, peraltro, gli Israeliani hanno totale libertà di accesso e di movimento nella regione, mentre i Palestinesi sono soggetti a infinite restrizioni, ivi inclusa quella di potersi fare un bagno nelle acque del Mar Morto, così, giusto per non infastidire gli ebrei in vacanza.

Ma l’aspetto francamente più incredibile e sconcertante della “generosa” proposta di Israele consiste nelle fasi di implementazione del piano di pace: Israele riceverebbe subito i blocchi di insediamenti – all’interno dei quali sarebbe pienamente libero di costruire nuove unità abitative – mentre la rimozione dei coloni a est del muro, il trasferimento delle terre ai Palestinesi e la creazione di un passaggio libero tra la Striscia di Gaza e la West Bank avverrebbero soltanto in un secondo momento, e precisamente solo dopo che l’Anp abbia compiuto una serie di riforme interne, abbia dimostrato di saper mantenere l’ordine e la sicurezza, abbia ripreso il controllo della Striscia di Gaza.

Davvero una trovata geniale, quella di Olmert: Israele otterrebbe subito la legittimazione delle colonie e della sua (peraltro mai interrotta) attività di costruzione di nuove abitazioni destinate ai settlers, ricevendo nel contempo l’entusiastico plauso della comunità internazionale, mentre i Palestinesi vedrebbero rinviata la costituzione del proprio Stato e la compensazione per le aree cedute a data da destinarsi. E questo, per chi negli anni ha visto quanti accordi menzogneri ha sottoscritto Israele, a cominciare dall’accordo AMA sull’accesso e movimento da e per Gaza, è francamente inaccettabile.

Last but nont least, si può marginalmente aggiungere che il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi viene sostanzialmente negato e, soprattutto, che non si parla per nulla della questione più sensibile – ovvero quella di Gerusalemme – e tutto questo rende la proposta israeliana assolutamente irricevibile, anche per l’accomodante duo Abbas-Fayyad.

E, difatti, essa è stata rispedita al mittente con le ovvie parole del negoziatore palestinese Saeb Erekat: o si raggiunge un accordo su tutte le questioni oppure non vi sarà alcun accordo.

Per dirla con le parole di un noto politico palestinese,
Mustafa Barghouti, “il piano che Olmert ha posto sui tavoli di negoziazione … è un tentativo di eludere, eliminandole, quattro questioni dello status definitivo: Gerusalemme ed i profughi, colonie ed annessione di vaste zone della Cisgiordania, posponendo tutto il resto fino a quando le realtà sul terreno non rendano parimenti superflua ogni richiesta palestinese. In breve, è un tentativo di trasformare ogni idea di uno Stato indipendente in cantoni isolati, amministrati da una autorità non sovrana, prigioniera in un regime di apartheid.

Una pace equa e duratura, chiaramente, è tutta un’altra cosa.

Su quanto fin qui detto, voglio riportare un articolo di Ran HaCohen, apparso il 27 agosto su antiwar.com e qui proposto nella traduzione di Paola Canarutto per il sito web degli
Ebrei Contro L’Occupazione.

Aggiungo solo che è ora che la comunità internazionale si desti dal suo torpore e da una colpevole inerzia per far sentire il suo peso, con l’equità di un honest broker che sia davvero tale, tenendo presente che la base per un piano di pace che contemperi le esigenze di entrambi le parti in conflitto non può che risiedere nello spirito e nella lettera della risoluzione Onu n.242 del 1967, giustamente richiamata in ogni documento successivo che abbia riguardato la materia.

Un eventuale accordo tra le parti che modifichi le condizioni poste da detta risoluzione, condotto al di fuori di un quadro di mediazione internazionale che contemperi e tuteli sia gli interessi palestinesi sia quelli israeliani, avrebbe peraltro una dubbia legittimazione giuridica, in quanto raggiunto tra due parti, una delle quali in condizioni di estrema soggezione e di palese inferiorità economica e militare.


Cambiar nome all’occupazione
Scritto da Ran HaCohen

Antiwar.com, 27 agosto 2008

Meron Benvenisti, in un eccellente articolo (1) menziona il “successo della campagna propagandistica nota come 'negoziati con i Palestinesi', che convince molti dell'idea che lo status quo sia temporaneo. È vero che non vi è miglior modo per descrivere le discussioni in atto fra i due politici che hanno i giorni contati – Ehud Olmert e Mahmoud Abbas - che come un passatempo orchestrato dall'amministrazione Bush. In passato, si supponeva che le conferenze di pace portassero ad un accordo di pace, che, a sua volta, avrebbe condotto alla pace; ora non si presume nemmeno tanto poco. Cosa ci si aspetta di ottenere dai negoziati è, nella migliore delle ipotesi, un accordo simbolico, da implementare, o no, in qualche momento vago del futuro. Nessuno crede che lo si possa raggiungere, come approvato, per la fine dell'anno – non che alcuno se ne curi, in realtà.

Ma lo spettacolo deve andare avanti. La scorsa settimana i giornali hanno annunciato un grande balzo in avanti: l'Israele di Olmert ha presentato una proposta dettagliata per lo status definitivo. In negoziati veri, si sarebbe potuto dire: “Ora sappiamo quel che vuole Israele”. Ma non è questo il caso, perché, come tutti sanno, il Primo Ministro Olmert non conta più. Allora, qual è il valore della proposta? Non sappiamo veramente quel che vuole Israele, ma almeno possiamo riconoscere quel che è disposta a dire.

Questo è un punto importante, nel discorso politico israeliano. Negli ultimi quindici anni, è stato un argomento centrale della controversa tra la sinistra sionista e quella radicale. Chiunque sia onesto deve ammettere che nulla è cambiato sul terreno, o per lo meno non per il meglio: l'occupazione, che si presupponeva avrebbe dovuto terminare sin dal 1993, è peggiorata per tutto il tempo, e le colonie illegali israeliane crescono come un tumore fatale. La sinistra radicale considera ciò come prova del fatto che Israele non nutre alcun proposito di far finire l'occupazione. La sinistra sionista, tuttavia, argomenta in modo diverso: “Ascolta come parlano”. É vero che la realtà di Cisgiordania e di Gaza è grave come non mai, ma, sostiene la sinistra sionista, ora in Israele persino la corrente maggioritaria parla apertamente di uno Stato palestinese, ed è inevitabile che le parole divengano fatti – se solo sosteniamo i buoni (Rabin, Peres, Barak etc., - persino Sharon, abbastanza saggio da unirsi al club), che continuano a consolidare l'occupazione, mentre sostengono di volerla terminare.

La nuova e generosa offerta
Vediamo allora quel che oggi l'Israele ufficiale è in grado di dire – non di fare. La proposta per lo status definitivo, secondo Ha'aretz (2), comprende i seguenti punti:
* Israele si ritira da circa il 93% della Cisgiordania, tenendo Ma'aleh Adumim, Gush Etzion, le colonie intorno a Gerusalemme, e alcuni terreni nel nord della Cisgiordania, adiacenti ad Israele: in tutto, il 7% del territorio cisgiordano.
* In cambio, i palestinesi riceverebbero terreni alternativi nel Negev, adiacenti alla Striscia di Gaza, equivalenti al 5,5% della Cisgiordania.
* Passaggio libero fra Gaza e la Cisgiordania, senza controlli di sicurezza.
* La proposta rifiuta un “diritto al ritorno” per i profughi palestinesi, ma include una “formula complessa e dettagliata” per risolvere il problema. (Non sono forniti dettagli).
* Olmert ha concordato con Abbas di posporre i negoziati su Gerusalemme.

Ora, questo non suona affatto molto attraente, neppure come “accordo simbolico”. Gerusalemme è un punto chiave di cui non ci si è occupati affatto. Inoltre, come spiega Ha'aretz, “la proposta di Olmert per uno scambio di territori introduce un nuovo stadio nel patto: Israele riceverebbe immediatamente i blocchi di colonie, ma i terreni da trasferire ai palestinesi, ed il passaggio libero fra Gaza e la Cisgiordania sarebbero consegnati dopo che l'AP abbia ripreso il controllo della Striscia di Gaza” (marcatura mia). Le possibilità che l'AP riprenda il controllo della Striscia di Gaza sono forse ancora più basse di quelle che Hamas prenda il controllo della Cisgiordania, ma, per Israele, questo rende la proposta ancora più invitante: prendiamo le merci ora, ma pagheremo solo dopo l'arrivo del Messia.

Ha'aretz sceglie di includere un inevitabile punto propagandistico, in un rapporto peraltro ricco di informazioni: “Negli ultimi pochi mesi, Olmert ha approvato la costruzione di migliaia di appartamenti in questi blocchi di colonie, per la maggior parte intorno a Gerusalemme; alcuni dovrebbero servire agli sfollati volontari”. Come sempre, Israele infrange la legge internazionale e costruisce ancora più case nelle colonie illegali (3). Ma lo fa con un solo obiettivo in mente: la pace. È certo che il miglior modo di por termine all'occupazione è quello di costruire migliaia di nuove case israeliane in territorio occupato. Il costruirle è una (ulteriore) prova del profondo impegno di Israele per la pace.

Perché questo eterno pessimismo?
Ma comunque, si potrebbe argomentare, ma comunque. È chiaro che la proposta di Olmert non sarà mai implementata. Certo che è incompleta, dubbia, e chiaramente non generosa. Ma comunque: Israele è pronto a dichiarare apertamente il proprio impegno per l'idea di uno Stato palestinese sul 93 per cento della Cisgiordania, più un 5,5% di territori da scambiare. Non significa ammettere, finalmente, che l'occupazione ha i giorni contati? Quindi, persino un parlamentare del Likud, partito di destra, ha accusato il Kadima di portare avanti l’ottica della sinistra sionista: “Qualunque appartenente alla fazione del Meretz [di sinistra] avrebbe potuto firmare la proposta di Olmert”. Quale miglior prova della bontà di una proposta, se non gli attacchi della destra?

"Assetti securitari”
Non è proprio così. Come menzionato molto brevemente nel rapporto di Ha'aretz, “Israele ha anche presentato ai palestinesi un modello dettagliato di nuovi assetti securitari, in base alla proposta di accordo”. In un primo momento non è stato fornito alcun dettaglio. Perché sciupare la festa per la pace con piccole questioni tecniche? Il rapporto iniziale menzionava solo una richiesta che lo stato palestinese fosse smilitarizzato e senza un esercito – richiesta che i Palestinesi più o meno accettano. Ma, ovviamente, il giorno dopo si è riferito che i Palestinesi avevano rifiutato la proposta di Olmert in quanto “non seria” - in pieno accordo con il fraintendimento israeliano circa il cosiddetto “rifiuto palestinese”, dal 1947 a tutt’oggi.

Si è dovuto attendere un paio di settimane per scoprire il significato reale di quegli “assetti securitari”. Martedì, Ha'aretz ha riportato: “I Palestinesi si oppongono ad ogni presenza militare israeliana nel territorio di un loro futuro Stato”. Ancora una volta, quindi, quelle irragionevoli richieste palestinesi: perché devono insistere per uno stato indipendente, senza una presenza militare israeliana?! Sanno per certo che i soldati di Israele sono bei ragazzi diciottenni, che non compiono mai alcun male. Ma non finisce qui. Il rapporto afferma inoltre: “Per parte sua, ad Israele piacerebbe sovrintendere ai passaggi di frontiera, mantenere uno spiegamento limitato nella Valle del Giordano, continuare i sorvoli sul territorio palestinese, mantenere postazioni di allarme sulle creste montuose, e tenere unità per risposte di emergenza in aree palestinesi” (4)..

Ah, è questo quel che significa Israele, per “soluzione di due Stati”: uno “Stato” “palestinese” “indipendente” con supervisione israeliana ai passaggi di frontiera, pieno di soldati israeliani, jet israeliani, postazioni militari israeliane – e, naturalmente, il diritto di Israele di inviarvi ancora più soldati in “tempi di emergenza”. Per smascherarla, dovremmo proporre la reciprocità? Che pensare di un controllo palestinese sui passaggi di frontiera israeliani, una presenza militare palestinese lungo la costa mediterranea di Israele, una libertà per i jet palestinesi di volare sopra Tel Aviv e Dimona, postazioni militari palestinesi a Haifa e Ramat Yishai, unità palestinesi per una risposta di emergenza in aree israeliane? È ovvio: questi “patti di sicurezza” sono del tutto incompatibili con uno Stato sovrano ed indipendente.

La proposta israeliana, come evidenziano i suoi “assetti securitari”, dimostra ancora una volta che Israele non è un partner per la pace. Sul terreno, tutto quello a cui aspira è il tempo per espandere le colonie e strangolare la società palestinese, sperando che il “problema palestinese”, finisca per scomparire. Sul piano del discorso, tuttavia, va altrettanto male. Malgrado la falsa impressione contraria, coltivata dalla propria macchina propagandistica, Israele rifiuta chiaramente il concetto di uno Stato palestinese indipendente, che non sia un Bantustan sotto il proprio totale controllo. A chi si domanda perché il conflitto israeliano-palestinese resta irrisolto, ecco la semplice risposta: la soluzione dei due Stati, proposta dall'ONU 60 anni fa ed avallata dai palestinesi anni fa, è ancora inaccettabile alla leadership militare e politica israeliana.

1) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1013974.html
2) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1010663.html
3) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1015162.html
4) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1014944.html

Testo inglese: http://antiwar.com/hacohen/
traduzione di Paola Canarutto

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