30 novembre 2005

Scontri a Nablus e a Betlemme, feriti numerosi civili palestinesi.

Stamattina ennesimo raid dell’esercito israeliano nella città di Nablus, nel West Bank, ed ancora una volta l’uso indiscriminato delle armi da parte di Tsahal mette a repentaglio l’incolumità della popolazione civile palestinese.
L’operazione, condotta con l’appoggio di una quarantina di automezzi e di alcuni elicotteri Apache, era mirata all’arresto di due militanti ricercati e tuttavia, alla fine, fonti mediche palestinesi hanno comunicato che vi erano stati vari feriti tra la popolazione civile, in particolare due Palestinesi feriti da colpi d’arma da fuoco e altri otto colpiti da proiettili rivestiti di gomma.
Tra questi ultimi anche un bambino di 14 anni, colpito al capo e tutt’ora ricoverato presso l’ospedale locale in gravi condizioni.
L’esercito israeliano, more solito, ha respinto ogni accusa, affermando che tutti i feriti erano militanti palestinesi coinvolti in scontri a fuoco con i soldati.
Ma si tratta di una bugia dalle gambe corte, come dimostra di tutta evidenza proprio il munizionamento usato dai soldati israeliani: i proiettili rivestiti di gomma, infatti, vengono usati da Tsahal per disperdere civili non armati, non certo per affrontare degli scontri a fuoco!
Il vero è che, ancora una volta, l’uso dei cd. “non-lethal weapons” dimostra che questi proiettili non sono così “innocui” come dovrebbero, e come conseguenza un bambino di 14 anni in queste ore lotta contro la morte.
Ieri, martedì 29 novembre, si è verificato uno scontro a fuoco tra poliziotti dell’Autorità palestinese ed una unità sotto copertura dell’esercito israeliano, nella città di Betlemme.
A parte il reciproco scambio di accuse tra Israeliani e Palestinesi su chi avesse per primo aperto il fuoco, resta il fatto che le autorità palestinesi non erano state informate dell’azione e che questo “incidente” ha provocato il ferimento di due Palestinesi, un poliziotto e un ragazzino di 17 anni, Fahim Za’aqeq.
In questi ultimi tempi, le azioni dei “travestiti” dell’Idf nei Territori occupati – soprattutto ad opera dell’unità “Duvdevan” - sono sensibilmente aumentate di numero, e nella maggioranza dei casi hanno dato luogo ad assassinii extra-giudiziari, vietati dal diritto internazionale.
Tra i tanti, vorrei ricordare il raid compiuto nella notte tra il 24 ed il 25 agosto, durante il quale – secondo l’entusiastico comunicato ufficiale dell’esercito israeliano - furono uccisi cinque terroristi coinvolti in due attentati a Netanya; una successiva inchiesta condotta da Ha’aretz e da B’tselem, dimostrò, invece, che ad essere assassinati a sangue freddo dai prodi soldatini di Tsahal erano stati cinque civili innocenti, tra cui tre studenti di liceo, assolutamente estranei a quei fatti (vedi “Ancora civili innocenti massacrati dall’esercito di Israele”, giovedì 15 settembre).
Piacerebbe conoscere il pensiero della “Sinistra per Israele” su questi fatti, su come sia possibile ritenere accettabile, un giorno di più, la brutale occupazione militare dei Territori palestinesi, la sistematica violazione del diritto internazionale da parte di Israele, il pesante coinvolgimento della popolazione civile nelle operazioni militari, in spregio ad ogni norma di diritto umanitario.
(fonti: Ha'aretz - Imemc News)

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24 novembre 2005

Operazione di routine.

Da ieri, 23 novembre, sono in corso duri scontri a Jenin, nel West Bank, città che più e più volte, in questi ultimi anni, ha dovuto subire duramente il peso degli attacchi dell’esercito israeliano e i cui abitanti hanno pagato un pesantissimo prezzo in termini di vite umane.
Secondo fonti dell’esercito israeliano (citate da ha’aretz, 23/11), doveva trattarsi di una semplice “operazione di routine”, mirata alla ricerca di terroristi palestinesi: beh, alla faccia della routine, se vogliamo considerare che i soldati di Tsahal avevano l’appoggio di 70 jeep, 25 semicingolati e vari bulldozer!
Il risultato più eclatante del raid dell’Idf è stato l’arresto di un importante esponente della Jihad islamica, il 31enne Abu Rob, che gli Israeliani considerano direttamente coinvolto in vari attentati terroristici, tra cui quello di ottobre a Hadera.
L’arresto non è stato in verità molto semplice, dato che Abu Rob si è arreso stamattina solo dopo un assedio durato circa 20 ore intorno all’edificio in cui si era rifugiato, e dopo che i militari israeliani avevano sparato alcuni missili anticarro all’interno dell’edificio stesso.
Naturalmente i giornali israeliani hanno dato grande risalto alla notizia dell’arresto del militante della Jihad, ma molto minor rilievo al fatto che ieri, durante l’operazione, è rimasto ucciso un civile palestinese, assolutamente non coinvolto negli scontri.
E’ successo infatti che, all’annuncio del coprifuoco imposto dalle forze armate israeliane, molti residenti hanno iniziato a tirare pietre contro gli automezzi blindati di Tsahal, e i prodi soldati israeliani, more solito, hanno risposto sparando all’impazzata.
Risultato: 12 Palestinesi feriti più o meno gravemente e un morto, il 28 enne Salah Fuqaha, ucciso da un proiettile alla schiena; secondo testimoni palestinesi, Fuqaha era un giovane che soffriva di disturbi mentali e non era tra quelli che tiravano pietre, né stava partecipando in alcun modo agli scontri, come peraltro dimostrerebbe il fatto che è stato ucciso con un colpo di fucile alla schiena.
Naturalmente diversa è la versione dell’esercito israeliano, secondo cui i Palestinesi erano tutti coinvolti in scontri a fuoco con le truppe: sarà anche vero, certo che è ben strano che morti e feriti stiano sempre dalla parte dei Palestinesi…
Secondo l’organizzazione palestinese per i diritti umani PCHR, nel periodo 17 – 23 novembre l’esercito israeliano ha ucciso quattro Palestinesi, tra cui due militanti eliminati extra-giudizialmente e due civili, ne ha feriti undici, tra cui 4 ragazzini, e ne ha arrestati 35, inclusi 18 minorenni.
Nel frattempo, il panorama politico israeliano si è improvvisamente animato, con l’emergere di Peretz a capo del Labour e con la decisione di Sharon di fondare un proprio partito, uscendo definitivamente dal Likud.
Grosse novità, dunque, ma che pare non siano destinate a interessare i Palestinesi, dato che nessun politico israeliano ha inteso spendere neanche una parola per cercare di fermare il quotidiano massacro della popolazione civile dei Territori; anzi, c’è solo da sperare che la prossima campagna elettorale (in Israele si voterà alla fine del marzo 2006) non si giochi anche sulla pelle (e con il sangue) di questo popolo ormai abbandonato a sé stesso.
“Operazione di routine”, si diceva all’inizio, beh, certo, ormai l’assassinio di civili palestinesi nei Territori occupati è divenuta davvero una triste routine quotidiana.

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22 novembre 2005

Replay.

La settimana scorsa si è chiusa con l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria di due militanti palestinesi, e con l’ennesimo “incidente” in cui l’esercito israeliano ha sparato ad un ragazzino, questa volta – per fortuna – ferendolo in modo lieve.
Un amico qualche tempo fa ha scritto che il mio blog è un po’ monotono, e si tratta di un’osservazione assolutamente esatta, ma il problema è che le vicende e i drammi quotidiani del popolo palestinese tendono a susseguirsi come in un eterno replay, tetro ed angosciante.
Non è che in questi mesi non vi siano stati dei piccoli passi in avanti, delle buone notizie, il ritiro da Gaza e il recente accordo tra Israeliani e Palestinesi relativo al transito presso il valico di Rafah ne sono un esempio, così come l’elezione di Peretz alla guida del Partito laburista israeliano, che apre nuove prospettive politiche e fa sperare in un reale cambiamento nell’atteggiamento israeliano nei confronti della questione palestinese.
Ma, riferendoci più strettamente alla quotidianità della vita nei Territori ed alla brutalità dell’occupazione militare israeliana, non si può non osservare, con grande amarezza, che nulla cambia, morti, feriti, devastazione e violenza continuano senza sosta, nel più totale e colpevole silenzio della comunità internazionale, nella più totale e colpevole indifferenza dei media di “regime”, sempre pronti a indignarsi di fronte ad attentati terroristici ma anche a semplici esternazioni verbali, se pur minacciose ed aggressive, costantemente silenti (con poche, lodevoli eccezioni) davanti allo stillicidio quotidiano delle uccisioni di civili palestinesi ad opera di Tsahal.
Giovedì 17 novembre, nel corso di una operazione a Jenin di cui già si è detto (vedi “Esecuzioni sommarie”, 17/11), unità sotto copertura dell’esercito israeliano – probabilmente appartenenti alla famigerata Duvdevan – hanno ucciso due militanti palestinesi, entrambi di 20 anni, Ahmad Abahra e Mahmoud Zayed.
I due, che appartenenevano alle Brigate al-Aqsa (l’ala militare di al-Fatah), nel tentativo di aggirare un posto di blocco israeliano, avrebbero rifiutato di obbedire alle intimazioni di alt dei soldati, che hanno quindi aperto il fuoco, uccidendoli sul colpo.
Diversa, tuttavia, è la versione palestinese, secondo cui i due militanti sarebbero stati uccisi dai colpi sparati da soldati sotto copertura, a bordo di un camioncino Mercedes con targa palestinese, i quali avrebbero aperto il fuoco, senza alcun preavviso o avvertimento di sorta, contro l’auto su cui viaggiavano Abahra e Zayed, colpendoli entrambi al capo.
Si tratterebbe, dunque, dell’ennesima esecuzione extra-giudiziaria di Tsahal, la terza in cinque giorni!
Non ci stancheremo mai di ripetere che queste esecuzioni sono dei veri e propri assassinii, dei crimini commessi a danno di persone che vengono condannate a morte e giustiziate senza alcuna possibilità di difendersi e di appellarsi ad un tribunale.
Dopo l’uccisione dei due Palestinesi, l’esercito israeliano, come di consuetudine, ha emesso un comunicato a “giustificazione” dell’operato dei suoi prodi soldatini, che più o meno suona così: fermo restando che noi abbiamo sempre ragione e che anche questo assassinio è stato “appropriato”, comunque va detto che quei due se lo meritavano; entrambi, infatti, “erano coinvolti in attacchi contro l’esercito”, e uno dei due, inoltre, era armato di pistola.
Come, prego? Avete capito bene, i due poveri ragazzi palestinesi giustiziati dall’Idf non erano neanche pericolosi terroristi coinvolti in attentati, non erano nemmeno delle “bombe ticchettanti”, locuzione con cui Israele solitamente giustifica le sue esecuzioni extra-giudiziarie, indicando dei terroristi che sono in procinto di compiere degli attentati.
Al massimo, Abahra e Zayed erano due resistenti – in altro tempo e luogo sarebbero stati due partigiani – che legittimamente avevano combattuto contro un esercito occupante brutale e feroce.
Questo sempre che le ipotesi di accusa dell’esercito israeliane siano vere, ma questo, purtroppo, nessuno potrà mai più saperlo con certezza.
Ciò che è certo è che due ragazzi palestinesi di vent’anni sono stati uccisi a sangue freddo solo perché appartenevano ad una organizzazione di miliziani vicini ad al-Fatah, il che fa di quest’atto un assassinio ingiustificato, un crimine abietto, una palese violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario, l’ultima di una lunga serie che non pare suscitare, tuttavia, alcuna seria obiezione da parte dei governi degli Stati occidentali.
Venerdì 18 novembre, nel villaggio di Silwad, a nord di Ramallah, truppe israeliane hanno ferito lievemente ad una gamba un ragazzo 17enne palestinese che aveva in mano una pistola giocattolo, avendolo scambiato per un militante armato.
La vicenda potrebbe essere derubricata tra quelle tutto sommato a lieto fine, ma merita di essere raccontata nei dettagli perché rivelatrice dell’approccio dell’esercito israeliano nelle sue “gite” all’interno dei Territori occupati.
Secondo un comunicato dell’Idf (riportato da ha’aretz, 18 novembre), i soldati israeliani erano appena entrati nel villaggio quando, all’improvviso, “hanno ritenuto di aver udito sparare dei colpi d’arma da fuoco”; avvicinatisi al luogo da cui sembravano provenire gli spari, i soldati hanno visto il ragazzo con la pistola giocattolo e gli hanno sparato, e soltanto dopo si sono accorti dell’errore.
Sembra una comica, degli agguerriti soldati che scambiano lo scoppio di un petardo o il rumore di uno scappamento per dei colpi d’arma da fuoco, si mettono a tremare dallo spavento e cominciano a sparare all’impazzata, scambiando un ragazzino con una pistola giocattolo per un pericoloso miliziano armato fino ai denti!
Ma naturalmente le cose non stanno così.
I soldati israeliani sono tra i migliori al mondo, perfettamente addestrati ed abituati al combattimento in centri urbani, non è che si lascino impressionare facilmente.
Il vero è, dunque, che sono le regole d’ingaggio che consentono ai soldati di Tsahal di sparare per uccidere prima, e di controllare a chi si è sparato poi, e magari di dispiacersi se si è ucciso un ragazzino innocente, come è successo a Jenin il 3 novembre, quando truppe israeliane hanno ucciso il 12enne Ahmed al-Khatib che era appena uscito da casa con in mano il suo fuciletto giocattolo regalatogli per la festa dell’Id al-Fitr.(vedi “Guerra aperta”, 4 novembre).
E il tiro a segno dei prodi soldatini di Tsahal è di fatto incoraggiato dalla pressoché assoluta licenza di uccidere conferita loro dagli alti comandi e dall’apparato giudiziario militare, dato che è un evento rarissimo trovare degli esempi di militari condannati per uso illegittimo delle armi o per omicidi ingiustificati.
Secondo Human Rights Watch, che sull’argomento ha pubblicato un circostanziato report (“Promotin Impunity: The Israeli Military’s Failure to Investigate Wrongdoing”, disponibile su http://hrw.org/reports/2005/iopt0605), a fronte degli oltre 1.722 civili palestinesi innocenti uccisi da Tsahal al 30 giugno di quest’anno (e delle altre diverse migliaia feriti più o meno gravemente), si sono avute soltanto 19 incriminazioni e “ben” 6 (sei!) condanne: di queste la più grave è stata una condanna alla detenzione per 20 mesi, ma in tutti gli altri casi – come ha notato Hrw – le pene sono state meno severe di quelle, per fare un esempio, comminate agli obiettori di coscienza.
A seguito di questi episodi, il numero dei morti dall’inizio della seconda Intifada sale a 3.743 Palestinesi (dato aggiornato al 18/11) e a 1.074 Israeliani (dato aggiornato all’1/11), mentre il totale dei feriti è pari, rispettivamente, a 29.252 e a 7.520.
Sempre venerdì, secondo la radio israeliana, il leader di Hamas Khaled Meshal avrebbe dichiarato che non vi è più alcun motivo per continuare a rispettare la tregua a cui la sua organizzazione aveva aderito.
Io non ho particolari simpatie per Hamas, e ho più volte ribadito la mia contrarietà ai metodi del terrorismo ed agli attacchi contro civili inermi ed innocenti.
Ma certamente appare assurdo chiedere alle organizzazioni militanti palestinesi di deporre le armi - e al Presidente dell’Anp Abu Mazen di fare ogni sforzo per disarmarle - se contemporaneamente Israele non fa che incrementare la sua politica fatta di raid militari, di arresti arbitrari, di esecuzioni extra-giudiziarie, di assassinii di civili disarmati.

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17 novembre 2005

Esecuzioni sommarie.

Tra sabato 12 e lunedì 14 novembre, nel corso di due separate azioni militari, le truppe israeliane hanno ucciso due militanti palestinesi, e in entrambi i casi, con molta probabilità, si è trattato di vere e proprie esecuzioni sommarie.
Nella notte tra sabato e domenica, alcuni paracadutisti israeliani stavano pattugliando la strada che congiunge Nablus a Jenin; giunti all’ingresso meridionale di Jenin, città situata nel nord della Cisgiordania, i soldati di Tsahal aprivano il fuoco contro tre Palestinesi armati, ferendo lievemente uno di essi.
Il ferito, il 21enne Shojua Bilawi, un militante delle brigate al-Aqsa, riusciva dapprima a nascondersi dietro una siepe, ma veniva quasi subito localizzato dalle truppe israeliane, mediante l’utilizzo di un cane addestrato.
Secondo lo stesso rapporto delle forze armate israeliane, Bilawi era in terra ferito, gridava e si contorceva per il dolore, e il suo kalashnikov d’assalto era già stato ritrovato, ma poiché i soldati temevano che avesse un’altra arma nascosta, e ritenendo i suoi movimenti “sospetti” (!), gli hanno comunque sparato addosso a distanza ravvicinata, uccidendolo sul colpo.
Secondo una prima, sommaria inchiesta delle autorità militari israeliane, Bilawi era a 15 metri dalle truppe, nascosto da una siepe, e i soldati di Tsahal non potevano sapere se fosse o no armato: la sua uccisione, dunque, è stata “appropriata”.
Secondo fonti mediche palestinesi dell’ospedale Khalil Suleiman di Jenin, tuttavia, il militante palestinese è stato ucciso da numerosi colpi alla testa, al petto e all’addome, tutti sparati da distanza ben più ravvicinata dei 15 metri citati dal rapporto israeliano.
Una vera e propria liquidazione sommaria di un ferito, dunque, barbara ed atroce, avvenuta proprio in quella cittadina di Jenin che, nell’aprile del 2002, fu teatro di un attacco militare senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, che provocò la morte di 52 Palestinesi, di cui almeno 22 civili inermi e assolutamente non coinvolti nei combattimenti.
Anche allora Tsahal ebbe a macchiarsi di quelli che Human Rights Watch definì “chiari crimini di guerra”, come le esecuzioni sommarie di Jamal al-Sabbagh e di Munthir al-Haj, giustiziato mentre era in terra ferito, con entrambe le braccia rotte e disarmato (cfr. sul punto http://hrw.org/reports/2002/israel3/, il report di hrw sull’accaduto, un’ottima lettura per chi voglia avere un quadro esaustivo delle modalità di “combattimento” dell’esercito israeliano).
Nel secondo “incidente”, avvenuto a Nablus nelle prime ore della mattina, paracadutisti israeliani, polizia delle squadre anti-terrorismo, membri dell’unità anti-guerriglia della Duvdevan e del battaglione di fanteria Haruv, con l’appoggio di una quindicina di automezzi, compivano un raid mirato all’arresto di militanti palestinesi dell’area.
Nel corso dell’operazione, durante la quale secondo fonti palestinesi sono stati utilizzati dei civili come “scudi umani”, è stato ucciso il 33enne Amjad Rasheed al-Hinnawi, responsabile locale delle Brigate Izzedin al-Qassam, l’ala militare del movimento Hamas.
Secondo fonti militari israeliane, al-Hinnawi è stato ucciso mentre cercava di scappare, dopo aver aperto il fuoco contro i soldati di Tsahal, e tuttavia anche in questo caso – come riportato da Ha’aretz – sul cadavere del Palestinese è stato riscontrato un sospetto colpo di arma da fuoco alla testa, sparato a distanza ravvicinata.
Anche quando non assumono la veste di esecuzioni sommarie – che rappresentano evidenti crimini di guerra – le esecuzioni extra-giudiziarie equivalgono alla condanna a morte di un essere umano senza un regolare processo e senza che gli sia consentita la possibilità di difendersi; come tali, questi veri e propri assassinii sono vietati dal diritto internazionale, ed in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949 e dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966.
Questo senza contare i numerosi casi in cui le esecuzioni extra-giudiziarie – condotte con metodi ed armi altamente letali e distruttivi – coinvolgono anche civili inermi ed innocenti, come nel caso del raid aereo israeliano del 27 ottobre nel campo profughi di Jabalya, che ha provocato la morte di due militanti delle Brigate al Quds, Shadi Suhail Muhanna e Mohammed Ghazaineh, ma anche quella di cinque incolpevoli passanti, mentre altri 19 civili palestinesi sono rimasti feriti (vedi “L’infame vendetta di Israele”, 1 novembre).
Più in generale, nel corso della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha eseguito ben 490 esecuzioni extra-giudiziarie, che hanno comportato, tra l’altro, la morte di 169 civili Palestinesi del tutto estranei e non appartenenti ad alcuna organizzazione, inclusi 54 minori di 18 anni (dati fonte PCHR).
E questa carneficina, purtroppo, non pare destinata ad arrestarsi.
Mentre, infatti, fioccavano le dichiarazioni di riprovazione e di sdegno per le frasi pronunciate dal Presidente iraniano Ahmadinejad contro Israele (nel corso di un convegno intitolato “Un mondo senza sionismo”), nessuno ha avuto niente da ridire quando l’8 novembre, davanti alla Commissione Difesa ed Esteri della Knesset, il Capo di Stato Maggiore israeliano Dan Halutz ha affermato che Israele avrebbe continuato con la sua politica di esecuzioni extra-giudiziarie (“targeted killings” come le definisce l’Idf), dato che essa “ha dimostrato la sua efficacia nell’impedire le attività terroristiche” (Ha’aretz, 9.11.2005).
Né risulta che alcun Capo di Stato, Ministro degli Esteri o qualsivoglia altra personalità politica del mondo occidentale abbia protestato ufficialmente quando Sharon, riportato sempre da Ha’aretz, ha dichiarato a sua volta alla Commissione che gli “omicidi mirati” e la pressione militare sulle organizzazioni terroristiche continuerà anche in futuro.
Eppure la road map, già nella sua prima fase, “esige la fine della violenza contro i Palestinesi, ovunque…”, ed obbliga il Governo di Israele a non “intraprendere alcuna azione … come le deportazioni, gli attacchi contro civili, la confisca e/o la demolizione di case e proprietà del popolo palestinese”.
Eppure, come ha ricordato, da ultimo, in una dichiarazione ufficiale del 28 ottobre il Segretario generale dell’Onu Annan, “le esecuzioni extra-giudiziarie sono contrarie al diritto internazionale”.
Eppure la stessa Unione Europea, con una dichiarazione ufficiale di Jack Straw del 7 novembre, aveva chiesto ad Israele di “astenersi da tutte le esecuzioni extra-giudiziarie, che sono contrarie al diritto internazionale”.
Ma di tutto questo in Italia, nel dibattito politico e sui media di regime, non si trova alcuna traccia.
In questi giorni, è giunto in visita istituzionale in Italia il Presidente israeliano Katsav.
Il nostro Presidente Ciampi, nel discorso ufficiale di accoglienza, a proposito di Israele ha affermato che “la sua sicurezza deve essere pienamente tutelata”; il Presidente del Consiglio Berlusconi si è spinto più in là, giungendo ad auspicare un ingresso di Israele nella Ue.
Forse sarebbe stato meglio, al di là delle frasi di rito, delle banalità e delle battute di spirito, che qualcuno avesse ricordato al Presidente Katsav che anche Israele ha l’obbligo di conformarsi alla legalità internazionale, e che la strada della pace comporta anche, necessariamente, la cessazione del quotidiano massacro di civili ed il riconoscimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese.


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15 novembre 2005

Polizia assassina.

Mercoledì 9 novembre la polizia israeliana stava conducendo un’operazione nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme Est; poliziotti dell’unità Lavi, in particolare, ricercavano un abitante del villaggio, Walid Dari, sospettato di aver scassinato un’autovettura nel quartiere di French Hill.
Nel corso dell’operazione, è intervenuto lo zio del ricercato, Samir Rivhi Dari, palestinese 36enne titolare di un’azienda di trasporti, il quale, appena saputo dell’arresto del nipote, è subito accorso sul posto per cercare di aiutarlo e chiedere ai poliziotti le ragioni del suo arresto.
A questo punto le versioni divergono: i poliziotti israeliani hanno sostenuto di aver sparato a Samir Davi perché questi aveva tentato di investirli con la propria auto, mentre vari testimoni oculari hanno da subito affermato che questa versione era falsa, e che il Palestinese era stato assassinato senza alcun motivo.
Successive indagini ufficiali hanno rivelato che la versione fornita dalla polizia israeliana era assolutamente menzognera: Samir Davi non era nella macchina al momento della sua uccisione, e l’autopsia ha mostrato che la sua morte è stata causata da un colpo di pistola alla schiena.
Un alto ufficiale del Dipartimento Indagini della polizia israeliana ha affermato: “La sparatoria ha avuto luogo apparentemente in circostanze ingiustificate”.
Adesso l’ufficiale di polizia responsabile dell’assassinio di Samir Davi rischia di essere incriminato, e tuttavia i familiari del Palestinese ucciso sono alquanto scettici.
E’ di circa un mese fa, infatti, la notizia che nessuno degli ufficiali di polizia coinvolti negli incidenti del settembre del 2000, in cui persero la vita 13 Arabi, sarà ufficialmente incriminato, e le autorità israeliane, dunque, devono ancora fornire la prova di essere capaci di indagare, e condannare, anche appartenenti al corpo di polizia responsabili di tali crimini.
Nel riportare la notizia, in un primo momento, il quotidiano Ha’aretz, nella sua versione on line, aveva titolato “Palestinesi lanciano due bombe incendiarie all’entrata dell’Ospedale Hadassah a Gerusalemme”, riferendosi agli scontri che hanno seguito l’assassinio di Samir Davi.
La notizia principale da evidenziare nel titolo non era dunque l’assassinio di un Palestinese per mano della polizia israeliana, ma il fatto che, nel corso delle successive manifestazioni di protesta, i Palestinesi avessero tirato due bombe incendiarie!
Davvero una lezione di giornalismo, chapeau!

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9 novembre 2005

Un venerdì a Bil'in.

Nel villaggio di Bil’in, in Cisgiordania, ormai da tempo si tengono settimanalmente manifestazioni di protesta contro il “muro di sicurezza” israeliano e le disastrose conseguenze che esso comporta per la vita e per l’economia della popolazione palestinese.
Non è che si tratti di una situazione insolita per le genti del West Bank, dato che il muro che dovrebbe garantire la sicurezza degli israeliani serve, in realtà, per sottrarre ulteriormente terreni ai legittimi proprietari palestinesi, considerato che il suo tracciato – già realizzato o in fase di costruzione – corre per l’80% del totale all’interno dei Territori occupati.
A Bil’in, tuttavia, la situazione è più grave che altrove, dato che il percorso del muro taglia fuori gli abitanti del villaggio da ben due terzi dei terreni coltivati, che rappresentano la principale fonte di sostentamento.
Così Bil’in, nel tempo, è divenuto un simbolo non solo della protesta non violenta contro l’ingiustizia dell’occupazione israeliana e l’illegalità del ”muro di sicurezza”, ma anche, contemporaneamente, della solidarietà tra Palestinesi e pacifisti israeliani, che non mancano mai di partecipare ai cortei di protesta.
A queste manifestazioni assolutamente pacifiche, l’esercito israeliano ha risposto in vari modi, tutti caratterizzati, tuttavia, da una violenza ed una brutalità ingiustificati.
Così i soldati di Tsahal regolarmente usano sparare gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili rivestiti di gomma, arrestano gli attivisti palestinesi e soprattutto israeliani (spesso dopo averli brutalmente picchiati), impongono coprifuoco e blocchi di vario genere per impedire agli stessi di raggiungere il villaggio.
Identico copione è stato messo in scena lo scorso 4 novembre, quando l’ennesima pacifica manifestazione di protesta contro il “muro di sicurezza” svoltasi, come ogni venerdì, nel villaggio ha innescato l’intervento delle unità anti-sommossa dell’esercito israeliano, che hanno anche picchiato duramente prima, e arrestato poi, un cameraman della tv del Qatar Al Jazeera, sequestrandogli la videocamera; oltre all’operatore tv, di nome Nabil Mazawi, nel corso dell’operazione di repressione della manifestazione di protesta, l’Idf ha arrestato anche quattro pacifisti israeliani, tra cui il portavoce di Gush Shalom, Adam Keller.
Tutto questo, naturalmente, per far sì che i pacifisti israeliani e stranieri e i giornalisti siano presenti in sempre minor numero alle manifestazioni, per impedire che possano testimoniare al mondo gli abusi e le violazioni dei diritti umani che quotidianamente devono soffrire i Palestinesi di Bil’in, al pari, del resto, di tutti i Palestinesi dei Territori occupati.
Uno dei principali nemici di Israele sembra essere rappresentato, infatti, dai mezzi di informazione (esclusi i media di regime, naturalmente), data la loro propensione e ostinazione, degna di miglior causa, a testimoniare e render noto all’opinione pubblica internazionale la realtà quotidiana della vita nei Territori palestinesi, la brutale occupazione militare israeliana, le violazioni del diritto internazionale, le punizioni collettive, gli assassinii di civili inermi,
Già abbiamo visto, del resto, come il Ministro della Difesa israeliano abbia vietato l’ingresso alla stampa e ai mezzi di informazione stranieri nella Striscia di Gaza, teatro da giorni di massicci attacchi di artiglieria e di lanci di missili, di punizioni collettive quali le “bombe sonore” che terrorizzano la popolazione, di esecuzioni extra-giudiziarie.
E, tuttavia, ritornando a Bil’in, bisogna osservare che questo piccolo villaggio è divenuto anche, suo malgrado, teatro di sperimentazione per l’esercito israeliano di nuove armi e nuove tecniche anti-sommossa.
Non è un caso, infatti, che a fronteggiare qualche sparuto gruppo di abitanti del luogo e di pacifisti (una quarantina, venerdì scorso) Israele abbia schierato una sua unità di élite, la Prison Service special unit “Masada”, composta da specialisti unanimemente riconosciuti come tra i migliori al mondo nella repressione di tumulti e sommosse, in special modo all’interno delle carceri.
Venerdì scorso questi “specialisti” hanno usato per la prima volta contro i manifestanti un nuovo tipo di proiettile, denominato “bean bag”; si tratta di piccoli contenitori che possono essere sparati con un fucile, allo stesso modo dei gas lacrimogeni, e che contengono una serie di piccole biglie di plastica dura, usualmente della dimensione di una moneta.
Questo tipo di proiettile rientra nella categoria degli armamenti cd. “non letali”, in quanto si limiterebbe a produrre contusioni e forti dolori: così, ad esempio, venerdì ad essere colpito è stato un Palestinese, Haysam Hatib, ricoverato all’ospedale di Ramallah con una seria contusione alla gamba.
E’ chiaro, tuttavia, che un proiettile di tal genere, qualora colpisca un uomo in punti particolarmente sensibili quali il collo o la testa, può provocare conseguenze molto più serie e, addirittura, la morte, come del resto succede per i proiettili rivestiti di gomma.
Non si riesce bene a capire perché Israele usi regolarmente una eccessiva durezza per reprimere manifestazioni che, giova ribadirlo, sono del tutto pacifiche.
Il 9 settembre, l’intervento dell’Idf ha causato il ferimento di 12 manifestanti e alcuni soldati hanno sparato munizioni vere, non proiettili di gomma.
Il 14 ottobre, alcuni membri della “Masada”, travestiti da Arabi, sono stati smascherati mentre cercavano di incitare i giovani palestinesi a tirare pietre contro le truppe israeliane.
E’ evidente che si cerca l’incidente serio, il pretesto per menare le mani o addirittura uccidere qualcuno, con il duplice scopo di scoraggiare i pacifisti dal prendere parte alle manifestazioni e di fornire la scusa ad Israele per una repressione più dura e per imporre ulteriori coprifuoco.
Si impongono a questo punto alcune considerazioni.
Spesso si indica ai Palestinesi la via della protesta non violenta come mezzo efficace per lottare contro l’occupazione israeliana.
A Bil’in, come altrove, questa via non sembra approdare ad alcun risultato degno di nota anzi, proprio in questo villaggio, la Corte di Giustizia (!) israeliana ha confermato il tracciato del muro, considerando prevalenti le ragioni della sicurezza dei coloni rispetto al diritto di proprietà dei Palestinesi e, addirittura, alle necessità del loro sostentamento quotidiano.
Qualcuno dovrebbe spiegarci come mai la Corte di Giustizia israeliana abbia mancato di considerare che coloni, e colonie, non dovrebbero esisterne nei Territori occupati, in quanto illegali ai sensi della Convenzione di Ginevra.
E per tale motivo, infatti, che la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja è giunta a conclusioni diametralmente opposte a quelle della Corte israeliana, qualificando il “muro di sicurezza” come illegale e chiedendo la demolizione della parte già costruita: decisione, questa, fatta propria – per quello che vale – dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Se Israele, dunque, non viene incontro alle legittime esigenze dei Palestinesi e continua a sabotare il ogni modo la road map, è allora dovere della comunità internazionale operare più forti pressioni su questo Paese perché rientri nell’alveo della legalità internazionale e permetta, finalmente, la nascita dello Stato Palestinese.
Lasciare senza risposta la protesta pacifica degli abitanti di Bil’in, rimanere inerti dinanzi alla oppressione, alla devastazione, all’assassinio di un intero popolo sarebbe il più forte incentivo ai metodi del terrorismo.

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4 novembre 2005

Guerra aperta.

Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale era completamente focalizzata sulle minacce iraniane nei confronti di Israele, l’esercito israeliano poteva tranquillamente continuare a mettere a ferro e a fuoco i Territori occupati, in un’offensiva militare senza precedenti per intensità e ferocia, che ormai dura da oltre una settimana.
Ieri mattina truppe israeliane dell’unità di élite Maglan, con l’appoggio di una trentina di blindati e di due elicotteri Apache, sono entrate nel campo profughi di Jenin, città a nord della Cisgiordania, prendendo posizione, in particolare, intorno ad una moschea nel centro della città.
Nel corso degli scontri con i militanti palestinesi, i valorosi soldatini di Tsahal hanno gravemente ferito un bambino palestinese 12enne, Ahmed al-Khatib, che si trovava lì con la sua famiglia per visitare alcuni parenti in occasione della festa di Id al-Fitr, che segna la fine del Ramadan.
Il povero Ahmed aveva in mano un fucile giocattolo, ed ha pagato a caro prezzo la sua voglia di giocare, perché è stato scambiato per un militante armato ed è stato colpito alla testa e allo stomaco.
La cosa impressionante è che i soldati israeliani, ancor prima di permettere i soccorsi al povero bambino, si sono premurati di scattare alcune fotografie al terreno insanguinato su cui era caduto il fuciletto di plastica, foto successivamente distribuite dall’Ufficio stampa dell’Idf come prova della “buona fede” dell’esercito israeliano.
Solo dopo un’ambulanza palestinese ha potuto portare Ahmed all’ospedale di Ramallah, da dove poi è stato trasferito al Rambam Medical Center di Haifa, date le sue gravissime condizioni.
Ora, un giocattolo di plastica ben difficilmente può essere scambiato per un kalashnikov, e un bambino 12enne altrettanto difficilmente può assomigliare ad un nerboruto miliziano.
Ma, anche a voler dar credito alla versione ufficiale israeliana, le norme del diritto umanitario imporrebbero all’esercito israeliano di porre in essere ogni accorgimento per salvaguardare l’incolumità dei civili non coinvolti nei combattimenti, ed in questo, ancora una volta, Tsahal ha clamorosamente mancato.
E, ancora una volta, l’assassinio di un bimbo innocente non può essere fatto passare alla stregua di un semplice incidente, quando è chiaro che l’utilizzo sproporzionato della forza, l’uso di armamenti pesanti in centri abitati, la licenza di uccidere concessa di fatto ai soldati israeliani non possono che portare, inevitabilmente, all’uccisione di civili inermi ed innocenti.
Molti giornali israeliani ma anche europei ed italiani – tra cui quello che ha organizzato la marcia pro Israele di ieri sera – si ostinano a “giustificare” questa “ongoing operation” come una risposta all’attentato kamikaze di Hadera del 26 ottobre, che era costato la vita a 5 israeliani ma, come mostra la cruda e inconfutabile forza delle cifre, si tratta di una volgare menzogna.
Nella settimana precedente all’attentato di Hadera (20-26 ottobre), l’esercito israeliano ha ucciso tre civili, tra cui un ragazzo 17enne, e due militanti palestinesi, mentre altri tre civili sono rimasti feriti.
Nella settimana successiva all’attentato (27 ottobre – 2 novembre), l’Idf ha trucidato 13 Palestinesi, di cui cinque civili disarmati, mentre il conto dei feriti ammonta ad almeno 28, quasi tutti collegati a varie esecuzioni extra-giudiziarie.
L’esercito israeliano, dunque, il suo quotidiano massacro della popolazione palestinese lo svolge sempre regolarmente, dopo un attentato (ma anche dopo una semplice salva di razzi artigianali Qassam) si limita soltanto ad alzare un po’ il ritmo degli assassinii!
“Questa è guerra aperta” ha dichiarato il portavoce di Hamas, Mushir al-Masri: si può dargli torto?
Nonostante Israele si atteggi a vittima dell’aggressione terroristica, risulta che, dall’inizio della seconda Intifada, il numero dei Palestinesi uccisi ammonti a 3.729 e quello degli Israeliani a 1.074, mentre il numero dei feriti è pari, rispettivamente a 29.229 e a 7.520 (1), cifre queste che, al di là di ogni mistificazione propagandistica, dimostrano con chiarezza chi sia la vittima e chi il carnefice.
Ieri sera, grazie alla diretta di rai2, ho potuto guardare le immagini della manifestazione organizzata con abile sagacia da Giuliano Ferrara a difesa del diritto di Israele all’esistenza: bei discorsi, parata di politici, bandiere, balli e canti finali, tanta allegria.
Mancava qualcuno che portasse la foto di Ahmed al-Khatib e che chiedesse conto all’ambasciatore israeliano Ehud Gol del perché adesso sia in un letto d’ospedale a lottare contro la morte.
Mancava qualcuno che si ricordasse di questo povero bambino, che non ha potuto festeggiare il suo Id al-Fitr e che, comunque vada, non potrà più festeggiare nulla nella sua vita.
Mancava qualcuno che manifestasse per il diritto di Ahmed, e di tutti i bambini palestinesi, ad avere una propria Patria e a vivere lontano dalla miseria, dalla devastazione, dalla morte.

(1) Le statistiche relative ai morti e ai feriti palestinesi sono tratte dal sito web della Mezzaluna rossa (aggiornate al 31.10.2005), quelle relative ai morti e ai feriti israeliani sono tratte dal sito web dell’Idf (aggiornate all’1.11.2005).

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2 novembre 2005

Ennesima esecuzione extra-giudiziaria dell'esercito israeliano.

Mentre fervono i preparativi per la manifestazione di giovedì a difesa del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, Israele stesso manifesta la propria esistenza attraverso il modo che gli è più congeniale, quello brutale ed assassino delle armi.
Evidentemente non paghi delle esecuzioni extra-giudiziarie dei giorni scorsi (vedi "L'infame vendetta di Israele"), giovedì 1 novembre, nel pomeriggio, gli israeliani hanno compiuto un nuovo raid aereo nella Striscia di Gaza, e segnatamente nel campo profughi di Jabalya, uccidendo due militanti palestinesi, il 32enne Hassan al-Madhoun e il 37enne Fawzi Abu al-Qarea, entrambi affiliati ad Hamas.
Nel corso dell’assassinio mirato – avvenuto solo pochi minuti dopo che nella zona era transitato un convoglio di auto al seguito del Presidente dell’Anp Abu Mazen – anche dieci civili palestinesi sono stati feriti più o meno gravemente, ma a questi fastidiosi “effetti collaterali” delle esecuzioni extra-giudiziarie israeliane ormai siamo quasi assuefatti.
Naturalmente, anche in questo caso, nessun ministro degli esteri o capo di stato occidentale è stato minimamente sfiorato dall’idea di protestare con Israele (né nessuno ha organizzato alcuna manifestazione di protesta...), eppure – lo ha nuovamente da poco ricordato Kofi Annan – le esecuzioni extra-giudiziarie sono vietate dal diritto internazionale.
Eppure, secondo le regole del diritto umanitario, Israele avrebbe l’obbligo di prendere tutte le cautele per salvaguardare l’incolumità della popolazione civile: ma quando mai è accaduto?
Nel frattempo, il ministro della difesa israeliano ha vietato l’ingresso dei giornalisti stranieri nella Striscia di Gaza, nel tentativo di impedire il lavoro di quei pochi, onesti cronisti che ancora si ostinano a raccontare – per chi ha occhi per leggere e orecchie per sentire – le “prodezze” di Tsahal, le continue esecuzioni extra-giudiziarie, l’assassinio di civili innocenti, le salve di artiglieria e l’ultima trovata di Israele, le cosiddette "bombe sonore".
Si tratta dei jet di Israele che più volte nella giornata, ma soprattutto di notte, infrangono a bassa quota il muro del suono, terrorizzando la popolazione civile e sollevando le proteste di varie organizzazioni per la tutela dei diritti umani, che ne parlano come di una “terrificante punizione collettiva”.
Anche questo, forse, è un modo per riaffermare il diritto all’esistenza di Israele.

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1 novembre 2005

L'infame vendetta di Israele.


Gli Stati Uniti – che ben conoscono Israele e la portata delle sue vendette – avevano suggerito di agire con cautela nel rispondere all’attentato suicida di mercoledì ad Hadera, ma la replica di Tsahal è stata, come al solito, tempestiva e terribilmente letale.
Al culmine di 24 ore di escalation di violenza, che hanno portato i Palestinesi della Striscia di Gaza a vivere in una vera e propria atmosfera di guerra, con una serie di attacchi aerei e di artiglieria senza soluzione di continuità, l’esercito israeliano ha compiuto l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria, provocando una strage di civili innocenti.
Verso le 19:30 di giovedì 27 ottobre, infatti, nel campo profughi di Jabalya, l’aviazione israeliana ha sparato alcuni missili contro una Subaru bianca che trasportava due militanti delle Brigate al Quds, Shadi Suhail Muhanna e Mohammed Ghazaineh, uccidendoli sul colpo.
Peccato che la deflagrazione abbia causato anche la morte di altri cinque civili innocenti, Mohammed al Wahidi, 65 anni, Faiz Badran, 52 anni, Rami Assaf, 17 anni, Karam Abu Naji, 14 anni, e suo fratello Saleh, 15 anni.
Peccato che almeno altri 19 Palestinesi siamo rimasti feriti nel corso di questo ennesimo crimine dell’esercito israeliano: tra loro, sette sono minori di 18 anni e tre di essi versano in condizioni critiche.
In un colpo solo, dunque, Israele si è vendicata con gli interessi dei morti di Hadera, ma non è certo finita lì.
Venerdì 28 ottobre, nel corso di una ulteriore esecuzione extra-giudiziaria, l’aviazione israeliana ha ucciso il 28enne Majid Natat, esponente delle Brigate al Aqsa nella Striscia di Gaza.
Domenica sera, 30 ottobre, nel corso di un raid nella cittadina di Qabatiyeh, nel West Bank, l’esercito israeliano ha ucciso tre militanti della Jihad islamica, mentre altri otto civili sono rimasti feriti nel corso della sparatoria.
Nel frattempo, sono piovute da tutto il campo occidentale dichiarazioni di condanna per l’attentato suicida di Hadera in cui, ricordiamo, sono morti cinque israeliani: gli Usa, per bocca di Condy Rice, l’Ue, tramite l’ambasciatore inglese in Israele Simon McDonald, il “Quartetto”, il Segretario Onu Kofi Annan, tutti hanno condannato senza mezzi termini, e giustamente, l’attentato e hanno chiesto al Presidente dell’Anp Abu Mazen di fare tutto il possibile per disarmare i terroristi.
Stupisce, tuttavia, che nessuno si sia premurato di fare altrettanto per i morti di Jabalya ed abbia condannato Israele per le vittime innocenti di questo crimine efferato.
Persino il solitamente equilibrato Segretario dell’Onu Annan si è limitato ad uno stringato comunicato in cui si dichiara “profondamente preoccupato” per l’escalation di violenza nel medio oriente: un po’ poco per l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria ad opera di Israele, troppo poco per il massacro di cinque civili innocenti.
Eppure è lo stesso Annan a ricordarci che le esecuzioni extra-giudiziarie sono in contrasto con il diritto internazionale.
E non si riesce davvero a capire che differenza possa esserci tra il massacro di cinque civili davanti ad un chiosco di felafel ad opera di un kamikaze ed il massacro di cinque civili ad opera di un asettico missile lanciato da un F-16 o da un drone.
O dobbiamo pensare che si usino due pesi e due misure, che i morti israeliani valgano più di quelli palestinesi?
Questo, poi, per non parlare del vergognoso comportamento dei nostri media, che hanno dato ampio spazio (correttamente) all’attentato kamikaze di Hadera, ma hanno taciuto, e tacciono, sui raid, le incursioni, le uccisioni di Palestinesi ad opera dall’esercito israeliano, prima e dopo l’attentato stesso.
Tutti rimproverano ad Abu Mazen di non far nulla per combattere il terrorismo, e qualche parlamentare israeliano minaccia addirittura di confinarlo a Ramallah come a suo tempo fu fatto con Arafat, ma perché nessuno ricorda ad Israele gli obblighi che gli derivano dalla roadmap?
Dalla data del ritiro israeliano da Gaza (12 settembre) ad oggi, Tsahal ha ucciso 14 Palestinesi, di cui 6 minori di 18 anni, perché nessuno chiede conto a Israele di questo lento ma inesorabile massacro?
Secondo la roadmap, Israele avrebbe dovuto smantellare “immediatamente” gli avamposti illegali costruiti dopo il marzo del 2001 e congelare ogni attività di espansione degli insediamenti colonici; il famoso “rapporto Sasson” aveva individuato 24 di questi avamposti illegali ma, ad oggi, neppure uno è stato rimosso o distrutto, ma anzi in alcuni di essi – secondo Peace Now – si nota una frenetica attività di costruzione.
Uccisioni illegali, furto di terra, espansione degli insediamenti colonici in terra palestinese, questa è la pratica quotidiana di Israele.
Forse giovedì, al corteo organizzato dal Foglio, qualcuno marcerà per difendere anche il diritto di Israele a vivere al di fuori della legalità internazionale.

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