26 febbraio 2011

Assemblea pubblica a Roma: "Agire contro il sionismo"


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23 febbraio 2011

Una "giornata della rabbia" per protestare contro il veto Usa a difesa delle colonie israeliane

Come è noto, lo scorso 18 febbraio gli Stati Uniti hanno usato il proprio potere di veto per bloccare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, lungi dall’essere “anti Israele”, si limitava a condannare – secondo quanto previsto dal diritto internazionale umanitario – la continua espansione degli insediamenti colonici.

La bozza di
risoluzione che, in realtà, non era stata presentata solo da “un gruppo di Paesi arabi” (sempre qualche imprecisione, vero cari giornalisti della Repubblica?), ma anche da Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda, Norvegia, Portogallo solo per citare alcune delle nazioni firmatarie, si limitava invero a “riaffermare che le colonie israeliane costruite nei Territori palestinesi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme est, sono illegali e costituiscono il principale ostacolo per il raggiungimento di un accordo di pace giusto, durevole e globale” e a reiterare la richiesta ad Israele “di cessare immediatamente e completamente” ogni attività di espansione di tali insediamenti.

Come si vede, una risoluzione interamente basata sul diritto internazionale, del tutto condivisibile e, soprattutto, dal valore puramente formale, dato che non prevedeva alcuna sanzione nell’immediato nei confronti di Israele.

Ma, ancora una volta, lo strapotere della lobby ebraica e la sua pervasiva capacità di condizionamento della politica estera americana ha indotto gli Stati Uniti ha usare il proprio potere di veto per bloccare la risoluzione, costringendo la rappresentante Usa al Consiglio di Sicurezza ad arrampicarsi sugli specchi.

E, infatti, Susan Rice, se da una parte ha pur dovuto ricordare che gli Stati Uniti “respingono con la massima forza la legittimità” della continua attività di espansione delle colonie, dall’altra ha ribadito che il componimento del conflitto spetta solo ad Israeliani e Palestinesi, e che la risoluzione proposta avrebbe rischiato soltanto di irrigidire la posizione delle due parti.

Tesi, questa, in realtà un po’ bizzarra, perché è semmai l’ostinazione israeliana a costruire e ad ampliare le colonie che impedisce di fare il pur minimo passo verso la pace; non a caso, la responsabile Ue per gli affari esteri, Catherine Ashton, il giorno successivo ha rilasciato un
comunicato ufficiale da cui traspare il disappunto per la posizione assunta dagli Usa: “Rilevo con rammarico che non è stato possibile raggiungere il consenso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla risoluzione relativa agli insediamenti. La posizione della Ue sulle colonie, incluse quelle a Gerusalemme est, è chiara: esse sono illegali secondo il diritto internazionale, sono un ostacolo verso la pace e costituiscono una minaccia per una soluzione a due stati”.

Ma, soprattutto, il punto debole delle argomentazioni della Rice riguarda il fatto che ogni soluzione del conflitto israelo-palestinese andrebbe demandata esclusivamente ai negoziati tra le parti: è vero invece l’esatto contrario, perché non stiamo parlando di due contraenti posti su un piano di parità, ma di un negoziato in cui una delle parti contraenti è infinitamente più debole rispetto all’altra, e dunque necessita di sostegno ed assistenza, soprattutto ove si consideri che null’altro chiede se non il rispetto della legalità internazionale.

L’ennesimo uso del potere di veto, peraltro, rafforza tra i Palestinesi e in tutto il mondo arabo la percezione che gli Usa, in realtà, si adoperino soltanto per garantire gli interessi del loro alleato israeliano, e solo in seconda battuta per raggiungere un equo (ma per chi?) accordo di pace.

Su quest’ultimo aspetto della vicenda si sofferma la corrispondente del Guardian da Gerusalemme, Harriet Sherwood, nell’articolo che segue proposto nella traduzione di
Medarabnews.

I Palestinesi pianificano una “giornata della rabbia” dopo il veto Usa a una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani
di Harriet Sherwood – 20.2.2011

I Palestinesi stanno organizzando una “giornata della rabbia” per venerdì, in risposta al veto statunitense su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che avrebbe condannato gli insediamenti israeliani.

La decisione degli Stati Uniti di usare il veto ha suscitato una reazione furiosa nella West Bank e a Gaza.

Questo fine settimana ci sono state proteste anti-americane nelle città di Betlemme, Tulkarem e Jenin della West Bank in seguito al voto di 14 a 1, con il quale gli Stati Uniti si sono opposti da soli a tutto il Consiglio di Sicurezza, incluse la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. Gli USA hanno fra l’altro votato contro la loro stessa politica.

A Gaza, Hamas ha detto che la posizione degli Stati Uniti è oltraggiosa e ha incalzato affermando che Washington è “completamente dalla parte” di Israele.

Ibrahim Sarsour, un membro arabo-israeliano della Knesset, ha affermato che è giunto il momento di dire a Barack Obama di “andare al diavolo”.

“Non ci si può fidare di Obama”, ha scritto in una lettera aperta al presidente palestinese Mahmoud Abbas. “Sapevamo che le sue promesse erano solo bugie. E’ arrivato il momento di sputare in faccia agli Americani”.

Il ministero degli esteri egiziano ha detto che il veto degli Stati Uniti avrebbe “condotto a un ulteriore indebolimento tra gli Arabi della credibilità degli Stati Uniti come mediatori negli sforzi di pace”.

L’uso del veto, per la prima volta sotto la presidenza Obama, rafforzerà nel mondo arabo la percezione che per gli Stati Uniti la protezione del suo alleato Israele supera la volontà di trovare una giusta soluzione per i Palestinesi all’eterno conflitto.

Questa mossa probabilmente intralcerà gli sforzi statunitensi volti a convincere le parti a ritornare al tavolo dei negoziati, che si erano arenati a settembre proprio sulla questione dell’espansione degli insediamenti.

Con le proteste contro la repressione, la corruzione, il carovita e le disastrose prospettive economiche, che stanno infiammando tutto il Medio Oriente, Washington è consapevole della sfiducia nei confronti degli Stati Uniti diffusa in tutta la regione.

Il primo ministro israeliano, Binyamin Netanyahu, ha dichiarato che il suo paese ha “molto apprezzato” l’uso del veto da parte Stati Uniti.

Tuttavia, alcuni commentatori israeliani hanno avvertito che il voto è servito solo a rafforzare l’isolamento internazionale di Israele e hanno affermato che Washington si aspetterà qualcosa in cambio dal suo alleato. Essi hanno suggerito che gli Stati Uniti non saranno disposti a riutilizzare il veto in un altro caso simile.

La leader dell’opposizione, Tzipi Livni, ha detto che Israele è ora in una situazione di “collasso politico”.

“Scopriamo ora che la Germania, la Gran Bretagna e la Francia – tutti amici di Israele, che la vogliono aiutare a difendersi – hanno votato contro le posizioni di Israele, e che gli Stati Uniti stanno venendo costretti in un angolo, e si trovano, con Israele, contro tutto il mondo”, ha dichiarato.

Il voto di venerdì scorso ha fatto seguito a frenetici sforzi diplomatici per evitare che la risoluzione venisse sottoposta a votazione.

Obama aveva parlato con Abbas per più di 50 minuti giovedì, offrendogli vari incentivi, incluse eventuali dichiarazioni pubbliche, in cambio del ritiro della risoluzione.

Secondo la stampa palestinese, Obama ha anche minacciato di bloccare gli aiuti americani all’Autorità Palestinese se la risoluzione fosse stata presentata.

Anche il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha contattato Abbas venerdì per convincerlo ad abbandonare la risoluzione.

In ogni caso, il presidente palestinese – rendendosi conto degli umori infiammabili nella regione e del contraccolpo che egli avrebbe subito qualora avesse accettato le richieste di Obama – si è rifiutato di tornare sui propri passi. Un funzionario palestinese ha dichiarato alla Reuters che “la gente sarebbe scesa in piazza e avrebbe rovesciato il presidente” se egli avesse ceduto.

Dopo il voto, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza che Washington “è d’accordo con gli altri membri del Consiglio, e con il resto del mondo, sulla follia e l’illegittimità della persistente attività di Israele negli insediamenti”.

Ma ha aggiunto: “Pensiamo che non sia saggio che questo Consiglio tenti di risolvere le questioni essenziali che dividono gli Israeliani ed i Palestinesi”.

Sottolineando la crescente distanza che vi è fra gli Stati Uniti e l’Europa sulla questione israelo-palestinese, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania hanno emesso una dichiarazione congiunta affermando che la costruzione degli insediamenti va contro il diritto internazionale.

Il veto è servito a unire Hamas e Fatah nella condanna del comportamento di Washington. I leader palestinesi stanno considerando la possibilità di presentare una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Harriet Sherwood è corrispondente da Gerusalemme per il Guardian

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22 febbraio 2011

Non sparate sui civili (tranne che a Gaza)!

Alle prime luci del mattino di giovedì, 17 febbraio, l’esercito israeliano apriva un intenso fuoco di armi automatiche e di artiglieria, con l’appoggio aereo, contro alcuni palestinesi che si trovavano nei pressi del confine tra Gaza e Israele nell’area di As-Siafa, a nord-ovest della cittadina di Beit Lahya.

Una volta cessato l’intenso fuoco israeliano, durato almeno un’ora, venivano ritrovati i cadaveri di tre palestinesi: Jihad Fathi Mohammed Khalaf, 20 anni, di Jabalia, Ashraf Abdel Lateef Rasheed Iqteefan, 32 anni, e Tala’t Mohammed Salama Ar-Rawagh, 40 anni, entrambi di Gaza City.

Nella versione dell’esercito israeliano, i tre stavano cercando di introdursi illegalmente in Israele, ma, secondo quanto affermato dall’ong palestinese Al Mezan, i tre palestinesi erano invece dei semplici civili che stavano lavorando nella zona insieme ad altri, raccogliendo conchiglie da rivendere.

Le tre povere vittime, i cui cadaveri sono stati recuperati orrendamente sfigurati e straziati, erano solite recarsi nell’area di As-Siafa per raccogliere conchiglie e, in ogni caso, erano vestite in abiti civili, non avevano alcuna arma con sé, non costituivano in alcun modo una minaccia per Israele e i soldati israeliani.

“Incidenti” come questo accadono nel contesto della pratica israeliana – assolutamente arbitraria ed illegale – di imporre una “zona-cuscinetto” alle sue frontiere larga fino a un chilometro e mezzo all’interno della Striscia di Gaza, in tal modo impedendo ai palestinesi di coltivare e finanche di poter entrare in circa il 17% dell’intera superficie della Striscia.

Salgono così a 6 i Palestinesi uccisi a Gaza dall’inizio del 2011 (cinque civili), mentre i feriti ammontano a 33 (31 civili); di questi ultimi, ben 17 sono stati feriti mentre lavoravano nei pressi del confine con Israele, spesso ragazzini di 14 o 15 anni.

In questi giorni di terribili violenze in Libia, un vero e proprio genocidio secondo il vice ambasciatore libico all’Onu, si sono moltiplicati gli appelli della comunità internazionale, rivolti a Gheddafi e alle autorità libiche, per far cessare le violenze indiscriminate e impedire il massacro della popolazione civile.

Un coro unanime, dal Segretario Onu Ban al Segretario Nato Rasmussen al Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ((la Libia deve porre “fine all’inaccettabile bagno di sangue”), chiede che non si spari contro i dimostranti e la popolazione civile, ma perché questo non deve valere anche per la Palestina e, in specie, per la Striscia di Gaza?

Perché Israele resta libero di imporre a suon di fucilate una “zona-cuscinetto” arbitraria ai confini con Gaza, uccidendo e ferendo civili innocenti e contribuendo in tal modo ad aggravare viepiù la crisi umanitaria in atto nella Striscia?

Perché i soldati israeliani possono tranquillamente esercitarsi al tiro al bersaglio contro i palestinesi di Gaza in spregio dei principi cardine del diritto umanitario della proporzionalità e della distinzione?

Possiamo ancora nutrire qualche speranza che la comunità internazionale si attivi un giorno – come sarebbe suo dovere – per imporre il rispetto della IV Convenzione di Ginevra e fermi, una volta per tutte, gli assassini israeliani?

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17 febbraio 2011

Gaza: Intervista a Vittorio Arrigoni

Vittorio Arrigoni, alias guerrillaradio, dal suo blog e con i suoi articoli per varie testate giornalistiche, come testimone diretto, ci ha raccontato gli orrori dell’operazione “Piombo Fuso”, e ancora adesso coraggiosamente ci descrive la triste quotidianità della vita nella Striscia di Gaza, i continui raid israeliani, il tiro al bersaglio contro i bambini che, nei pressi del confine, raccolgono ghiaia e altri materiali da costruzione riciclabili, l’orrore per la morte di centinaia di ammalati a cui non viene concesso di recarsi all’estero per cure mediche, gli stenti dovuti ad un assedio illegittimo e immorale che la macchina propagandistica della menzogna israeliana spaccia come “allentato”.

Leggendo l’intervista di Nicola Lofoco per
Medarabnews si resta increduli, una volta di più, per come la comunità internazionale – che pure non fa mancare mai gli appelli perché ai dimostranti che in questi giorni affollano le piazze di molti stati arabi venga consentito di manifestare liberamente – possa nel contempo continuare a permettere ad Israele di proseguire in un assedio contrario al diritto umanitario e ad ogni senso etico, di compiere quotidiani crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, di porre in essere un regime di occupazione brutale e oppressivo paragonabile, per la spietata ferocia e insensibilità, ai peggiori crimini nazisti.

“Restiamo umani” è lo slogan, quasi un grido disperato, scelto da Vittorio, ma il problema è che ai nostri fratelli palestinesi a Gaza è proprio lo status di essere umano che viene ad essere negato dai carnefici di Israele.

Gaza continua a morire – Intervista a Vittorio Arrigoni

Vittorio Arrigoni arriva a Gaza nell’agosto del 2008, come inviato de “Il Manifesto”, ed arriva per raccontare il dramma che vivono i palestinesi della striscia di Gaza. Alla fine del 2008, durante l’operazione israeliana “Piombo Fuso”, una orrenda operazione militare che causerà la morte di migliaia di persone,Vittorio Arrigoni riesce a documentare a tutto il mondo il dramma di quei giorni. Riesce a farlo con dei memorabili reportage inviati dai pochi internet point in funzione durante quelle giornate tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Un capodanno che Vittorio Arrigoni non dimenticherà mai. L’operazione militare “Piombo Fuso” è stata successivamente condannata dalle Nazioni Unite (vedi il rapporto Goldstone) come crimine contro l’umanità.

Non è facile riuscire a parlare con Vittorio. I continui attacchi israeliani e le continue difficoltà di spostamento rendono difficile un contatto. Ma siamo riusciti a metterci in contatto con lui, e con estrema lucidità ci ha raccontato le ultime notizie provenienti da Gaza:

“Gli attacchi israeliani ci sono quotidianamente, sempre contro i civili della Striscia di Gaza. Ci sono ogni giorno alcuni adolescenti che raccolgono al confine materiale riciclabile e sono sempre bersaglio dei cecchini. Ormai sono 4 anni che Israele impedisce l’ingresso di materiali edili per la ricostruzione. Manca il cemento, manca il ferro, manca il vetro. Per cui questi ragazzi si recano spesso al confine, a Nord, dove ci sono molti edifici distrutti dopo “Piombo Fuso”, e cercano di riciclare quello che possono. E questi ragazzi sono sempre le vittime rituali dei cecchini israeliani.

Vi è stata un’ escalation nelle ultime settimane. Vi è stato un rapporto di ben 21 organizzazioni che operano qui a Gaza per il rispetto dei diritti umani, tra cui Amnesty International e Save The Children, che hanno messo in luce una cosa importante. Lo scorso 20 Giugno Israele aveva dichiarato che l’assedio era stato “allentato”, ma secondo quanto denunciano le organizzazioni, si è trattato solo di un’ operazione ipotetica e di facciata.

Nei negozi di Gaza possiamo trovare 5 tipi di bibite israeliane, 3 tipi di patatine , mentre negli ospedali mancano le attrezzature mediche. Una lista stilata da alcune organizzazioni documenta come manchino 130 tipi di farmaci e di attrezzature mediche. A Gaza non si può fare la dialisi, non si può fare la chemioterapia, mancano le valvole cardiache. Il tanto ventilato “allentamento” dell’assedio a Gaza non è avvenuto.

Per i progetti delle Nazioni Unite per la ricostruzione degli oltre 50.000 edifici danneggiati durante l’operazione militare “Piombo Fuso” era necessario l’invio di 670.000 camion per iniziare il progetto della ricostruzione. Di questi 670.000 ne sono entrati solo 700. Parliamo quindi solo dell’ 1% . Si tratta di progetti di ricostruzione certificati dalle “Nazioni Unite”.

A Gaza, anche se hai i documenti in regola, con passaporti e visti, è molto difficile lasciare la regione. Per 500 malati curabili, l’assedio alla striscia di Gaza ha rappresentato una vera condanna a morte. Pur avendo avuto la disponibilità ad essere ospitati da altre strutture ospedaliere, come quella di Ramallah, non hanno avuto il permesso israeliano per uscire e sono deceduti. Anche io ho conosciuto personalmente un ragazzo che aveva sua madre ricoverata in gravi condizioni. Non avendo potuto lasciare Gaza, sua madre è deceduta, pur sapendo che sua madre poteva essere curata a solo poche decine di chilometri di distanza.

Senza dare la possibilità di far entrare ed uscire merci e persone, è chiaro che questo significa l’intero collasso dell’economia interna. Il 93% dell’industria ha dovuto chiudere, ed ora il 70% della popolazione di Gaza è disoccupata. I dati Unicef dicono che il 98% della popolazione vive solo di aiuti umanitari. Vi è un economia di sussistenza, legata prevalentemente alla pesca. Anche su questo, vi è da dire che i pescherecci di Gaza non possono andare oltre le 3 miglia dalla costa. Quando ci provano, perché devono farlo, perché le acque vicino alla costa sono povere di pesce, finiscono sotto il tiro della marina israeliana. Recentemente anche la croce rossa internazionale ha definito illegale l’assedio a Gaza. L’art. 33 della IV convenzione di Ginevra condanna le punizioni collettive. Ed i pescatori subiscono ogni giorno punizioni collettive da parte degli israeliani. I pescatori non possono andare a pescare nel loro mare, ed i contadini non possono andare a coltivare le loro terre. Sempre secondo le Nazioni Unite, dopo Piombo Fuso, il 35 % dei terreni coltivabili di Gaza non sono più accessibili ai contadini perché sotto il tiro dei cecchini israeliani. Dal 20 Giugno sono stati documentati ben 59 casi di agguati di militari israeliani a civili palestinesi. Questa è la realtà che a Gaza si vive ogni giorno”.

Dopo la tragedia della “Freedom Flotilla” è cresciuto l’isolamento internazionale di Israele. Quanto potrà durare ancora secondo te, in queste condizioni, l’assedio a Gaza?

“Il massacro della Freedom Flotilla ha scosso l’opinione pubblica più di Piombo Fuso. La morte di 9 attivisti è riuscita a fare molto di più del massacro di 1.300 bambini. Questo ci fa capire che ci sono morti di serie A e morti di serie Z.
I caduti della Mavi Marmara hanno cambiato molte cose. L’Egitto, per esempio, ha ceduto su alcune cose, come riaprire subito il valico di Rafah. Per molti palestinesi questo ha rappresentato una speranza. Qualcuno di loro è riuscito ad uscire, a ricongiungersi con i familiari sparsi per il mondo. Per la fine dell’assedio, bisognerebbe avere fiducia nella campagna di boicottaggio verso Israele. Non dimentichiamo che negli anni ’80 Nelson Mandela veniva definito come un terrorista da capi di stato importanti, come Margaret Thatcher. Eppure Nelson Mandela ha continuato a combattere contro l’Apartheid, anche con il boicottaggio. E qui a Gaza la campagna di boicottaggio ha avuto effetti migliori in 5 anni di quanti non ne abbia avuti in 20 anni l’African National Congress. L’illegalità dell’assedio a Gaza è stata percepita anche dal principale sindacato inglese, che rappresenta 6.000.000 di lavoratori, che ha iniziato una sensibile campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani. Dopo “Piombo Fuso “ i governi di Svezia e Danimarca hanno iniziato a convincere le loro industrie a non investire in Israele, riconosciuto come stato responsabile di crimini di guerra e violatore dei diritti umani. Anche molte rockstar si sono rifiutate di tenere concerti in Israele, come hanno fatto Santana e gli U2 di Bono Vox”.

Durante “Piombo Fuso” sono state usate armi al fosforo. Che notizie hai in merito?

“Durante Piombo Fuso sono stato personalmente testimone oculare di fosforo bianco usato contro i civili e contro gli ospedali, alcuni dei quali dati alle fiamme usando proprio il fosforo bianco. Anche a Jabalia sono stato testimone dell’uso del fosforo bianco. Durante i bombardamenti non sapevamo, né io né chi era con me, cosa ci stavano tirando addosso. E’ chiaro che nel vedere le assurde ferite che provocava ai civili, era evidente che gli israeliani stavano usando armi non convenzionali. Vi è anche un problema che riguarda i terreni. Essendo Gaza sotto assedio, Israele proibisce l’ingresso di esperti per analizzare la contaminazione dei terreni e delle falde acquifere. Per questo motivo anche i controlli che si devono fare sono molto approssimativi, dato che anche i laboratori scientifici sono inutilizzabili da 4 anni. Questo è un fatto gravissimo che va denunciato. Pochi giorni fa ho incontrato una delegazione di medici turchi che vorrebbero fare chiarezza sui molteplici casi di cancro e di nascite di bambini deformi che si stanno verificando nelle zone bombardate. E’ la stessa identica cosa che è successa a Falluja in Iraq”.

Tu sei stato uno dei pochi che è riuscito a raccontare con coraggio l’operazione “Piombo Fuso”, vivendo in prima persona quei drammatici giorni. Che ricordo ne hai oggi?

“Le ferite sono ancora aperte. Ogni giorno puoi vedere sempre tutte le 50.000 abitazioni ancora distrutte. Le sofferenze e le cicatrici le vedi ogni giorno negli occhi della gente, soprattutto quelle dei bambini. Ricordo che a Gaza city su 1.500.000 di abitanti ci sono 800.000 bambini. I drammi psicologici, soprattutto per loro, sono stati grandissimi. Molti di loro soffrono di patologie psichiatriche. Non è facile per loro vedere tutto quello che hanno visto. Non è stato facile per loro vedere tutti quei corpi letteralmente macellati e a pezzi.

I miei ricordi, insieme a quelli dell’International Solidarity Movement , sono sempre drammatici. Eravamo gli unici attivisti presenti a Gaza in quei giorni. Si dice che la verità è la prima vittima di una guerra. Se pensiamo che Israele ha impedito a tutti i giornalisti internazionali di entrare nella striscia di Gaza, per “Piombo Fuso” è stato proprio cosi. L’obiettivo delle operazioni militari israeliane erano le ipotetiche basi di Hamas. In realtà, hanno bombardato scuole, ospedali, case, mercati e persino la sede delle Nazioni Unite. Non hanno avuto neanche scrupolo di colpire le ambulanze, violando tutte le convenzioni internazionali.

Io e quelli dell’I. S.M. avevamo chiesto cosa potevamo fare ai nostri coordinatori. E ci avevano detto di scendere dalle ambulanze dove eravamo saliti per aiutare i feriti, perché non volevano altre Rachel Corrie. Ma ci fu risposto: ‘con voi sulle ambulanze continuano a sparare; ma sparano un po’ meno…’ E cosi decidemmo tutti di restare sulle ambulanze. Ho perso un amico che lavorava all’ospedale di Jabalia. E’ morto al centro di Gaza, mentre cercava di soccorrere un ferito. Mentre lo soccorreva, un carro armato israeliano ha fatto fuoco sull’ambulanza, uccidendo il mio amico. Sono immagini che resteranno sempre impresse in modo indelebile nella mia memoria. Le ferite peggiori sono quelle interne, che non si chiuderanno più. Il ricordo più brutto è stato quando ho visto tanti bambini dilaniati dalle bombe. In ogni caso, dopo tutta questa carneficina, l’opinione pubblica mondiale ha capito chi è la vittima e chi è il carnefice. Israele continua ad espandersi, la Palestina continua a morire”.

(Nicola Lofoco, laureato in Scienze politiche, è giornalista free lance dal 2000; si è occupato per diverso tempo di radio e tv; oltre ad aver collaborato con diverse testate online, è stato nella redazione de L’ Unità, La Rinascita, e del Riformista dove si è occupato di politica estera)

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16 febbraio 2011

Solidarietà per Noureddine Adnane.

Noureddine Adnane è un venditore ambulante 27enne di origine marocchina che lo scorso 11 febbraio si è dato fuoco a Palermo dopo l'ennesimo controllo dei vigili urbani e relativo sequestro della merce (cappellini, guanti, giocattoli) dalla cui vendita il giovane ricavava quanto necessario per mantenersi, riuscendo anche a inviare soldi in patria per la giovane moglie Anika e la figlioletta.

All'ennesimo controllo (ne aveva già subiti quattro, il 28 gennaio, il 3, l'8 e il 9 febbraio!), Noureddine - che pure aveva la regolare licenza di ambulante - ha preso d'improvviso la decisione di darsi fuoco, in questo gesto di protesta estremo e disperato a cui abbiamo diverse volte assistito in questi giorni di rivolte popolari che attraversano il mondo arabo: ora è ricoverato al centro grandi ustioni del Civico di Palermo in gravissime condizioni, con le ustioni che interessano l'80% del suo corpo.

La tragica vicenda di Noureddine - che ha avuto eco anche all'estero - ha scosso i palermitani e ha scatenato la rabbia degli ambulanti marocchini di Palermo, che ieri si sono riuniti in un'affollata assemblea svoltasi in un aula del municipio, denunciando le angherie e le vessazioni a cui sono sottoposti quotidianamente, secondo le loro testimonianze, da parte dei vigili urbani. Il gruppo dell'Idv al Comune, da parte sua, lo stesso giorno ha presentato una interrogazione per chiedere al comandante dei vigili e all'assessore alle attività produttive di riferire in aula sull'accaduto.

E quanto accaduto a Noureddine dovrebbe anche spingerci a interrogarci, peraltro, sul modo con cui vengono accolti, vivono e lavorano i migranti che giungono nella nostra isola, perchè se agli stranieri che vivono nel nostro paese chiediamo giustamente il rispetto della legalità abbiamo, al contempo, il dovere di garantirgliela, di metterli al riparo da ingiusti soprusi e vessazioni, di offrirgli il nostro aiuto e la nostra solidarietà.

In segno di solidarietà e di sostegno a Noureddine Adnane, la comunità marocchina di Palermo, insieme alle persone e ai gruppi solidali ed antirazzisti riunitisi ieri, ha organizzato una preghiera comune giovedì alle ore 18:00 nel piazzale dinnanzi al reparto ustionati del Civico, dove è ricoverato il giovane, e una manifestazione per il prossimo sabato, 19 febbraio, alle ore 16:00, presso la centrale Piazza Politeama di Palermo.

E' stata, inoltre, organizzata una raccolta di fondi da destinare alla famiglia di Noureddine per superare questi momenti difficili e sostenere le prevedibili spese mediche future. Chi volesse partecipare, potrà effettuare un versamento sul conto corrente intestato a Cooperazione Internazionale Sud Sud - Iban IT42 H030 3204 6050 1000 0001 629 - presso l'Agenzia n.6 del Credem, Via D. Almeyda 42, Palermo.

Per maggiori informazioni:
Cooperazione Internazionale Sud Sud (CISS) - email info@cissong.org


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9 febbraio 2011

In Medio Oriente, l'appoggio americano genera un potere dispotico.

Le sollevazioni popolari in atto in Medio Oriente, specialmente in Egitto, segnano probabilmente la fine della politica perseguita fino ad oggi dagli Usa nell’area, che ha visto anteporre la lotta all’incombente minaccia del fondamentalismo islamico e, naturalmente, la garanzia della sicurezza di Israele alla libertà, al benessere e al rispetto dei diritti umani delle popolazioni costrette a vivere sotto il tallone dell’oppressione dei regimi semi-dittatoriali amici degli Stati Uniti.

Ciò vale anche e soprattutto per i “cavalli” Abu Mazen e Salam Fayyad su cui hanno puntato gli Usa per tenere a bada Hamas e che hanno portato l’Anp a diventare un vero e proprio braccio operativo dell’occupazione israeliana nella West Bank, un’autorità brutale e repressiva che imprigiona e tortura chiunque sia sospettato di vicinanza all’organizzazione islamica.

Ancora lunedì scorso quattro attivisti di Hamas sono stati arrestati nel villaggio di Assira, uno a Salfit ed un altro a Jenin, mentre a Tulkarem lo Sheikh Hasan Manasra è stato ricoverato in ospedale per le ferite riportate al volto a seguito delle torture inflittegli dai servizi di sicurezza dell’Anp.

Il vero è che l’attuale leadership palestinese ha perso ogni legittimazione sia da un punto di vista formale, essendo ormai scaduto da due anni il mandato elettorale di Abbas, sia da quello sostanziale, dopo che la pubblicazione dei cd. Palestine Papers ha drammaticamente evidenziato come gli attuali dirigenti dell’Autorità palestinese siano pronti ad ogni concessione ad Israele e a svendere i diritti del popolo palestinese pur di mantenere il potere e, soprattutto, l’afflusso dei generosi finanziamenti Usa e Ue.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto da Fadi Elsalameen per il quotidiano israeliano Ha’aretz e qui pubblicato nella traduzione di Medarabnews.

In Meadest, U.S. backing means absolute power
di Fadi Elsalameen – 4.2.2011
I cavalli americani, Salam Fayyad e Mahmoud Abbas, spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.

L’ondata di rivolte popolari che stanno avendo luogo in Medio Oriente manda un chiaro messaggio a coloro che sono – o che aspirano ad essere – al potere nel mondo arabo. Assieme alla serie di documenti segreti recentemente trapelati, tali rivolte dimostrano come non si debba mai puntare sul “cavallo dell’America”.

Il “cavallo dell’America” è il leader arabo sostenuto dagli Stati Uniti, e autorizzato a governare qualora lo ritenga opportuno, purché non minacci la sicurezza di Israele o altri interessi americani nella regione. In cambio, egli è autorizzato a violare i diritti umani e a negare i diritti economici e politici al suo popolo. Con la benedizione dell’America, e sotto la bandiera della lotta al fondamentalismo islamico, può reprimere ogni possibile forma di opposizione.

In tutti i 10 anni trascorsi per studio negli Stati Uniti, ho sognato di tornare in Palestina e di contribuire alla creazione del futuro stato palestinese. Provenendo da un ambiente modesto a Hebron, e avendo avuto il privilegio di studiare in alcune delle migliori università degli Stati Uniti, mi sentivo in dovere di aiutare la mia gente, consapevole di essere stato più fortunato degli amici e fratelli che erano rimasti in Palestina.

Tuttavia, quando lo scorso settembre sono tornato, ho trovato un muro ancora più alto della barriera di separazione israeliana ad impedirmi di aiutare i miei fratelli e le mie sorelle palestinesi. Quel muro era costituito dai “cavalli” palestinesi dell’America: il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad e il presidente Mahmoud Abbas.

Quando ho iniziato a sollevare pubblicamente obiezioni nei confronti dello stato di polizia che si stava formando in Cisgiordania, e contro la paura instillata in coloro che osavano criticare il governo di Fayyad, i servizi segreti hanno cominciato a molestarmi, al punto che non mi sono sentito più al sicuro in Cisgiordania. Anche adesso che sono tornato negli Stati Uniti, ricevo telefonate di minaccia a causa delle mie critiche a Fayyad e Abbas. Molti amici in Palestina sono stati arrestati o convocati per interrogatori da parte di funzionari dell’intelligence palestinese, a causa delle loro critiche a Fayyad e Abbas su Facebook e Twitter.

Quello che si legge sui giornali circa il governo tecnocratico di Fayyad, sulla base di interviste con il primo ministro stesso, non corrisponde alla realtà. Sono colpevole di essere stato tra quelli che hanno ingiustamente elogiato il lavoro di Fayyad. Fayyad offre un approccio teorico molto interessante alla creazione dello stato, ma nella pratica la sua attuazione non potrebbe essere più lontana dai principi di democrazia, trasparenza, libertà e senso di responsabilità. I “cavalli dell’America”, Fayyad e Abbas, mi spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.

Molti prima di me si sono dovuti scontrare con questa realtà. In effetti, ciò che si vede oggi in Palestina e nel mondo arabo in generale non è che una reazione alle politiche repressive dei “cavalli dell’America” nei confronti di popoli istruiti che sognano le riforme.

I “Palestine Papers” pubblicati da Al Jazeera e dal Guardian non sono emersi perché due insoddisfatti ex dipendenti dell’ANP sono stati incoraggiati a farlo da presunti operatori della CIA e dell’MI6, come ha affermato il negoziatore palestinese Saeb Erekat. Al contrario, essi sono la conseguenza di anni di insoddisfazione vissuti da palestinesi intelligenti, capaci, che hanno studiato in Occidente, e che hanno abbandonato gli stipendi redditizi che avevano negli Stati Uniti per tornare in patria ed avere un ruolo nel processo di pace palestinese e nella costruzione delle istituzioni del futuro stato.

Ma il loro duro lavoro e le loro opinioni sono state completamente ignorate dalla leadership dell’Autorità Palestinese. Come risultato, molti di essi hanno smesso di lavorare per l’ANP e, ispirati da Wikileaks, si sono sentiti in dovere di entrare in contatto con network come Al Jazeera per far luce sulle gravi carenze della leadership di Abbas e dei suoi collaboratori.

Ci saranno altre fughe di notizie che comprometteranno ulteriormente ciò che resta della credibilità dell’Autorità Palestinese fino a quando non vi sarà un serio cambiamento nel processo decisionale, affinché sia più inclusivo e rappresentativo del popolo.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali dovranno riconsiderare il loro approccio nei confronti dei regimi del Medio Oriente. Al “cavallo dell’America” non basterà più usare la bandiera della moderazione e dei valori occidentali, e il pretesto di combattere gli islamisti, per reprimere ogni opposizione. Dopotutto, chiunque nel mondo arabo sa che non è in questo modo che l’America sceglie i propri leader e tratta la propria opposizione politica.

Questo è un momento cruciale per gli Stati Uniti, che dovranno riflettere a lungo e con attenzione sui loro interessi nella regione, osservandoli attraverso la lente dei bisogni e dei desideri delle masse arabe, e non giocando d’azzardo e scommettendo su questo o quel “cavallo” americano. Più gli Stati Uniti e Israele ignoreranno le voci dei giovani arabi che chiedono le riforme, più sarà difficile che essi troveranno in tali giovani degli alleati quando questi ultimi prenderanno il destino nelle proprie mani.

La lezione da trarre è che il “cavallo dell’America” non può vincere la gara. Il presidente Obama ha imparato la lezione? Lo capiremo dal modo in cui sta gestendo la crisi in Egitto – e in Palestina – e dal messaggio che sta inviando alle masse arabe desiderose della libertà politica.

Fadi Elsalameen si occupa dell’American Strategy Program presso la New America Foundation; è anche direttore dei giornali online palestinenote.com e diwanpalestine.com

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8 febbraio 2011

Pasqua e 25 aprile in Palestina e Israele.

Assopace, nel periodo compreso tra il 19 ed il 26 aprile, organizza un tour in Palestina e in Israele con Luisa Morgantini, già Vice Presidente del Parlamento Europeo.

Durante il nostro soggiorno, viaggeremo attraverso i Territori Palestinesi Occupati e Israele, per villaggi, città, campi profughi.

Jaffa, Tel Aviv, Haifa, Ramallah, Hebron, Betlemme, Nablus, Gerico e la Valle del Giordano, Gerusalemme: luoghi pieni di fascino e storia, ma anche pervasi dal dolore e dall’ingiustizia della illegalità dell’occupazione militare israeliana. Nel nostro cammino conosceremo la speranza, la forza e la grande umanità di uomini e donne palestinesi, israeliani e internazionali, che resistono pacificamente e quotidianamente all’occupazione, rispondendo alla forza militare con la nonviolenza, e battendosi per la fine dell’occupazione ed una pace equa e giusta.

Chiederemo di poter entrare a Gaza, ancora sotto assedio, e continueremo a chiedere la fine del blocco imposto alla popolazione civile.

Sono ormai moltissimi anni che organizziamo viaggi di conoscenza in Israele e in Palestina, un “andare e tornare” che prosegue sin dalla prima Intifadah. per contribuire a tenere aperta la strada per la libertà e l’indipendenza del popolo palestinese, per una pacifica coesistenza tra i due popoli. Al ritorno ci troveremo ancora per raccontare e per essere messaggeri del diritto di tutte e tutti alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione.

Il costo complessivo del nostro viaggio sarà di 1.200 euro, incluso il biglietto aereo a/r, la camera d’albergo (doppia), colazione e cena, oltre a guide e trasporti sul posto.

Per info e prenotazioni:
luisamorgantini@gmail.com tel. 348 3921465 – 370 1055770 - 0686895520

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2 febbraio 2011

Le masse egiziane non saranno alleate di Israele.

Fa una certa impressione vedere la storia che passa davanti ai nostri occhi incollati agli schermi televisivi, le masse oceaniche di Egiziani inquadrati dalle telecamere di al-Jazeera che sfidano il coprifuoco e rischiano la vita per dare la spallata finale al morente regime di Mubarak.

Nessuno credo si sarebbe potuto aspettare un così repentino precipitare degli eventi in Egitto. Non se lo aspettava il nostro ministro degli esteri Frattini – evidentemente occupato da altre faccende – che sulla sua pagina di Facebook, ancora il 26 gennaio, scriveva “Mubarak continui a governare con saggezza”.

Ma non se lo aspettavano nemmeno i pur solitamente bene informati servizi segreti israeliani che, come ci racconta Gideon Levy di Ha’aretz nell’articolo segue (tradotto a cura di Medarabnews), assicuravano con certezza di come Mubarak fosse saldamente al potere ed avesse la situazione sotto controllo.

Da questa premessa, il giornalista israeliano trae lo spunto per una analisi delle conseguenze della fine del regime del rais egiziano riguardanti più da vicino Israele.

La prima, di carattere generale, concerne l’ipocrisia, ma anche l’inutilità, di sostenere regimi dittatoriali e impopolari nella vana speranza che assicurino pace e stabilità e, soprattutto, che facciano da argine al sempre incombente pericolo dell’estremismo islamico.

La seconda, che riguarda più da vicino lo stato israeliano, concerne il fatto che Israele, per essere davvero accettato in medio oriente, non può limitarsi a contare sull’appoggio di qualche ambasciata amica o a dare un frettoloso maquillage alla propria immagine alleviando in misura minima l’assedio di Gaza, ma deve porre termine senza alcun indugio all’occupazione dei territori e all’oppressione del popolo palestinese.

Se davvero l’obiettivo è quello di tagliare le radici che nutrono l’estremismo fanatico di matrice islamista, esso potrà essere perseguito soltanto favorendo in Egitto e nel mondo arabo i processi democratici, la tutela dei diritti civili e politici, lo sviluppo economico.

Gli Usa sembrano aver compreso tutto ciò, laddove si osservi che ieri il presidente Obama ha dichiarato che il processo di transizione che dovrà portare l’Egitto verso la vera democrazia “deve includere un vasto spettro di voci e di partiti dell’opposizione” e “deve portare a elezioni libere e pulite”. Anche se, va detto, anche Hamas nel 2007 aveva vinto elezioni “libere e pulite”, e tutti sanno come poi è andata a finire…

Gli Israeliani, invece, dapprima si sono mostrati scioccati per le prese di posizione di Ue e Usa, che invitavano Mubarak a non reprimere con la forza le manifestazioni popolari, e ora, addirittura, temono che Obama – dopo aver “pugnalato alle spalle” il rais egiziano – possa un giorno abbandonare Israele al suo destino.

Riuscirà questo timore, invero poco fondato, a determinare un significativo cambiamento della politica israeliana, un rinnovato impegno nel processo di pace, l’abbandono dei territori occupati? Ne dubitiamo fortemente.

Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.

di Gideon Levy – 30.1.2011

Tre o quattro giorni fa, l’Egitto era ancora nelle nostre mani. Il nostro esercito di esperti – compreso il nostro massimo esperto di Egitto, Benjamin Ben-Eliezer – aveva detto che “tutto è sotto controllo”, che il Cairo non è Tunisi e che Mubarak è forte. Ben-Eliezer aveva detto di aver parlato al telefono con un alto funzionario egiziano, il quale gli aveva assicurato che non c’è niente di cui preoccuparsi. Potete contare su Hosni, in procinto di diventare l’ex presidente dell’Egitto.

Venerdì notte tutto è cambiato. Si è scoperto che le valutazioni dei servizi segreti israeliani, che erano state recitate fino alla nausea dagli analisti di corte, erano ancora una volta, potremmo dire, non proprio il massimo dell’accuratezza. Il popolo dell’Egitto ha voluto dire la sua, ed ha avuto il coraggio di non mostrarsi in linea con i desideri di Israele. Un attimo prima che il destino di Mubarak sia sancito una volta per tutte, è giunto il momento di trarre le conclusioni israeliane.

Non la piaga delle tenebre in Egitto, ma la luce del Nilo: la fine di un regime sostenuto dalle baionette è una fine annunciata. Esso può andare avanti per anni, e la rovina a volte arriva quando meno la si aspetta, ma alla fine arriva. Non solo Damasco e Amman, Rabat e Tripoli, Teheran e Pyongyang: anche Ramallah e Gaza sono destinate a crollare.

La divisione ipocrita e bigotta, compiuta dagli Stati Uniti e dall’Occidente, tra paesi appartenenti all’ “asse del male” da un lato, e paesi “moderati” dall’altro, è crollata. Se c’è un asse del male, allora comprende tutti i regimi non democratici, compresi i paesi “moderati”, “stabili” e “filo-occidentali”. Oggi l’Egitto, domani la Palestina. Ieri Tunisi, domani Gaza.

Non solo il regime di Fatah a Ramallah e il regime di Hamas a Gaza sono destinati a cadere, ma un giorno forse anche l’occupazione israeliana, che risponde certamente a tutti i criteri della tirannia e di un regime criminale. Essa si basa fin troppo soltanto sulle armi. Anch’essa è odiata da tutte le componenti del popolo dominato, anche se quest’ultimo si trova impotente, non organizzato e non attrezzato, di fronte a un grande esercito. La prima conclusione: meglio porvi fine con buoni modi, con accordi basati sulla giustizia e non sulla potenza, un attimo prima che le masse dicano la loro e riescano a scacciare le tenebre.

Una seconda, non meno importante, conclusione: le alleanze con regimi impopolari possono essere distrutte nel giro di una notte. Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.

Il regime egiziano era divenuto un alleato dell’occupazione israeliana. L’assedio congiunto di Gaza è la prova inconfutabile di ciò. Al popolo egiziano questo non piaceva. Esso non ha mai gradito l’accordo di pace con Israele, nel quale Israele si è impegnata a “rispettare i diritti legittimi del popolo palestinese” senza mai mantenere la parola. Invece, il popolo egiziano ha ricevuto in cambio le immagini dell’operazione Piombo Fuso.

Non è sufficiente avere una manciata di ambasciate al fine di essere accettati nella regione. Devono esserci anche ambasciate di buona volontà, una giusta immagine e uno Stato che non sia uno Stato occupante. Israele deve farsi strada nel cuore dei popoli arabi, i quali non potranno mai accettare la continua repressione dei loro fratelli, anche se i loro capi dell’intelligence continueranno a collaborare con Israele.

Se c’è una cosa condivisa da tutte le fazioni dell’opposizione egiziana, è il loro odio ribollente nei confronti di Israele. Ora i loro rappresentanti saliranno al potere, e Israele si troverà in una situazione difficile. Né rimarrà alcunché del successo virtuale che Netanyahu ha spesso ostentato – l’alleanza con i regimi arabi “moderati” contro l’Iran. Una vera alleanza con l’Egitto e con i paesi suoi fratelli può essere basata solo sulla fine dell’occupazione, così come desidera il popolo egiziano, e non su un nemico comune, come è nell’interesse del suo regime.

Le masse del popolo egiziano – si prega di notare: a tutti i livelli – hanno preso il loro destino nelle loro mani. C’è qualcosa di impressionante e di rasserenante in questo. Nessun potere, nemmeno quello di Mubarak, che a Ben-Eliezer piace tanto, può impedirlo. A Washington la gravità del momento è già stata compresa, e l’amministrazione americana si è affrettata a dissociarsi da Mubarak, cercando di accattivarsi il favore del popolo egiziano. Lo stesso dovrebbe accadere, ad un certo punto, a Gerusalemme.

Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982

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1 febbraio 2011

Israele (a ragione) teme il boicottaggio.

La pratica del boicottaggio contro i prodotti israeliani è forse l’arma non violenta più temibile che la società civile può adoperare contro Israele, l’occupazione illegale dei Territori palestinesi, i crimini dell’esercito israeliano.

Non è un caso che, in un
documento riservato di cui recentemente ha dato notizia Ha’aretz, i pur cauti capi delle missioni diplomatiche Ue in Israele e a Ramallah abbiano mutuato questo tipo di “arma”, suggerendo ai paesi membri dell’Unione europea di utilizzarla contro i prodotti e le aziende israeliane operanti a Gerusalemme est.

Sull’argomento, segue una interessante e divertente analisi di Douglas Hamilton, pubblicata sul sito web della Reuters.

Israele vede una minaccia nei “delegittimatori”.
di Douglas Hamilton – 23.1.2011

Proteste, boicottaggi, embarghi e sanzioni all'estero, insieme alla resistenza interna, hanno contribuito a portare all'isolamento e, poi, alla fine dell'apartheid in Sud Africa negli anni’90.

Ora, gli israeliani temono che gli attivisti pro-palestinesi, o anti-israeliani, stiano utilizzando le stesse tattiche contro il proprio paese, con sempre maggiore efficacia.

Carlos Santana, Gil Scott Heron, Elvis Costello, Gorillaz Sound System, i Klaxons, i Pixies, Faithless, Leftfield, Tindersticks, Meg Ryan e il regista Mike Leigh hanno deciso di non andare in Israele negli ultimi mesi.

Alcuni artisti da molto tempo sulla scena e più noti – tra cui Paul McCartney, Elton John e Rod Stewart - hanno invece ignorato la pressione della campagna per il boicottaggio.

Il sito web boycottisrael.info ne tiene conto.

Gli analisti israeliani dicono che la pressione viene esercitata sugli artisti da una rete globale di "delegittimazione".

Implicazioni strategiche

Il Sud Africa bianco è stato ostracizzato in una campagna durata anni. Oggi, Facebook e Twitter possono inviare messaggi di protesta a livello mondiale in pochi secondi, esercitando una pressione sugli artisti per convincerli a stare lontano da Israele e attirando l'attenzione di milioni di fan.

Per Israele, non è solo una questione di sentirsi isolato e incompreso. Ci sono serie implicazioni strategiche.

Con i negoziati di pace portati avanti dagli Stati Uniti fermi da settembre, i Palestinesi si sentono come se fossero “al posto di guida”, secondo quanto affermato da Yuval Diskin, capo dell'agenzia di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, in una valutazione per il Parlamento.

"Questo processo si sta facendo strada," ha detto. "C'è una crescente tendenza verso il riconoscimento di uno stato palestinese, e una diminuzione della capacità di Israele di manovrare diplomaticamente".

Nessun paese ha riconosciuto l'annessione israeliana di Gerusalemme Est o i suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. È altrettanto improbabile che gli Stati Uniti e i suoi alleati riconoscerebbero una dichiarazione unilaterale di sovranità palestinese.

Le grandi potenze e le Nazioni Unite insistono che l'unica soluzione durevole al conflitto in Medio Oriente consiste in un accordo negoziale che porti alla creazione di uno stato palestinese. Sia Israele sia i Palestinesi sostengono di essere impegnati per questo obiettivo sfuggente.

Tuttavia, Israele è preoccupato che qualche mossa unilaterale - forse in occasione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre - possa cambiare tutto, segnando un trionfo diplomatico di cui gioirebbero coloro che si augurano la definitiva distruzione dello Stato ebraico.

Nessun recupero

Israele è stato colpito dalle critiche internazionali per il suo attacco di tre settimane a Gaza che ha ucciso 1.400 palestinesi nel 2008-2009, e di nuovo per l'uccisione di nove attivisti turchi lo scorso maggio in un raid contro una flottiglia che cercava di rompere l'assedio di Gaza.

Sotto pressione da parte degli alleati stranieri, Israele in giugno ha allentato il blocco a un milione e mezzo di Palestinesi. Ma non vi è stato un effettivo recupero dal danno alla sua immagine. Israele dice che gli attivisti cinicamente e ingiustamente ignorano il fatto che Hamas e altri gruppi armati islamici a Gaza sono votati alla sua distruzione.

Il think tank Reut Institute, che si concentra su questioni di sicurezza e socio-economiche, sostiene che i delegittimatori cercano di negare il diritto di Israele ad esistere, raffigurandolo "sistematicamente, volutamente e diffusamente” come “crudele e disumano”, negando in tal modo la legittimità morale della sua esistenza.".

Israele è "marchiato come il nuovo Sud Africa dell'apartheid" che, secondo i delegittimatori, può essere addomesticato soltanto con la forza.

Essi hanno deliberatamente confuso la linea di confine tra la critica genuina e la demonizzazione, quindi anche le critiche in buona fede alla politica israeliana potenzialmente fanno il gioco della loro campagna, afferma il think-tank.

Delegittimazione è una parola ora utilizzata frequentemente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e da alcuni dei suoi ministri.

Quando i giovani Ebrei statunitensi hanno interrotto il suo discorso a New Orleans a novembre, li ha severamente criticati come delegittimatori inconsapevoli.

Il suo ministro degli esteri, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, sta creando una commissione parlamentare per indagare sui finanziamenti di gruppi israeliani e stranieri, come Human Rights Watch, che sospetta facciano parte della rete globale di delegittimazione.

I critici di Lieberman sostengono che è lui a distruggere la reputazione di Israele come democrazia, liquidando pubblicamente le possibilità di una pace in Medio Oriente.

Oltre l'80 per cento dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite riconoscono Israele. Con la recente aggiunta di otto Stati latino-americani, 108 paesi ora riconoscono lo Stato palestinese. Con una sufficiente pressione dell'opinione pubblica, i Palestinesi sperano che il numero si accresca.

L'impressione di alcuni israeliani che gran parte del mondo abbia dei pregiudizi nei loro confronti è stata di recente oggetto di satira con la parodia di una scuola materna in un popolare programma televisivo di satira israeliano dal titolo "Un paese meraviglioso".

Recitando la loro lezione, i bambini cantano: Israele non ha "nessuno con cui parlare" di pace. "La rimozione degli insediamenti non porterà la pace", cantano. "L'esercito di Israele è morale". "Dategli la Cisgiordania e loro vorranno Haifa".

Quando la maestra indica il "piccolo Israele" su un globo terrestre e chiede: come chiamiamo il resto del mondo?, i bambini rispondono in coro: "antisemita!".

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