25 febbraio 2009

La guerra di Gaza non è finita.

Ad oggi non è ancora chiara la responsabilità dell’attentato avvenuto domenica sera nel suk di Khan el-Khalili in Egitto, che la provocato la morte di una studentessa francese di 17 anni e il ferimento di altre 25 persone.

I tre arrestati delle prime ore – un uomo e due donne – sono già stati rilasciati, mentre rimangono in stato di fermo altre 14 persone, tra le quali la tv araba “al-Arabiya” afferma esservi anche tre uomini di origine pachistana.

Con tutte le cautele del caso, il giornalista Guido Rampoldi, nell’articolo che segue, ritiene che l’attentato sia in qualche modo legato ai recenti accadimenti nella Striscia di Gaza e, in particolare, al difficile ruolo di mediazione di cui si è fatto carico l’Egitto. Rampoldi, con una chiara esposizione, mette in luce la reale posta in gioco tra Israele e il Cairo riguardo a Gaza, e mostra come il ruolo di mediatore, per forza di cose neutrale, abbia attirato su Mubarak le ire del mondo islamico.

Qui voglio solo aggiungere che tutte le risoluzioni e i documenti ufficiali che riguardano la questione palestinese hanno sempre perfettamente chiarito che la Striscia di Gaza rappresenta un tutt’uno con la Cisgiordania, e che il futuro stato palestinese dovrà ricomprendere entrambe le aree. L’ opzione “egiziana” per Gaza, dunque, al pari dell’opzione “giordana” per la West Bank, non ha nessun aggancio di legittimità che ne supporti l’implementazione e, del resto, entrambe sono fieramente avversate dagli stati interessati.

Sembra un secolo fa, ma il 15 novembre del 2005 Israeliani e Palestinesi firmavano un accordo che regolava l’accesso e il movimento da e per la Striscia di Gaza delle persone e delle merci (Agreement on Movement and Access), un accordo fortemente voluto e sponsorizzato da Condoleezza Rice e (quasi subito) sabotato da Israele, al pari degli innumerevoli accordi e intese di questi anni.

L’intenzione dell’AMA era quella di “facilitare il movimento di beni e persone all’interno dei Territori palestinesi, di aprire “…un valico internazionale sul confine tra Gaza e l’Egitto” che avrebbe permesso ai Palestinesi di controllare “l’entrata e l’uscita delle persone” e, in definitiva, “di promuovere un pacifico sviluppo economico e di migliorare la situazione umanitaria sul campo”; a tal fine, oltre a prevedere che i valichi tra Israele e la Striscia restassero aperti in via continuativa, l’accordo ipotizzava che Gaza e la West Bank fossero collegati a mezzo di convogli di autobus (per le persone) e di camion (per le merci), che la costruzione del porto a Gaza potesse iniziare da subito e che si cominciasse a discutere anche della costruzione di un aeroporto.

Come è andata a finire, è noto.

Ora è il momento di riprovare, tenendo presente tre fatti: a) che, come afferma Rampoldi, occorre trovare una soluzione per Gaza, e bisogna farlo in fretta; b) che la soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese è l’unica a poter essere accettata da tutte le parti in causa e ad essere concretamente attuabile; c) che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania devono costituire un tutt’uno inseparabile.

La causa palestinese, come è noto, costituisce un richiamo formidabile per ogni gruppo terroristico di matrice islamica, sia strutturato sia”amatoriale” come sembra essere quello entrato in azione in Egitto, e lo dimostrano anche i tragici fatti di Mumbai così come i recenti proclami di al-Zawahiri.

Trovare una soluzione per Gaza e, più in generale, una pacifica ed equa composizione del conflitto israelo-palestinese è dunque urgente ed indispensabile per assicurare la pace nella regione, ma non solo; e questa soluzione va trovata ed attuata anche ove non coincida perfettamente con le aspettative di Israele.

LA GUERRA DI GAZA NON E’ FINITA
Guido Rampoldi (La Repubblica, 23 febbraio 2009)

La bomba esplosa ieri in un caffè del Cairo prossimo al mercato più frequentato dai turisti, Khan el Khalili, sembra ricordarci che la guerra di Gaza non è definitivamente finita con il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia.

L`attentato ha ancora contorni confusi e converrà attendere di saperne di più, senza dimenticare quel che accadde a proposito delle stragi di turisti nel Sinai, che attribuite dalla polizia ad AlQaeda, si rivelarono la vendetta di tribù beduine contro il governo.

Ma premesso quest`obbligo alla cautela, è difficile sottrarsi al sospetto che questa riapparizione del terrorismo al Cairo sia connessa con quanto avvenuto nella Striscia, e con la parte complicata imposta dalle circostanze al regime di Mubarak, costretto a districarsi tra Hamas e Israele, mediatore e possibile vittima di una partita da cui ha molto da perdere.

Converrà ricordare che vista dal Cairo l`offensiva israeliana aveva obiettivi molteplici, tra elettorali e tattici, ma innanzitutto uno scopo strategico: scaricare Gaza e i suoi abitanti all`Egitto.

Non era tanto la seconda guerra di Ehud Olmert, quanto l`ultima di Ariel Sharon. Era stato infatti Sharon a varare nel 2006 quel Disengagement Plan, o Piano di disimpegno, che portò l`esercito israeliano a sgomberare con la forza tutti gli insediamenti colonici nella Striscia. Ma Israele si proponeva di liberarsi non soltanto del peso di quei villaggi, troppo costosi da difendere e ormai d`impaccio, ma anche delle responsabilità legali verso i palestinesi che derivavano ad Israele dal suo ruolo di potenza occupante (come afferma il Piano al capitolo 1, paragrafo 6, dove si legge: «The completion of the planwill serve to dispel the claims regarding Israel`s responsibility for the Palestinians in the Gaza Strip»). Allo stesso tempo il governo israeliano non voleva che Gaza diventasse Stato palestinese. O perlomeno non lo voleva dopo la vittoria di Hamas nella Striscia, giacché a quel punto avrebbe avuto un alleato di Teheran quasi in casa. L`unica soluzione che assecondasse i desideri israeliani era il ritorno di Gaza all`Egitto. Ma l`Egitto, che fino al 1967 aveva esercitato sulla Striscia un mandato fiduciario, non aveva alcuna intenzione di prendersi un milione e mezzo di palestinesi, per giunta affacciati sul Sinai.

Sarebbe stato come spingere un popolo senza terra verso una terra senza popolo, con tutto quel che ne poteva derivare. Per esempio, che la diaspora palestinese tentasse di ritagliarsi una patria nel Sinai, come già aveva fatto in Giordania e in Libano.

Secondo diplomatici egiziani, a più riprese gli israeliani tentarono di convincere Muharak che Gaza all`Egitto sarebbe stato un buon affare. Invano. Il Cairo non ne voleva sapere. E perché non si creassero equivoci, teneva chiuso il confine con la Striscia. La polizia chiudeva gli occhi, questo sì, sul via vai sotterraneo di merci che raggiungevano i palestinesi attraverso i tunnel di Rafah. Ma formalmente la frontiera era sigillata, proprio come lo era, anche nei fatti, la frontiera israeliana.

Vittime di quel braccio di ferro, i palestinesi restavano totalmente isolati. E Hamas minacciava di vendicarsi ricominciando a sparare razzi sulle città israeliane.

Tutto è precipitato poco prima che si insediasse Obama. Diviso e forse incapace di sottrarsi agli ordini di Teheran, Hamas non ha rinnovato la tregua, sapendo perfettamente cosa ne sarebbe seguito.

E Israele ha lanciato l`offensiva che preparava da mesi.

Che questo fosse o no da subito il principale obiettivo, l`aviazione ha raso al suolo tutti i palazzi che rappresentavano la statualità palestinese e bombardando depositi alimentari o mulini, ha costruito le premesse perché i palestinesi dipendessero dagli aiuti egiziani. Ma tutto questo, così come la morte di 1300 persone, è stato inutile. L`Egitto non ha ceduto e Mubarak ha messo in chiaro che non si sarebbe fatto imbrogliare dagli israeliani. Hamas conserva i suoi arsenali e non ha perso la presa su Gaza. Israele è più isolata, e le ultime elezioni non hanno certo contribuito alla sua immagine.

Ma la partita non è finita. Così come hanno voluto la guerra, paradossalmente Hamas e Israele vogliono anche che il conflitto si concluda, almeno sul momento, con la stessa soluzione tecnica: che l`Egitto apra il confine. Mubarak si rifiuta e la sua diplomazia continua a lavorare, per ora inutilmente, ad un compromesso che costringa Israele a riconoscere la propria responsabilità su Gaza, e Hamas a riconoscere un qualche ruolo istituzionale al presidente Abu Mazen, legittima Autorità palestinese. Ma questo ruolo di mediatore, per forza di cose neutrale, espone Mubarak all`ira di tutto l`estremismo islamico.

Lo si considera un complice di Israele, un traditore della causa araba e un nemico dei palestinesi, per aver tenuto chiuso il confine prima e durante l`offensiva israeliana. In Egitto i suoi accusatori più tenaci sono quelle frange dei Fratelli musulmani forse sfuggiti di mano al vertice dell`organizzazione fondamentalista, un consesso di vecchioni molto più inclini al compromesso della base giovanile.

E` quest`area fuori controllo, oppure il terrorismo palestinese, che potrebbero aver prodotto l`attentato di ieri. Che ci ricorda come lo status quo di Gaza non sia sostenibile a lungo. Occorre trovare una soluzione, e trovarla in fretta.

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24 febbraio 2009

Il Consiglio comunale di Palermo approva mozione di solidarietà con il popolo palestinese.

Probabilmente molti, anche tra i cittadini palermitani, ignorano che la città di Palermo è da anni gemellata con Khan Yunis, la seconda città più popolosa della Striscia di Gaza.

Anche questa città, al pari dell’intero territorio della Striscia, ha dovuto subire le atrocità e i crimini dell’operazione israeliana denominata “Piombo Fuso”: secondo i dati del Palestinian Centre for Human Rights, a Khan Yunis sono stati uccisi 83 Palestinesi (61 civili, tra cui 16 bambini e 5 donne) e ne sono stati feriti almeno 395; i raid israeliani, inoltre, hanno distrutto 230 abitazioni, 4 edifici governativi, 2 moschee (altre 5 risultano danneggiate) e numerosi siti industriali, commerciali, educativi e assistenziali.

A Khan Yunis, tra l’altro, esiste anche una piazza intitolata alla città di Palermo, che probabilmente è stata anch’essa teatro di questo orrendo spettacolo di morte e distruzione.

Giunge opportuna, quindi, la mozione di solidarietà con il popolo palestinese presentata nei giorni scorsi dal consigliere Antonella Monastra di “Un’Altra Storia” e approvata all’unanimità dal Consiglio comunale di Palermo, volta a promuovere una raccolta di fondi da destinare a scopi umanitari in favore della popolazione palestinese così duramente provata, e a rivitalizzare quel gemellaggio con Khan Yunis che, mai come adesso, attende di essere riempito di contenuti concreti.



MOZIONE
Solidarietà con il popolo Palestinese

Premesso che



La dolorosissima vicenda del conflitto arabo-palestinese (sic!) per la distanza dei luoghi e per la complessità delle cause che lo determinano, potrebbero produrre in tutti noi una sostanziale indifferenza o un senso profondo di dolorosa impotenza, ma di fronte al dramma del popolo Palestinese non possiamo e non dobbiamo permetterci né indifferenza né frustrazioni d’impotenza


Considerato che



Noi siciliani siamo tra gli occidentali geograficamente più vicini al mondo Arabo, al quale siamo legati da secoli di storia, cultura, commerci.

Palermo è una città con una fortissima presenza di immigrati arabi, per lavoro e per studio.

In questo stesso momento la comunità palestinese della nostra città è nell’angoscia più totale di fronte alle immagini che noi ci limitiamo a guardare con umana compassione e sgomento.

Accanto alla Comunità Palestinese Siciliana si sono strette le forze politiche, i sindacati, le associazioni e la società civile partendo dalla considerazione che si può essere equidistanti ma, pur condannando il terrorismo, non si può disconoscere la sproporzione di forze tra i due paesi (sic!) in conflitto e i drammatici effetti numerici di tale sproporzione sulla popolazione civile e in particolare, fatto terribile, sui bambini.

Dal punto di vista esclusivamente umanitario è comunque fuori discussione che le medicine, l’acqua, il cibo, i generi di prima necessità mancano solo al popolo palestinese e che questo popolo è oggettivamente più esposto alla violenza e ne paga il prezzo più alto.

Palermo è gemellata con la città palestinese di Khan Yunis, la seconda città della Striscia di Gaza. In questa città della Palestina vi è una piazza intitolata a Palermo che oggi potrebbe essere o già essere stata teatro di violenza, distruzione, morte.



IL CONSIGLIO COMUNALE

si impegna e impegna

IL SINDACO

ad adoperarsi concretamente



affinché si informino e si sensibilizzino con correttezza i cittadini sul conflitto in atto e sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza e nei territori occupati.

Affinché vengano raccolti fondi da destinare per scopi umanitari alla popolazione civile palestinese con particolare riguardo ai bambini.

Affinché vengano ripresi e rafforzati i canali istituzionali fra la città di Palermo e la città di Khan Yunis poiché il gemellaggio esistente non può essere solo di natura simbolica né come tale era stato concepito.

I consiglieri
(mozione approvata all’unanimità nella seduta del 19 febbraio

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20 febbraio 2009

La vignetta del giorno: doppio standard.


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18 febbraio 2009

Riconsiderare il processo di pace.

Viste dall’ottica dei Palestinesi, le recenti elezioni israeliane non potranno che avere come risultato il congelamento del processo di pace con Israele o, al più, la ripresa di quei negoziati inconcludenti che, in questi anni, sono serviti soltanto a nascondere il massiccio processo di colonizzazione della Cisgiordania che sta rendendo di fatto impossibile la nascita di uno Stato palestinese degno di questo nome.

Abbiamo già
sottolineato come in Israele non vi sia più alcuna differenza tra “falchi” e “colombe”, né esista più alcun fronte della pace, restando in piedi solo il fronte dell’estremismo e della guerra.

Come esattamente rilevato dal filosofo e psicanalista israeliano
Carlo Strenger, “Israele si sta trasformando in un ghetto … con un atteggiamento paranoico e spesso disumanizzante nei confronti degli Arabi, ed insensibile ai valori del mondo occidentale al quale vuole appartenere. La cecità morale che ne deriva è stata messa in luce drammaticamente dal modo in cui è stata condotta l’operazione a Gaza”.

A fronte di ciò, i Palestinesi devono riconsiderare il processo di pace, tenendo conto degli insegnamenti del passato; continuare a mendicare la pace e a condurre estenuanti e inconcludenti trattative – in un momento in cui in Israele prevalgono gli appelli alla guerra, all’espansionismo, al razzismo – rappresenterebbe un gravissimo errore e un ulteriore incentivo per il futuro governo israeliano a continuare a impedire nei fatti la nascita di uno Stato palestinese e a mantenere la sua ferrea stretta sui Territori occupati.

Se negoziato vi deve essere, esso dovrà necessariamente partire da alcune condizioni non negoziabili: lo stop all’espansione delle colonie, la fine dell’assedio a Gaza e delle aggressioni militari, la riaffermazione della validità delle risoluzioni dell’Onu.

Ma è soprattutto indispensabile che gli Usa recuperino un ruolo di honest broker nel conflitto israelo-palestinese, spingendo con la dovuta energia le due parti ad un percorso di pace credibile e contrassegnato da una precisa tabella di marcia, che non sia una mera indicazione priva di sanzioni come è stato per la road map; il rischio che altrimenti si corre è di veder replicarsi, in un futuro non molto lontano, una tragedia uguale o persino peggiore a quella recente di Gaza.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, pubblicato il 14 febbraio scorso dall’analista politico palestinese Hani al-Masri sulla testata araba AMIN, qui proposto nella traduzione offerta dal sito di Arabnews.

ISRAELE DOPO LE ELEZIONI: GOVERNO DI GUERRA E PARALISI DEL PROCESSO DI PACE.
14.2.2009

I risultati delle elezioni israeliane hanno confermato che Israele si sposta verso posizioni estremiste. Questa tendenza ha avuto inizio con le elezioni del 1996, che portarono al potere Benjamin Netanyahu, il leader del Likud.

A partire da quella data non vi sono più “falchi e colombe” in Israele: il fronte della pace e della sinistra ha subito un crollo pressoché totale. In Israele non resta che un unico fronte, il fronte dell’estremismo e della guerra. La competizione alle ultime elezioni israeliane è stata principalmente una competizione fra la destra e la destra estrema.

Malgrado ciò, ritengo che Netanyahu non chiuderà completamente la porta ai negoziati, perfino se dovesse formare un governo esclusivamente di destra, poiché egli si rende conto che dei negoziati che non portano nulla ai palestinesi sono una “gallina dalle uova d’oro” per Israele. Perciò egli non si opporrà ad una ripresa delle trattative.

Si, non meravigliatevi di questo. Poiché il problema con la destra di Israele non sta nei negoziati in quanto tali, ma nelle “concessioni” che Israele potrà offrire, e nei benefici che potrà ricavare. Molto più importante è ciò che Israele fa sul terreno, all’ombra di tutti i governi israeliani, a prescindere dalla loro composizione – ovvero l’applicazione di quella politica che consiste nell’imposizione del fatto compiuto, e che rende la soluzione israeliana l’unica soluzione che di fatto rimane sul tappeto.

Naturalmente sarà difficile per Netanyahu costituire un governo esclusivamente di destra, poiché sarebbe difficile far accettare un simile governo all’America ed alla comunità internazionale, e la sua stessa composizione non sarebbe affatto facile alla luce delle notevoli divergenze esistenti fra i partiti di destra laici e quelli religiosi.

Anche per Tzipi Livni sarà difficile formare un governo, perché i partiti di destra preferiscono Netanyahu e il Likud, e lei sarebbe costretta a coinvolgere diversi partiti della destra per ottenere la fiducia alla Knesset. Ciò richiede che la Livni accetti condizioni politiche e finanziarie che condizionerebbero questo governo rendendolo non molto diverso da un governo di destra guidato da Netanyahu.

Gli scenari più probabili, per la formazione del futuro governo israeliano, sono quelli che prevedono un governo allargato, o un governo di unità nazionale, a cui prenderebbero parte quasi tutti – o tutti e quattro – i principali partiti israeliani. Se dovesse nascere un governo del genere, sarebbe un governo di guerra, soprattutto contro l’Iran, qualora l’amministrazione americana non dovesse riuscire a convincere Teheran a rinunciare al suo programma nucleare. Inoltre esso sarebbe un governo di paralisi rispetto al processo di pace, pur senza chiudere la porta alla ripresa dei negoziati. Anzi, un governo di unità nazionale sarà in grado, o cercherà, di “vendere” nuovamente l’illusione della pace, poiché esso potrà riprendere i negoziati senza nessun obbligo, da parte israeliana, che sia paragonabile ai pur vaghi obblighi che i governi israeliani precedenti avevano accettato.

Se la trattativa riprenderà, sarà una trattativa fine a se stessa, che si concentrerà su passi volti a costruire la fiducia, a migliorare l’economia, a rafforzare i servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, affinché siano in grado di combattere il “terrorismo”. Una trattativa del genere avrà come massimo obiettivo una forma di autogoverno per i palestinesi, e sarà priva di qualsiasi principio chiaro e vincolante. Io metto in guardia dal negoziare con un simile governo. Se infatti Israele, sotto la guida di Kadima e del Partito Laburista – due formazioni meno estremiste – non ha fatto un’offerta che il presidente Abu Mazen, pur con tutta la sua moderazione, potesse accettare, come potrà lo stato ebraico fare un’offerta migliore, o meno negativa, sotto la guida di un governo composto dal Likud e da Yisrael Beiteinu, due partiti ancora più estremisti?

Quanto detto fin qui significa che i risultati delle elezioni israeliane forniscono un’ulteriore base per una rinnovata unità palestinese. Infatti, una delle maggiori fonti di contrasto fra i palestinesi è proprio la questione dei negoziati e del cosiddetto processo di pace, una questione che – alla luce dei risultati attuali – potrebbe essere notevolmente ridimensionata, o addirittura scomparire. Quello che offrirà il prossimo governo israeliano sarà infatti al di sotto di quanto potranno accettare anche i palestinesi più moderati. La destra israeliana non fa differenza fra i palestinesi, non distingue tra Fatah e Hamas, tra “moderati” ed “estremisti”, e ritiene che un buon palestinese sia un palestinese morto, o un palestinese che lavora al suo servizio. Un palestinese moderato è invece una minaccia non minore – se non addirittura maggiore – di un palestinese estremista.

Fermare i negoziati e creare nuove basi

In questo contesto i palestinesi e gli arabi devono riconsiderare il processo di pace ed i negoziati, per trarne i dovuti insegnamenti. Proseguire con i negoziati, malgrado tutto ciò che è accaduto e che potrebbe accadere con la vittoria degli estremisti alla Knesset israeliana, non costituisce soltanto un errore, ma significa oltrepassare ogni residua linea rossa. All’interno di Israele prevalgono in questo momento gli appelli alla guerra, all’espansionismo, alla costruzione degli insediamenti, ed al razzismo. Se gli arabi continueranno a mendicare la pace, ciò non farà che aumentare le bramosie degli israeliani in questo senso. Ciò che Israele può offrire in questo momento agli arabi è “la pace in cambio della pace”, e non in cambio della terra e del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, della creazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme, e di una giusta soluzione del problema dei profughi in accordo con la risoluzione 194 dell’ONU.

Qualcuno potrebbe dire – come sentiamo affermare in alcuni ambienti palestinesi e arabi, e nella maggior parte degli ambienti israeliani ed americani – che la destra israeliana è quella maggiormente in grado di realizzare la pace, poiché nel momento in cui essa prenderà una decisione del genere non potrà che avere il sostegno del centro e della sinistra israeliana, al contrario di quanto avviene se al governo si trova la sinistra, poiché quest’ultima incontra l’opposizione della destra che impedisce di realizzare la pace. Per dimostrare questa tesi, i suoi sostenitori citano il fatto che fu la destra israeliana guidata da Menachem Begin a firmare la pace con l’Egitto ed a ritirarsi dal Sinai; fu la destra guidata dallo stesso Netanyahu a decidere il “ritiro” da al-Khalil (Hebron per gli israeliani (N.d.T.) ), ed a firmare il Memorandum di Wye River; e fu la destra guidata da Ariel Sharon a “ritirarsi” da Gaza.

In risposta a queste affermazioni posso dire che per gli israeliani, ed in particolare per la destra israeliana, il processo di pace con i palestinesi differisce radicalmente dal processo di pace con gli altri paesi arabi. Fu la sinistra israeliana guidata dal Partito Laburista a firmare gli accordi di Oslo, e fu la destra che li distrusse, aiutata in questo dal Partito Laburista sotto la leadership di Ehud Barak, il quale si avvicinò alla destra contraddicendo gli orientamenti del partito ai tempi di Yitzhak Rabin.

Il ritiro dal Sinai avvenne in circostanze molto differenti sia a livello arabo che internazionale. A quell’epoca vi era una solidarietà araba, ed un blocco socialista guidato dall’Unione Sovietica, e vi era un presidente americano determinato ad ottenere un successo storico. Inoltre, in cambio del ritiro dal Sinai Israele riuscì a escludere l’Egitto – il paese guida del mondo arabo – dall’equazione del conflitto, e ad isolare gli altri arabi, ed in particolare i palestinesi. Dopo il trattato di pace israelo-egiziano, lo stato ebraico portò a termine piani di aggressione e di espansione coloniale e razzista senza precedenti, e scatenò una guerra totale contro il Libano nel 1982, il cui risultato fu, tra l’altro, l’espulsione della leadership dell’OLP e delle forze palestinesi dal Libano.

Quanto a Netanyahu, non fu lui il responsabile della decisione di colonizzare Jabal Abu Ghneim (l’attuale insediamento di Har Homa, a sudest di Gerusalemme (N.d.T.) ), portando alla “rivolta dei tunnel” del 1996 (rivolta che trae il suo nome dagli scavi compiuti dalle autorità israeliane sotto la spianata delle moschee (N.d.T.) )? Non fu Netanyahu, insieme ai neocon americani guidati da Richard Perle, a redigere il documento del 1995 che mirava a distruggere gli accordi di Oslo poiché essi erano una “catastrofe” – secondo loro – per Israele? La domanda è: dove sono gli accordi di Oslo? Risposta: sono stati superati dagli eventi, e sono stati consegnati alla storia.

Quanto all’accordo su al-Khalil, fu un accordo parziale che non prevedeva un ritiro da al-Khalil, ma un ridispiegamento, e fu accompagnato dalla spartizione di al-Khalil in due settori, H1 e H2, cosa che permise a centinaia di coloni israeliani di insediarsi nel centro della città, rendendo la vita dei suoi abitanti un inferno.

Quanto al Memorandum di Wye River, relativo al ridispiegamento delle forze israeliane (che comportava il parziale trasferimento della gestione della sicurezza dei territori palestinesi all’ANP, in applicazione del precedente accordo ad interim del settembre 1995, nella cornice degli accordi di Oslo (N.d.T.) ), rimase lettera morta poiché Netanyahu si pentì di averlo firmato e lo rese inapplicabile andando ad elezioni anticipate, le quali portarono alla vittoria di Ehud Barak, leader del Partito Laburista, che si rifiutò di ottemperare agli obblighi israeliani derivanti dagli accordi di Oslo, e di integrarli con il negoziato sullo “status finale”.

Allo stato attuale, il Likud è diventato ancora più estremista, al punto che due terzi dei suoi leader sono considerati più estremisti dello stesso Netanyahu. Quanto alla decisione di Sharon di rompere i legami con la Striscia di Gaza, ritengo che ciò che è accaduto dopo l’applicazione di quella decisione sia sufficiente a dimostrare che essa non rappresentava una passo verso la pace, ma un passo indietro a Gaza al fine di separare la Cisgiordania dalla Striscia e di far fare ad Israele dieci passi in avanti nel rafforzamento dell’occupazione in Cisgiordania, ed al fine di tagliare la strada alle iniziative arabe ed internazionali volte a risolvere il conflitto, facendo in modo che tutti gli sforzi ruotassero attorno all’iniziativa israeliana.

I palestinesi e gli arabi devono rendersi conto una volta per tutte che Israele non vuole la pace e non è pronta per la pace, e che ora è diventata più estremista poiché non è riuscita ad imporre la “pace israeliana” ai palestinesi né al vertice di Camp David del 2000 né tramite il processo di Annapolis nel corso del 2008. Perciò Israele intende giocare le sue ultime carte utilizzando la destra e la destra estrema, la quale sostiene di essere in grado di portare a termine le guerre in cui Israele si era impegnata senza vincerle, in particolare in Libano nel 2006 e a Gaza nel 2009, e pretende di apprestarsi a scatenare le guerre che Israele non aveva ancora scatenato, in particolare contro la Siria e l’Iran.

Una prova difficile per Obama

Vi è un solo fattore che è contrario a Israele in questo momento, ed è il fatto che alla Casa Bianca vi è un nuovo presidente americano che propone il cambiamento negli Stati Uniti ed in tutto il mondo. Egli è giunto dopo la partenza del presidente americano che più di ogni altro aveva sostenuto Israele, e la cui amministrazione aveva portato ad una serie di fallimenti, di guerre e di gravi crisi finanziarie. Ciò richiede ora la promozione di una politica del dialogo, degli incentivi, della cooperazione e delle soluzioni mediate. Tutto ciò spinge Israele a cambiare, almeno un po’.

Ma invece di far questo, Israele si è orientata ancor di più verso la destra e l’estremismo, al punto da rendere la missione del nuovo presidente americano molto più difficile. In questo contesto, Israele scommette sulla sua amicizia strategica con gli Stati Uniti, sulla lobby sionista e sui gruppi di pressione che sostengono lo stato ebraico, cosa che potrebbe spingere il presidente americano a pensarci bene prima di esercitare pressioni serie nei confronti di Tel Aviv. Perciò, egli probabilmente si accontenterà di gestire il conflitto, e non cercherà di risolverlo. Questa è la condotta americana che ci attendiamo, ed è quella che dà le migliori garanzie a Washington, poiché al massimo può portare ad alcune divergenze fra gli Stati Uniti ed Israele, ed a pressioni americane nei confronti dello stato ebraico su questioni secondarie. L’amministrazione americana ed il mondo non eserciteranno reali pressioni nei confronti del prossimo governo israeliano, a prescindere da quanto esso sarà aggressivo ed estremista. Le pressioni del mondo spettano solo ai palestinesi.

Quello che temo è che gli arabi ed i palestinesi dimenticheranno tutti i segnali ostili lanciati dal nuovo governo israeliano, qualunque esso sia, e continueranno ad aggrapparsi all’illusione che il presidente americano eserciterà pressioni su Israele. Il timore è che essi si affretteranno a dire: aspettiamo e vediamo, continuiamo a tendere la mano araba, attraverso l’iniziativa di pace, senza “armare” questa iniziativa di alcuna difesa, e senza aprire la strada a scelte alternative. Il timore è che gli arabi saranno disposti anche a riprendere i negoziati, mentre il requisito minimo per compiere un simile passo dovrebbe essere il soddisfacimento di alcune richieste essenziali: il congelamento degli insediamenti, dell’aggressione e dell’assedio, e l’accordo preliminare sul fatto che l’obiettivo dei negoziati deve essere l’applicazione della legalità internazionale e delle risoluzioni dell’ONU. Questi principi non sono negoziabili.

Perché tutto questo possa realizzarsi, è necessario che in qualunque futuro negoziato vi sia un ruolo internazionale effettivo e reale, vi siano garanzie internazionali, e venga stabilita una tabella di marcia che preveda tempi ristretti. Poiché nessun negoziato può durare in eterno.

Hani al-Masri è un noto analista politico palestinese; risiede in Cisgiordania

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Il sionismo nemico della pace.

Il dato certamente più rilevante scaturito dalle recenti elezioni politiche israeliane è stato il crollo della sinistra, all’interno della quale il Partito Laburista capeggiato dal ministro della difesa Ehud Barak si è ridotto, con appena 13 seggi, ad essere solo la quarta forza nella Knesset, facendosi scavalcare dal razzista Lieberman e dal suo Yisrael Beiteinu.

La paura e il senso di insicurezza sapientemente instillati nell’opinione pubblica israeliana hanno fatto ritenere erroneamente agli elettori che nel campo palestinese non vi sia nessuno con cui dialogare e raggiungere un accordo di pace, e che l’unico approccio valido alla questione palestinese sia quello basato sulla forza, sui massacri, sulla colonizzazione e sull’apartheid.

E, naturalmente, gli elettori hanno preferito votare massicciamente per la destra, ritenuta in questo senso più affidabile e maggiormente pronta, del resto, a soddisfare le pulsioni razziste e antiarabe che sempre più si fanno largo all’interno della società israeliana.

Ma se non si vuole lasciare Israele in balia della follia delle destre, se si vuole recuperare un credibile processo di pace, è necessario innanzitutto abbandonare quel sionismo oggi monopolizzato dalla destra, che legittima l’occupazione e reputa lecito ogni atto di violenza, per quanto crudele e disumano.

E questo il tema dell’articolo pubblicato il 13 febbraio su Ha’aretz dal noto giornalista Gideon Levy, qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.


IL SIONISMO LEGITTIMA OGNI ATTO DI VIOLENZA?
13.2.2009

La sinistra israeliana è morta nel 2000. Da allora il suo cadavere è rimasto insepolto, fino a quando, alla fine, il suo certificato di morte è stato emesso, firmato, approvato e consegnato martedì scorso. Il carnefice del 2000 è stato il becchino del 2009: il ministro della difesa Ehud Barak. L’uomo che è riuscito a diffondere la menzogna secondo cui non vi sarebbe nessun partner per la pace ha raccolto il frutto delle sue azioni in queste elezioni. Il funerale si è tenuto due giorni fa.

La sinistra israeliana è morta. Negli ultimi nove anni ha assunto invano il nome del fronte della pace. Il Partito Laburista, Meretz e Kadima hanno avuto la pretesa di parlare in suo nome, ma non era che una frode e un inganno. Il Labour e Kadima hanno fatto due guerre ed hanno continuato a costruire gli insediamenti ebraici in Cisgiordania; Meretz ha appoggiato entrambe le guerre. La pace è rimasta orfana. Gli elettori israeliani, che sono stati indotti erroneamente a pensare che non vi sia nessuno con cui dialogare, e che l’unica risposta a questo sia la forza – le guerre, gli omicidi mirati, e gli insediamenti – hanno chiaramente detto la loro in queste elezioni: una messa in liquidazione per il Labour e per Meretz. E’ stata solo la forza di inerzia a dare a questi partiti i pochi voti che hanno ottenuto.

Non vi era ragione perché le cose andassero altrimenti. Dopo lunghi anni in cui quasi nessuna protesta è giunta da parte della sinistra, e la piazza, la stessa piazza che insorse dopo Sabra e Chatila, è rimasta silenziosa, questa assenza di protesta si è riflessa ugualmente dentro le urne. Il Libano, Gaza, i bambini uccisi, le bombe a grappolo, il fosforo bianco e tutte le atrocità dell’occupazione – niente di tutto questo ha portato nelle piazze la sinistra codarda e indifferente. Sebbene le idee della sinistra abbiano fatto breccia nel centro ed a volte perfino nella destra, tutti, dall’ex primo ministro Ariel Sharon al primo ministro attuale Ehud Olmert, hanno usato un linguaggio che una volta era considerato radicale. Tuttavia, la voce era quella della sinistra, mentre le mani erano quelle della destra.

Ai margini di questa mascherata, è esistita un’altra sinistra, la sinistra marginale – determinata e coraggiosa, ma minuscola e non legittimata. Lo scarto fra essa e la sinistra era dato presumibilmente dal sionismo. Hadash, Gush Shalom, ed altri come loro, sono fuori dal gioco. Perché? Perché sono “non sionisti”.

E cos’è il sionismo al giorno d’oggi? Un concetto antiquato e arcaico nato in una realtà diversa, un concetto vago e ingannevole che segna la differenza fra ciò che è permesso e ciò che è condannato. Il sionismo significa la colonizzazione dei territori? L’occupazione? La legittimazione di ogni atto di violenza e ingiustizia? La sinistra balbettava. Ogni affermazione critica del sionismo, perfino del sionismo dell’occupazione, era considerata un tabù che la sinistra non osava infrangere. La destra ha monopolizzato il sionismo, lasciando la sinistra con la sua ipocrisia.

Uno stato ebraico e democratico? La sinistra sionista diceva “si” meccanicamente, mascherando la differenza fra le due cose e non osando dare la priorità a nessuna di esse. La legittimazione di qualsiasi guerra? La sinistra sionista balbettava di nuovo – “si” all’inizio e “no” al proseguimento, o qualcosa del genere. Risolvere il problema dei profughi e del diritto al ritorno? Riconoscere gli errori del 1948? Tabù. Ora questa sinistra è, giustamente, giunta alla fine del suo percorso.

Chiunque voglia una sinistra che abbia un significato deve prima mettere in soffitta il sionismo. Fino a quando non sorgerà dalla base un movimento che ridefinisca coraggiosamente il sionismo, non vi sarà alcuna sinistra forte. Non è possibile essere allo stesso tempo di sinistra e sionista solo in base alla definizione che ne dà la destra. Chi ha deciso che gli insediamenti sono legittimi e in accordo con il sionismo, e che lottare contro di essi non lo sia?

Questo tabù deve essere spazzato via. E’ ammissibile non essere un sionista, secondo la definizione che comunemente ne viene data oggi. E’ ammissibile credere nel diritto degli ebrei ad avere uno stato, e tuttavia opporsi al sionismo impegnato nell’occupazione. E’ ammissibile ritenere che ciò che è accaduto nel 1948 dovrebbe essere messo all’ordine del giorno, chiedere scusa per le ingiustizie ed agire per riabilitare le vittime. E’ ammissibile opporsi fin dal primo giorno ad una guerra non necessaria. E’ ammissibile pensare che gli arabi di Israele meritino gli stessi diritti – a livello culturale, sociale e di popolo – degli ebrei. E’ ammissibile sollevare interrogativi scomodi a proposito dell’immagine delle Forze di Difesa Israeliane come esercito di occupazione, ed è perfino ammissibile voler parlare con Hamas.

Se lo preferite, questo è sionismo, o se lo preferite, questo è anti-sionismo. In ogni caso, è legittimo ed essenziale per coloro che non vogliono vedere Israele cadere vittima della follia della destra ancora per molti anni. Chiunque voglia una sinistra israeliana deve dire “basta” al sionismo, a quel sionismo del quale la destra ha preso il controllo totale.

Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982

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16 febbraio 2009

In ricordo di Mauro Manno: esiste la lobby ebraica?

Apprendo solo ora che venerdì scorso, alle quattro del mattino, è morto Mauro Manno, traduttore, conferenziere, studioso della questione palestinese e dell'ideologia sionista.

Era tra i soci fondatori dell'Istituto "Enrico Mattei" di Alti Studi in Vicino e Medio Oriente, un punto di riferimento prezioso per chiunque in questi anni abbia inteso lottare contro il colonialismo sionista e i crimini dello Stato israeliano, un amico di cui ho pubblicato diversi e interessanti scritti (vedi qui e qui).

Mi unisco qui al cordoglio della famiglia e di quanti lo hanno conosciuto e apprezzato, e voglio ricordarlo ripubblicando un suo scritto sulla lobby ebraica e sulla sua influenza in Italia, tutt'ora attuale alla luce dei recenti crimini israeliani dell'operazione "Piombo Fuso" e delle ignobili prese di posizione e della devastante disinformazione di cui si sono resi protagonisti la politica e i media nazionali.

Mauro Manno, 25.7.2006

Solo pochi anni fa, chi osava porre questa domanda veniva subito tacciato di «antisemitismo». E non solo da sionisti o ebrei, ma soprattutto da personaggi di 'sinistra'. Dopo la guerra contro l'Iraq, che Israele è riuscita a far fare per procura agli Usa, ciò non è più possibile. Due rispettabili studiosi americani, Mearsheimer e Walt, con dovizia di particolari, hanno provato che Israele, attraverso la sua lobby in America, ha il potere di determinare la politica estera USA a suo vantaggio.

Fa meraviglia che oggi la cosiddetta 'sinistra', e non solo quella non-alternativa, sia scivolata nel pantano ripugnante dei sostenitori del sionismo, delle colonie, di Israele, e dei suoi innumerevoli e sempre nuovi crimini? No nessuna meraviglia. É la logica conseguenza di scelte sciagurate di tanti anni fa. Quando si definisce il sionismo 'lotta di liberazione degli ebrei', di tutti gli ebrei, anche dei non-sionisti o dei non israeliani, allora è logico dire che chi si oppone a Israele, cioè al frutto della 'lotta di liberazione', è solo un «antisemita», non vuole che gli ebrei siano liberati, li vuole semplicemente sopprimere. Ma se il sionismo è la 'lotta di liberazione degli ebrei', perché tanti ebrei, comunisti, socialisti, semplicemente democratici, si sono opposti al sionismo? erano contro la loro liberazione?Perché oggi questo genere di persone continua ad esistere nella comunità ebraica mondiale?

Una lotta di liberazione è tale perché libera un territorio da una potenza coloniale, non dai suoi abitanti. Il sionismo invece ha patteggiato con l'impero britannico il possesso della Palestina e infine l'ha 'liberata' dei suoi abitanti palestinesi, per costruire uno Stato che oggi costituisce la punta di diamante dell'imperialismo occidentale, quello americano in testa.

Prima ancora che lo dicessero i sionisti o Israele, la 'sinistra' italiana, confondendo sionismo e ebraismo, lanciava a destra e a manca facili accuse di «antisemitismo». Oggi che la destra storica è filo-israeliana perché è filo-imperialista e filo-americana, la sinistra si trova spiazzata. Gli antisemiti storici sono diventati filo-semiti, Fini e la stessa Mussolini sono buoni amici di Israele, anzi accusano la 'sinistra' di tradire Israele e di essere inconsapevolmente a fianco dei 'terroristi'. Gli unici «antisemiti» oggi sono gli anti-imperialisti, gli «anti-americani», coloro che combattono il sionismo e Israele.

Fassino si dichiara apertamente e senza vergogna 'sionista', Bertinotti sostiene che "è difficile criticare Israele", la maggior parte dei sostenitori di Israele però preferisce tacere, il che, davanti ai crimini di guerra e quelli contro l'umanità che Israele commette tutti i giorni (oggi a Gaza e in Libano), equivale a un chiaro sostegno. Chi tace acconsente. I più 'coraggiosi' si spingono tanto in avanti da sussurrare a labbra strette che le risposte di Israele "sono sproporzionate". Sproporzionate? Distruggere un paese, uccidere centinaia di civili, creare un disastro umanitario dislocando 1 000 000 persone per ottenere il rilascio di due soldati rapiti è solo una risposta 'sproporzionata'?

Si dice poi che quella di Israele è 'una risposta' al rapimento dei soldati e quindi in qualche modo la si giustifica. Una risposta? Chi ha cominciato a rapire militanti palestinesi, o a ucciderli, in retate e assalti ai territori palestinesi. Sono circa 8 000 i palestinesi rapiti, in carcere senza processo e accuse, come a Guantànamo, ci sono anche donne e ragazzi. Ci sono ancora resistenti libanesi nelle prigioni israeliane, rapiti in tempi di pace, anche se la resistenza all'occupazione del Libano meridionale ha cacciato gli Israeliani nel 2000. Di questi i nostri 'sinistri' o 'sionistri' non dicono niente?

Ma «Israele ha il diritto di difendersi» dice Bush su suggerimento di Olmert. «Israele ha il diritto di difendersi» grida la sionistra in coro, compreso Bertinotti. Certo è naturale, chi è attaccato ha diritto di difendersi. Non lo si può certo negare. Ma le cose non stanno così. Gli attaccati, dal 1948, sono i palestinesi, l'intero mondo arabo. Si toglie loro la Palestina, la si dà ai sionisti, si impedisce la nascita di uno Stato palestinese, si conquistano e non si rendono territori arabi, si sommergono i paesi vicini di profughi palestinesi, si invadono e si distruggono con mille pretesti i paesi vicini, e tutto questo non è attaccare? Per chi accetta l'esistenza dello Stato sionista, nato da un sopruso imperialista e non da una 'lotta di liberazione', è logico dire che esso è attaccato, soprattutto perché è alleato dell'Occidente. E poi è uno Stato «democratico» e chi lo attacca è «terrorista». Per chi non accetta lo Stato sionista, proprio perché è nato da un sopruso imperialista (anche se camuffato con il travestimento della 'Legalità Internazionale'), è logico schierarsi con gli oppressi, con i palestinesi, con i senza Stato, i profughi, i «terroristi». Noi proponiamo che in Palestina si giunga al più presto alla costituzione di un solo Stato Democratico per palestinesi ed ebrei (un uomo, un voto). Come è successo in Sud Africa. Ma questo comporta lo scioglimento dello Stato sionista per soli ebrei, uno Stato di apartheid. Come era il Sud Africa prima della liberazione.

Perché questa posizione ragionevole e democratica, che permetterebbe, tra l'altro, agli ebrei di liberarsi veramente della loro mentalità da ghetto (Israele è uno Stato-Ghetto per soli ebrei), non si afferma nel mondo tra i democratici, nella sinistra, anche se essa si richiama a valori umanitari, di uguaglianza, di tolleranza, ai princìpi di democrazia e di libertà? Qualcuno dirà: perché la sinistra ha tradito i suoi stessi principi e valori fondanti. Certo. Ma questa risposta non ci soddisfa.

Torniamo alla domanda iniziale: Esiste la lobby ebraica?

Per Jeff Blankfort, un ebreo anti-sionista coerente e coraggioso,la risposta è SI ! Dal suo scritto possiamo capire come gli Stati Uniti d'America, avendo venduto le loro istituzioni parlamentari alla lobby ebraica, si presentino in Medio Oriente operando contro quei principi di libertà e uguaglianza che tanto spesso proclamano essere i valori fondanti della loro democrazia. Certo gli Stati Uniti sono imperialisti, ma cosa ci guadagnano dall'essere complici e responsabili della mancata nascita di uno Stato palestinese, seppur piccolo e striminzito? Cosa perdono invece, con la loro incondizionata politica pro-israeliana, in termini di influenza presso i paesi arabi? Non sono poi Israele e la lobby ebraica che spingono gli Stati Uniti contro i popoli arabi? Cosa ci guadagnano oggi gli Stati Uniti acconsentendo alla distruzione del Libano? La lezione dell'11 settembre non sono stati capaci di capirla bene. Forse perché la lobby ebraica americana ha impedito che si sviluppasse un dibattito serio sui frutti di una politica estera totalmente pro-israeliana. L'imperialismo americano, pur restando imperialista, avrebbe tutto da guadagnare da un atteggiamento più equidistante. Anzi riuscirebbe forse a perseguire meglio i suoi obiettivi almeno in relazione ai regimi arabi filo-occidentali che hanno sempre più difficoltà a gestire le masse arabe solidali con i palestinesi e fortemente anti-israeliane e sempre più anche anti-occidentali.

In Italia, esiste la lobby ebraica? Non solo esiste ma è forte e, fatto grave, non ha oppositori o persone che ne denunciano la pericolosità. Il partito Radicale di Pannella-Bonino-Capezzone prende soldi e ordini da Tel Aviv. Il governo (con le nostre tasse) gli paga, stupidamente, la gestione faziosa e sionista di Radio Radicale. Perché sono tanto interessati a piazzare loro accoliti in ministeri come gli Esteri, la Difesa, le Relazioni col Parlamento europeo? Perché non la Sanità, la Pubblica Istruzione, per esempio? A parte le considerazioni sulla loro forza elettorale, è chiaro che a loro interessano quei ministeri che hanno a che fare con gli Stati Uniti e Israele. Perché si muovono da destra a sinistra a seconda delle possibilità di vittoria dell'uno o l'altro polo? Per entrare comunque al governo, qualsiasi esso sia, per fare gli interessi d'Israele.

E veniamo al Giornale-Partito-Sionista-Italiano "La Repubblica" dell'ebreo sionista De Benedetti. Schierato con la sionistra esercita una grande influenza sul gruppo dirigente DS e in mille modi ne condiziona la politica e la cultura. É riuscito a sostituire 'L'Unità' come giornale del partito di maggior peso nell'Unione, con la sua 'Repubblica'. Esercita anche una nefasta influenza culturale nella società. I DS, non più un partito di militanti ma un movimento elettorale e d'opinione, non erano più in grado di mantenere in vita, con le sottoscrizioni e i festival, il giornale del partito, per cui hanno accettato l'offerta di sionizzarsi con De Benedetti. Il glorioso 'L'Unità' di un tempo è stato dato in gestione ad un altro ebreo sionista, Furio Colombo, ex-uomo Fiat e amico di Kissinger, che lo mantiene in vita con i denari (ancora) di De Benedetti. La lobby ebraica italiana, come il Partito Radicale, lavora a destra e a sinistra, sui due tavoli del potere. Così è riuscita a piazzare Feltri al giornale 'Libero' di Berlusconi, e in più vari suoi uomini in altri giornali e alla televisione. Mieli alla direzione del 'Corriere', l'esagitata Fiamma Nierenstein alla 'Stampa', Clemente Mimoun, al TG1, il suo amico Enrico Mentana a Canale 5, Gad Lerner alla 7. Ci limitiamo ai posti dirigenti, non accenniamo nemmeno ai semplici giornalisti. La comunità ebraica italiana conta circa 40 000 membri. C'è una città italiana con una popolazione di queste dimensioni da cui provengono tanti direttori di giornali e telegiornali così importanti? Immaginate tanti direttori di giornali e TV provenienti da Merano (Meran) e tutti osannanti alla politica austriaca o tedesca. C'è evidentemente una strategia di attenzione ai Media italiani da parte della lobby ebraica italiana (e internazionale). La stessa strategia risultata vincente in America. Oggi poi dobbiamo aggiungere Sky (in America: Fox) del famigerato Rupert Murdoch, australiano di nascita, ma da madre ebrea e quindi vero ebreo. Questo amico di Sharon ha avuto un ruolo mondiale importante nell'orientare l'opinione pubblica a favore della guerra in Iraq e a favore di Israele. É uno strumento importante nella cosiddetta «guerra al terrore» di USA e Israele, o meglio di USrael. Tutti se la prendono con gli sciocchi vanitosi sionisti di bandiera Ferrara e Fede, nessuno nota le vere forze vive del sionismo in Italia.

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12 febbraio 2009

Seminario: La questione israeliano-palestinese fra realtà e mistificazione.

Seminario: La questione israeliano-palestinese fra realtà e mistificazione

Lunedì 16 febbraio ore 14, Aula magna, sede Istat di via Balbo 16, ROMA
Partecipano:
- Giulietto Chiesa, giornalista ed europarlamentare
- Giorgio Frankel, giornalista indipendente, esperto di Israele, Medio Oriente e petrolio
- Raniero La Valle, giornalista ex parlamentare della sinistra indipendente, autorevole esponente della sinistra cristiana.

Prima e durante l'incontro verranno raccolti fondi per la campagna "SOS Gaza" dell'Associazione Amici della Mezza Luna Rossa Palestinese per l'acquisto di materiali necessari in questo stato d'emergenza.

Per partecipare all'evento occorre inviare un'email a palestinanews@gmail.com

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11 febbraio 2009

Nel frattempo, in Cisgiordania.

“Israele manterrà tutte le sue promesse riguardanti la costruzione nelle colonie. Non vi sarà alcuna costruzione al di là delle esistenti linee di edificazione, alcuna confisca di terre finalizzata alla costruzione, alcun incentivo economico speciale né alcuna costruzione di nuove colonie” (Ariel Sharon, Conferenza di Herzliya, 18 dicembre 2003).

“Israele deve dimostrare il suo sostegno alla creazione di un riuscito e prospero Stato palestinese rimuovendo gli avamposti non autorizzati, ponendo fine all’espansione delle colonie…” (Dichiarazione congiunta di Bush, Olmert e Abbas alla Conferenza di Annapolis, 27 novembre 2007).

“Israele non confisca più terra in Cisgiordania, chiaro e semplice” (Ehud Olmert, conferenza stampa, 17 marzo 2008).

Uno dei principali impegni di Israele derivanti dalla road map, più e più volte riaffermato prima, dopo e durante la farsa di Annapolis - la conferenza che avrebbe dovuto portare alla pace tra Israeliani e Palestinesi entro la fine del 2008 (!) - era ed è costituito dall’obbligo di smantellare gli avamposti illegali costruiti dai coloni nella West Bank a partire dal marzo del 2001, nonché dal divieto di espansione degli insediamenti colonici, ivi incluso il cd. “sviluppo naturale”, e cioè l’espansione dettata da motivi demografici.

Un impegno rispettato? Assolutamente no (al pari, del resto, di ogni altro che Israele ha assunto nel corso degli anni nei confronti del popolo palestinese), come ci dimostra il recente
rapporto di Peace Now sull’espansione degli insediamenti e degli avamposti colonici in Cisgiordania nel corso del 2008 (Summary of Construction in the West Bank 2008, gennaio 2009).

Secondo Peace Now, nel corso del 2008, i coloni israeliani (in numero di 285.800, non considerando Gerusalemme est) hanno costruito in Cisgiordania 1.518 nuove strutture, di cui 1.257 negli insediamenti colonici e 261 negli avamposti; tra le strutture di nuova costruzione, il 61% (pari a 927) sono state edificate a ovest del muro di “sicurezza” e il 39% (pari a 591) a est del muro stesso.

Per avere un’idea dell’accelerazione imposta da Israele all’attività edilizia in Cisgiordania dopo Annapolis, nonostante ogni impegno ivi solennemente assunto, basterà ricordare che le nuove costruzioni all’interno delle colonie erano state “solo” 800 nel corso del 2007 (con un incremento registrato nel 2008 pari, dunque, al 57%), mentre le nuove costruzioni negli avamposti, nel corso del 2008, risultano addirittura più che raddoppiate rispetto all’anno precedente, passando da 98 a 261 (più 166,3%).

Il vero è che Israele, se da una parte dichiarava fraudolentemente di voler raggiungere un accordo di pace con i Palestinesi e di voler congelare, a tal fine, ogni attività di edificazione di nuove costruzioni in Cisgiordania, dall’altra perseguiva senza sosta l’espansione delle colonie, in tre modi diversi:
1) iniziando e dando impulso a costruzioni e a progetti negli insediamenti a ovest del muro;
2) approvando permessi e licenze di costruzione, o addirittura la costruzione di
nuovi insediamenti, dietro richiesta dei coloni e come parte di accordi intervenuti tra questi e il governo israeliano;
3) ignorando ed evitando di smantellare le costruzioni non autorizzate e le espansioni degli avamposti illegali.

Così ad esempio, nel corso del 2008, sono state bandite gare per la costruzione di 539 nuovi alloggi in vari insediamenti colonici (Ariel, Efrat, Alfei Menashe, etc.) ed è stato dato il via libera all’inizio dei lavori in relazione a vasti progetti edilizi approvati in precedenza (950 unità abitative a Ma’aleh Adumim, 800 a Giv’at Ze’ev, 100 ad Ariel e così via).

Ma l’attività edilizia più rilevante è senz’altro quella che ha avuto luogo a Gerusalemme est, certamente da un punto di vista numerico ma, soprattutto, in considerazione dell’importanza che le questioni legate a detta area rivestono nel quadro di un accordo di pace definitivo tra Israeliani e Palestinesi.

Ebbene, secondo Peace Now, nel corso del 2008 a Gerusalemme est sono stati resi pubblici, per le eventuali osservazioni, i progetti relativi a 5.431 unità abitative e, di queste, ben 2.730 hanno ricevuto l’approvazione finale (nel 2007, ad ottenerla erano stati solamente 391 alloggi!).

Nello stesso periodo, inoltre, sono state pubblicate gare d’appalto per la costruzione di 1.184 nuove unità abitative, con un incremento del 49% rispetto al dato di 793 relativo all’anno precedente; degno di nota – e rivelatore del carattere puramente dilatorio e fraudolento che per Israele rivestono le “trattative” di pace – è il fatto che, negli undici mesi del 2007 precedenti Annapolis, erano state pubblicate gare per soli 46 alloggi, mentre le gare relative ai restanti 747 sono state pubblicate subito dopo Annapolis!

Non è peregrino ricordare che, nello stesso periodo, nessun permesso o licenza di costruzione è stato concesso ai Palestinesi residenti a Gerusalemme est, come del resto accade ormai da molti anni, ed anzi, dall’inizio del 2009, Israele ha già proceduto alla demolizione di ben 15 case di proprietà di Palestinesi: l’ultimo caso ha riguardato la demolizione di quattro edifici nel quartiere di al-Isawiya, che ha lasciato senza un tetto sotto cui stare una trentina di persone.

Fin qui il quadro delineato dal rapporto di Peace Now che, per questo, ha ancora una volta dovuto subire la
solita dose di ingiurie e di minacce.

Ma è di questi giorni la
notizia secondo cui Israele starebbe pianificando la costruzione del quartiere di Mevasseret Adumim – un imponente blocco di ben 3.500 unità abitative sito nella cd. Area E1 – e, a tal fine, ha già investito 200 milioni di shekel (circa 38,3 milioni di euro) per la costruzione delle necessarie infrastrutture preliminari, quali strade, punti di osservazione, barriere divisorie.

Se un progetto di tal genere venisse completato, si creerebbe un blocco abitato privo di soluzioni di continuità tra Gerusalemme est e l’insediamento di Ma’aleh Adumim, ma contemporaneamente si verrebbe a spezzare la continuità territoriale tra la parte araba di Gerusalemme e Ramallah, rendendo, come è ovvio, praticamente impossibile ogni intesa sui futuri confini e ogni accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi.

E’ questo l’argomento dell’editoriale di Ha’aretz del 3 febbraio scorso, pubblicato nella preziosa traduzione offerta da
Arabnews.

Qui voglio solo aggiungere che, ancora una volta, si dimostra come il reale ostacolo al processo di pace tra Israeliani e Palestinesi sia costituito dalla devastante opera di
colonizzazione della Cisgiordania, condotta in tutti questi anni al riparo di infinite, fraudolente e dilatorie trattative di “pace”.

Tra qualche ora conosceremo i risultati definitivi delle elezioni politiche in Israele, ma già sin d’ora sappiamo – chiunque venga nominato premier e qualunque governo si formi – che nulla cambierà sotto quest’aspetto, e che i coloni continueranno a prosperare, ad aumentare di numero, a costruire nuove, linde casette nella terra che Dio ha destinato loro, non certo a questi Arabi cenciosi.

Tzipi Livni, il candidato premier di Kadima (partito che gli exit poll danno in testa con la previsione di una trentina di seggi), in mesi e mesi di trattative non solo non è riuscita a raggiungere uno straccio di accordo con i Palestinesi riguardo ai confini definitivi, ma ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e ha accuratamente evitato di assumere alcun impegno riguardo alla questione di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu (previsione 28 seggi), è sempre stato ed è tuttora fiero avversario di ogni “concessione” territoriale ai Palestinesi e della divisione di Gerusalemme; trovandosi in campagna elettorale, ha un po’ aggiustato il tiro affermando di non essere contrario a colloqui di pace definitivi, ma di ritenerli soltanto “prematuri”, proponendo in cambio ai Palestinesi dei benefici esclusivamente economici.

Del terzo incomodo Lieberman e della sua formazione “Israele casa nostra” (previsione 15 seggi) non vale neanche la pena di parlare, essendone ben noto il carattere razzista e anti-arabo; mancava soltanto la notizia che Lieberman, anni addietro,fosse stato membro del
gruppo terrorista Kach.

A seconda del governo che si verrà a formare, dunque, Israele potrà o meno continuare a fingere di negoziare un accordo di pace con i Palestinesi, ma è certo che proseguirà a creare quei “fatti sul terreno” che allontanano ogni giorno di più quella pace che si finge di voler ricercare, impedendo la costituzione di uno Stato palestinese che non sia un mero aggregato di bantustan, privo della necessaria continuità territoriale e di adeguate risorse.

E questo vale soprattutto per Gerusalemme est, area all’interno della quale Israele – fin dal 1967 – ha cercato di creare una realtà geografica e demografica tale da frustrare ogni futuro tentativo di modificarne la sovranità territoriale, attraverso:
- l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania;
- la mancata concessione di nuove autorizzazioni edilizie alla popolazione araba e la demolizione delle costruzioni “abusive”;
- la revoca della residenza ai Palestinesi che si siano allontanati da Gerusalemme per almeno 7 anni, e sia pure se ivi erano nati e avevano sempre vissuto;
- la ineguale e discriminatoria allocazione del budget municipale tra le due parti della città.

La costruzione del nuovo quartiere di Mevasseret Adumim darebbe probabilmente il colpo di grazia ad ogni residua speranza palestinese di avere Gerusalemme est come capitale di un proprio Stato sovrano e, dunque, ad ogni accordo di pace che si voglia realisticamente condiviso e duraturo.

Toccherebbe agli Usa e alla Ue, gli “amici” di Israele, impedire che ciò avvenga e imporre un cambiamento di rotta attraverso l’avvio di un serio piano di demolizione degli avamposti e di sgombero delle colonie; perché, talvolta, anche agli amici si può dire – o si può far capire con atti concludenti (leggi: sanzioni) - che stanno sbagliando, per il nostro e per il loro stesso bene e, soprattutto, per il bene della pace e della giustizia tra i popoli.

Ne avranno la volontà e la forza?

CATTIVE NOTIZIE DA UN NUOVO QUARTIERE
3.2.2009

La notizia secondo cui Israele ha investito circa 200 milioni di shekel a Mevasseret Adumim, un nuovo quartiere ebraico ad est di Gerusalemme dove è prevista la costruzione di 3.500 unità abitative, rivela le reali intenzioni del governo uscente. Come ha riferito Amos Harel nell’edizione di ieri di Haaretz , negli ultimi due anni Israele ha investito enormi quantità di denaro in infrastrutture per la costruzione di unità abitative al fine di creare un blocco continuo fra Ma’aleh Adumim e Gerusalemme Est.
Nell’ultimo decennio, il governo americano si è opposto ad ogni costruzione israeliana nell’area. Ma ancor più preoccupanti del fatto di danneggiare gli interessi americani, o di investire il denaro pubblico in un progetto dal futuro incerto, sono le serie contraddizioni fra la politica dichiarata del governo e le sue azioni. In maniera ancora più allarmante, questo progetto edilizio rivela che il governo ha cercato di consolidare l’occupazione israeliana della Cisgiordania nello stesso momento in cui parlava del raggiungimento di un accordo con i palestinesi.

Durante il suo mandato di primo ministro, Ehud Olmert ha condotto prolungati colloqui con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, ed il ministro degli esteri Tzipi Livni si è impegnato in negoziati paralleli con il negoziatore palestinese Ahmed Qureia. L’obiettivo apparente di questi colloqui era di giungere ad un compromesso concordato – ma ora è chiaro che si trattava di un mero espediente. Mentre si avvicinava la scadenza del suo mandato, Olmert ha fatto alcune fra le più coraggiose dichiarazioni mai rilasciate da un primo ministro a proposito della necessità di porre fine all’occupazione e di giungere ad un accordo – ma ora è chiaro che si trattava di un inganno. Mentre egli continuava a parlare, e mentre i negoziati si trascinavano stancamente, il governo ha fatto l’opposto rispetto a quello che affermava essere il suo obiettivo.

L’unico obiettivo di Mevasseret Adumim è quello di spezzare la Cisgiordania, rompendo i legami fra Gerusalemme e Ramallah, e facendo naufragare l’ultima possibilità di giungere ad una soluzione pacifica.

Non si può parlare di soluzione dei due stati mentre si fa di tutto per distruggere ogni possibilità che questa soluzione si realizzi. Non si può parlare di porre fine all’occupazione mentre si continua a costruire in Cisgiordania. Le azioni, dopotutto, sono più eloquenti delle parole.

Le possibilità di creare uno stato palestinese in mezzo agli insediamenti ebraici in Cisgiordania sono scarse anche senza l’ulteriore complicazione di Mevasseret Adumim. Una simile ipocrisia da parte del governo, e le contraddizioni fra le politiche dichiarate e le azioni sul terreno, devono giungere ad una fine prima che la nuova amministrazione americana venga coinvolta. Se volete la pace, non investite nella costruzione di Mevasseret Adumim.

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9 febbraio 2009

La pace irraggiungibile e gli scudi umani.




Segnalato dal blog di Mirumir, questo interessante reportage della Cbs evidenzia come meglio non si potrebbe le devastanti conseguenze della colonizzazione in Cisgiordania, che ogni giorno di più allontana ogni realistica prospettiva di pace tra Israeliani e Palestinesi basata sulla cd. soluzione a due stati.

Ed anzi, ogni realistica prospettiva di pace tout court.

Il reportage della Cbs è ben realizzato ed argomentato, e nulla vi è da aggiungere al riguardo; qui voglio sottolineare, tuttavia, l'aspetto riguardante la vicenda, narrata nel video, del sequestro dell'abitazione di Nablus e dei Palestinesi ivi residenti, per scopi militari, da parte dell'esercito israeliano.

Secondo Donatella Rovera, una investigatrice di Amnesty International, "è una prassi standard per i soldati israeliani entrare in una abitazione, rinchiudere la famiglia in una stanza a piano terra e usare il resto della casa come una installazione militare, o come una postazione per cecchini. Questo è un caso assolutamente da manuale di (utilizzo di) scudi umani".

La propaganda israeliana - al fine di giustificare gli orribili massacri di civili commessi dal proprio esercito a Gaza - ha sempre usato come scusante, e continua a farlo, il fatto che Hamas abbia utilizzato i civili palestinesi come scudi umani nel corso dell'operazione "Piombo Fuso", "costringendo" i soldati israeliani all'uccisione di Palestinesi inermi ed innocenti, derubricata in tal modo a "errore scusabile"; propaganda cinica e spregiudicata questa, peraltro rilanciata con entusiasmo dai media di regime e dai politici filosionisti di casa nostra (vero, ministro Frattini?).

Ma, anche laddove Hamas avesse effettivamente commesso crimini di guerra - perchè è tale l'utilizzo forzoso di civili per scopi militari - questo non assolve affatto Israele per l'uccisione in massa di civili inermi e gli svariati crimini di guerra commessi durante la recente aggressione alla Striscia di Gaza; l'uso di "scudi umani" da parte di Hamas, peraltro, non risulta affatto provato in alcun modo, ed anzi in varie occasioni osservatori indipendenti come i funzionari Onu o i ricercatori delle ong per la tutela dei diritti umani, come ad esempio B'tselem, hanno potuto smentire le asserzioni propagandistiche dell'esercito israeliano.

Quello che risulta provato senza ombra di dubbio, da numerose testimonianze e da filmati, è al contrario l'utilizzo di scudi umani da parte del valoroso esercito israeliano, prima, durante e - ora lo sappiamo - anche dopo l'attacco a Gaza.

Ma, naturalmente, tutto è consentito in nome della "sicurezza" di Israele, e così facciamo finta di non vedere all'opera questi spietati e biechi criminali.

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6 febbraio 2009

Costituito a Palermo il Coordinamento di solidarietà con il popolo palestinese.

Lo scorso 3 febbraio si è costituito a Palermo il Coordinamento di solidarietà con il popolo palestinese, con il fine di raccogliere fondi da destinare alle popolazioni colpite dalla feroce aggressione israeliana dell'operazione "Piombo Fuso" e, soprattutto, di offrire una base stabile di coordinamento per l'azione di quanti - forze politiche, sindacali, associazioni, società civile - desiderino impegnarsi concretamente a fianco del popolo palestinese e della sua lotta di liberazione.

Qui sotto riporto il documento scaturito dall'incontro del 3 febbraio, ricordando a quanti fossero interessati che il prossimo appuntamento è fissato per il giorno 10 febbraio alle ore 15:30, presso l'aula consiliare di Palazzo delle Aquile a Palermo.

La Comunità Palestinese di Sicilia si stringe attorno al proprio popolo, il quale da oltre sessant'anni continua ad essere vittima di stragi impunite. Nomi come Khan Younis, Sabra, Chatila, Beit Hanun ed infine Gaza (e molti altri ancora) ricordano a tutti i crimini dello stato d'Israele.

É evidente che si tratta di un disegno ben definito che mira a distruggere ogni risorsa sociale, culturale, economica e politica del popolo palestinese, con il silenzio complice di un Occidente che ha assistito inerte all'ennesima strage cercando di legittimare un'equidistanza ipocrita (e che non sta nei fatti) che, vista la sproporzione delle forze in campo, costituisce in realtà un chiaro appoggio all'aggressione israeliana.

Altrettanto complice è stata la sistematica disinformazione che ha inteso raffigurare quella feroce aggressione come se fosse una guerra tra due eserciti o, peggio, una legittima difesa dello stato di Israele; sottacendo che durante la tregua, ma anche prima e dopo dell'ultima aggressione di Gaza, lo stato di Israele ha continuato ad assassinare civili (oltre 90) e ad imprigionare ministri (10) e parlamentari palestinesi (oltre 50).

Nonostante i disegni israeliani, il popolo palestinese continua a mantenere la propria storia, cultura ed identità millenaria: l'identità di un popolo pacifico che ama la vita e crede nei principi e nella legalità internazionale.

Alla luce di tutto ciò, il 3 febbraio la Comunità Palestinese di Sicilia e rappresentanti di forze politiche, sindacati, associazioni e società civile si sono riuniti in assemblea nell'aula Rostagno presso il Comune di Palermo ed hanno dato vita al Coordinamento di Solidarietà con il Popolo Palestinese.

Tale Coordinamento, come suo primo atto, si impegna a contribuire attivamente al ripristino in tutti i Territori Occupati delle condizioni minime di vivibilità e sicurezza personale; ribadisce il diritto alla creazione di uno stato palestinese, libero, indipendente ed autonomo con Gerusalemme capitale con il totale ritiro dell'occupazione israeliana e lo smantellamento degli insediamenti nei Territori Occupati così come previsto dalle risoluzioni dell'ONU.

Il coordinamento ribadisce la necessità che venga istituita una commissione d'inchiesta sui crimini di guerra e sull'uso di armi non lecite (tra cui il "fosforo bianco”) da parte dell'esercito israeliano; chiede che la comunità internazionale si faccia garante di un reale processo di pace che porti alla creazione dello stato palestinese quale unica soluzione alle violenze in Medio Oriente; ritiene che l'Italia non debba contribuire ad armare l'esercito d'Israele e debba interrompere ogni forma di collaborazione con esso, subordinando la ripresa di tale collaborazione alla fine dell'embargo su Gaza e sui Territori Occupati; chiede che l'Italia si faccia promotrice di un progetto di ricostruzione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania.

Il coordinamento si propone, nell'immediato, di realizzare le seguenti iniziative:

- offrire la possibilità a tutti i soggetti politici, sociali e della società civile impegnati nel sostegno al popolo palestinese di coordinarsi reciprocamente al fine di aumentarne l'efficacia;

- informare e sensibilizzare sulle vere cause e sulle reali responsabilità del conflitto in atto e sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza e nei Territori Occupati;

- raccogliere fondi da destinare alle popolazioni colpite dall'aggressione israeliana anche rafforzando i canali istituzionali attivati in passato e da tempo non più utilizzati (gemellaggio fra la città di Palermo e città di Khan Yunis).

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2 febbraio 2009

Mai più (salvo eccezioni)!

L'articolo che segue, tratto dal sito "Come Don Chisciotte", mostra il benevolo atteggiamento e la considerazione che i soldati israeliani nutrono nei confronti del popolo palestinese.

Una cosa che, qui da noi, naturalmente non viene mai raccontata, e che fa sorgere qualche legittimo sospetto riguardo all'elevatissimo numero di civili non combattenti, inclusi donne e bambini, uccisi dalle truppe israeliane a Gaza, e all'intenzionalità di un tale massacro.


MAI PIU'! (POSSONO ESSERCI ECCEZIONI. OFFERTA NON VALIDA A GERUSALEMME, HEBRON O GAZA)
a cura di Lawrence of Cyberia

Il quotidiano The Guardian (qui e qui), Amnesty International (qui e qui) e Ynet sono stati tra gli organismi che hanno riferito di graffiti razzisti ed eliminazionisti lasciati dietro di sé dei soldati israeliani nelle case palestinesi che avevano occupato durante il recente attacco contro la striscia di Gaza.

Ho notato che "ahmed", un commentatore di mondoweiss, ha osservato quanto segue durante la discussione su quel blog riguardante l'articolo di Ynet: "immagino che sia un hate crime [letteralmente "crimine di odio", del genere del reato di "istigazione all'odio razziale" presente nell'ordinamento italiano n.d.t.] solo quando i disegni rappresentano svastiche". Forse "ahmed" era in qualche modo ironico in questo commento; ma si dà il caso che abbia ragione.

Akiva Eldar ha scritto su Ha'aretz nel gennaio 2003 dei graffiti in ebraico nelle strade di Hebron e di Gerusalemme che incitano alla sterminio degli arabi. Egli ha anche notato che le persone che si opponevano a tali graffiti, e al lungo periodo a cui era loro permesso di restare sui muri, avevano scoperto un nuovo modo per indurre le autorità municipali a cancellarle:

A seguire: "Soldati dell'IDF lasciano graffiti razzisti nelle case di Gaza" (Ynet)

Alcune settimane fa l'obiettivo del fotografo Shabtai Gold ha catturato la frase " arabi nei crematori" accanto a una stella di David su un muro della enclave [di coloni sionisti a Hebron n.d.t.]. Da allora qualcuno ha mascherato la scioccante iscrizione. Non lontano da essa, su un altro muro, qualcuno ha scritto "arabi-subumani".

Un tale genere di graffiti appare spesso nelle strade di Gerusalemme. Attivisti di sinistra hanno scoperto che tali improperi rimangono a lungo sui muri, perciò, per accelerare l'azione della città contro di essi, hanno trovato un agghiacciante ma efficace modo per farli rimuovere: dipingere una svastica accanto ad essi.

Perciò, la prossima volta che passeggiate per Gerusalemme con la vostra bomboletta di vernice spray, e vi chiedete quale sia la cosa migliore da scrivere per far guadagnare immortalità ai vostri graffiti, ricordate semplicemente che:

"Arabi nei crematori" + stella di David = non offensivo + permesso di rimanere;
"Arabi nei crematori" + svastica = offensivo + sarà cancellato.

Titolo originale: "Never Again! (some exceptions may apply; offer not valid in Jerusalem, Hebron or Gaza)"
Fonte: http://lawrenceofcyberia.blogs.comLink

30.01.2009
SOLDATI DELL'IDF LASCIANO GRAFFITI RAZZISTI NELLE CASE DI GAZA
A CURA DI YNET

I residenti di Gaza facendo ritorno alle loro case nel quartiere di Zeitun hanno trovato le loro abitazioni coperte di slogan quali "morte agli arabi" e "uno di meno, ne mancano 999999". L'IDF: i responsabili saranno rimproverati[1].

Un doloroso ricordo dell'Operazione Piombo Fuso è rimasto in evidenza a Gaza sotto forma di graffiti razzisti e sfacciati lasciati sui muri delle case dai soldati dell'esercito israeliano.

I residenti del quartiere di Zeitun che hanno fatto ritorno alle loro case una volta terminati gli scontri nella zona hanno scoperto che i loro muri erano stati segnati con slogan quali "morite tutti", " fate la guerra non la pace", "morte agli arabi", "gli arabi devono morire" e "uno di meno, ne mancano 999999" [2].

Alcuni dei graffiti sono stati scritti sulle rovine delle case della famiglia al-Samuni, che ha perso decine di suoi membri durante la guerra. Un portavoce dell'esercito israeliano ha affermato in risposta all'articolo: "non è questo il modo in cui sono stati educati i soldati dell'IDF. Ciò va contro il codice etico dell'IDF. Stiamo indagando la questione e i responsabili verranno severamente rimproverati".

Note del Traduttore

[1] Per chi si aspettava di trovare il termine "puniti": il vocabolo utilizzato è "reprimanded" che vuol dire "riprendere, rimproverare" o più esattamente "punire, in particolare con critiche o rimproveri" ("reprimand": atto o espressione di critica o censura; censura severa).

[2] The Guardian riporta anche la frase "Arabi 1948-2009".


Titolo originale: "IDF soldiers leave racist graffiti on Gaza homes"
Fonte: http://www.ynetnews.comLink
28.01.2009
Articoli scelti e tradotti per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO

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