21 febbraio 2013

La ricompensa umanitaria per il silenzio


Sovente i cantori della più becera propaganda filo-israeliana di casa nostra mettono in evidenza come i palestinesi siano percettori di generosi aiuti finanziari, accusandoli senza mezzi termini di essere degli “scrocconi” e di vivere alle spalle dei contribuenti europei.

Ma la verità sta esattamente all’opposto: gli aiuti internazionali al popolo palestinese servono solo a rimediare ai guasti e ai crimini dell’occupazione israeliana. Di più, la “generosità” degli stati dell’occidente è solo un modo per farsi perdonare l’accettazione dello status quo dell’occupazione israeliana, del blocco di Gaza, dell’espansione delle colonie, del regime di apartheid che vige nella West Bank.

E questo il senso del bell’articolo che segue, scritto da Amira Hass per Ha’aretz. Va soprattutto evidenziato come la giornalista metta giustamente in chiaro come ogni sorta di collaborazione con lo stato-canaglia israeliano, nel campo militare così come nelle relazioni commerciali, ma anche nel campo culturale ed accademico, altro non rappresenta se non un implicito incoraggiamento allo stato ebraico a perseguire nelle sue politiche illegali e immorali.

I generosi aiuti forniti ai Palestinesi attraverso vari canali sono la ricompensa offerta dagli stati occidentali per la tolleranza da loro mostrata nei confronti dell’apartheid israeliano.

di Amira Hass - 6.2.2013

C’è qualcosa di imbarazzante, persino di umiliante, nei due o nei tre o negli stormi di fuoristrada che accorrono verso il luogo di un disastro. I passeggeri di lingua straniera ne emergono per registrare accuratamente i danni, valutare gli aiuti necessari e quindi discutere del modo con cui fornirli. In seguito pubblicano i loro accertamenti e le loro conclusioni in relazioni ad uso interno e in brochure patinate contenenti immagini spettacolari, perché la sofferenza è fotogenica.

Anche quando queste squadre di soccorso sono estremamente altruiste, compassionevoli e scrupolose, l’aura del loro mondo ordinario, confortevole e salubre le circonda, isolandole da coloro per i quali la catastrofe è una routine. I primi si guadagnano da vivere con le calamità, i secondi le vivono. Non c’è bisogno di esser cinici, è lo scenario che è cinico per definizione.

Anche nei disastri naturali una gran parte della responsabilità ricade su inadempienze amministrative, atti umani, criminale negligenza il cui unico effetto è quello di perpetuare le differenze di classe. Ma almeno quando la causa immediata è una tempesta o un terremoto c’è una dimensione di ineluttabilità. Si determina la portata del disastro ma non il suo verificarsi.    

I team internazionali che raggiungono con le jeep ogni angolo della Cisgiordania, di Gerusalemme est e della Striscia di Gaza vivono di calamità che sono al 100% opera dell’uomo, un fatto che moltiplica il cinismo dello scenario. I camion cisterna di acqua potabile che regolarmente finanziano, i pacchi alimentari che distribuiscono a intervalli di poche settimane o mesi e le tende piantate ogni settimana sulle rovine di una casa demolita significano l’ennesimo successo israeliano: comprimere e ridurre la questione palestinese da una battaglia per la libertà, l’indipendenza e i diritti ad una questione di elemosina e di soccorso, di donazioni internazionali e del loro tempismo.  

I palestinesi “bisognosi” che ricevono donazioni di acqua, cibo e tende ad Hammamat al-Maleh, a Beit Lahia e a Shoafat sono bisognosi perché i tipici israeliani – la crema dei sistemi scolastici statali e statali-religiosi, gli alti ufficiali di carriera dell’esercito – che possono guardare ad un futuro splendido da civili nell’alta tecnologia o nei servizi pubblici si specializzano nell’abusare di loro. Che cos’è, se non un abuso, una tubazione da un capo all’altro del vostro terreno ad Al Farisya, nel nord della valle del Giordano, che porta l’acqua alle case ebraiche costruite sulla terra del vostro villaggio, ma dalla quale vi è proibito di prendere anche solo una goccia? Che cos’è, se non maltrattamento, lo sparare di routine alle persone che si sostentano con la pesca o la raccolta di rifiuti? E cos’è, se non sadismo, lo sfrattare le persone dalle loro case nei quartieri di Sheikh Jarrah e di Silwan, a Gerusalemme est, o il rifiutarsi di registrare i bambini sulle carte d’identità delle loro madri che vivono a Gerusalemme?    

Il pubblico per tutti questi rapporti che descrivono questi abusi e che sono stati scritti da questi team scrupolosi è costituito dagli alti diplomatici di stanza a Bruxelles, nelle capitali europee e nel Nord America. Si suppone che le informazioni siano trasmesse ai ministri degli esteri e ai governi. Gran parte di esse presumibilmente lo sono. Ma questi governi hanno preso la decisione politica consapevole di rimanere radicati nell’ipocrisia e di astenersi da un intervento politico. Piuttosto, si limitano a pagare per spegnere qualche incendio.

Anche questo è un enorme successo israeliano: la costante, quotidiana preoccupazione internazionale per le conseguenze della dominazione sui palestinesi e dell’acquisizione delle loro terre da parte di Israele è di natura umanitaria piuttosto che politica. Contro la loro volontà, quanti si impegnano in questo sforzo umanitario costituiscono una foglia di fico per gli stati occidentali che sulla carta sostengono i diritti e l’indipendenza dei palestinesi mentre nella pratica accettano l’apartheid israeliano.

L’apartheid genera i casi umanitari palestinesi nell’interesse dei quali si tengono importanti conferenze e dai quali molti burocrati palestinesi e stranieri si guadagnano (bene) da vivere. I generosi aiuti forniti ai palestinesi attraverso vari canali sono la ricompensa offerta dagli stati occidentali in cambio della tolleranza da essi mostrata nei confronti dell’apartheid israeliano e dell’incoraggiamento che gli forniscono, sotto forma di stretti legami nel settore della difesa, del miglioramento delle relazioni commerciali e degli scambi culturali e scientifici.     

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