28 giugno 2007

Un problema particolare.


La lenta ma costante opera di annessione di buona parte della West Bank da parte di Israele si accompagna ad un’altrettanta inesausta opera di “pulizia etnica” dei territori interessati, una tecnica subdola e strisciante che si attua soprattutto, come osservava recentemente Ilan Pappe, attraverso un meccanismo giornaliero di deumanizzazione e di abusi, sia burocratici sia militari, piuttosto che attraverso un vero e proprio trasferimento forzato, il cui principale propugnatore resta Avigdor Lieberman.
Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme est, in cui l’opera di alterazione degli equilibri demografici e di giudaizzazione della città si attua attraverso quattro strumenti principali:
1) l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, attuata principalmente a mezzo del muro di “sicurezza”, che rende oltremodo difficile e penoso l’accesso ai servizi più basilari quali la sanità e l’educazione, nonché il raggiungimento del posto di lavoro per molti residenti palestinesi;
2) la palese discriminazione tra arabi ed ebrei per quanto attiene le espropriazioni, i permessi per costruire nuove abitazioni, le demolizioni;
3) la diseguale distribuzione del budget municipale tra le due parti della città, con negative conseguenze per i servizi e le infrastrutture destinate alla fruizione della popolazione araba;
4) la revoca della cittadinanza, e dei benefici sociali collegati, per i Palestinesi che restano all’estero per almeno 7 anni o che non riescono a provare che il centro della loro vita e dei loro interessi è a Gerusalemme.
Quest’ultimo strumento è applicato in un sempre crescente numero di casi, come segnalato recentemente da B’tselem, secondo cui, solo nel 2006, i Palestinesi a cui è stato revocato il permesso di residenza e che sono stati espulsi effettivamente dalla città sono stati ben 1.363.
Il pretesto più comune usato a tal fine – secondo l’ong israeliana – consiste nel denunciare il possesso da parte dei Palestinesi di un passaporto straniero, il che permette la revoca del loro status di “residenti permanenti” in Israele.
Ciò segnala una palese discriminazione razziale a danno dei Palestinesi, dato che un cittadino israeliano normalmente può possedere diversi passaporti e trascorrere la sua vita all’estero senza che alcuno si sogni di mettere in discussione il suo status di cittadino di Israele.
E questo è quello che sappiamo (dalle ong e/o dalla stampa estera, perché in Italia i media si occupano di tutt’altro).
Quello che è meno noto, potremmo dire sconosciuto ai più, è il fenomeno della pulizia etnica all’interno dello Stato di Israele, di cui non si occupano nemmeno quei fenomenali difensori dei diritti umani quali Amnesty o, soprattutto, Human Rights Watch, così intenti a bastonare il mondo arabo (ed anche giustamente) per le numerosi violazioni dei diritti ma, di tutta evidenza, un po’ distratti quando si discute di quel bastione di civiltà che è lo Stato israeliano.
Così può accadere, quietamente e tranquillamente, che uno schieramento inusitato di 1.500 poliziotti e addetti vari, con l’ausilio di cinque bulldozer, procedano (come è accaduto lunedì scorso) alla demolizione di 25 casupole e baracche di alluminio nei villaggi beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir, nel deserto del Negev, lasciando senza un tetto circa 150 persone.
Succede infatti che la Israel Land Administration (ILA) abbia deciso di distruggere i due villaggi (ufficialmente non riconosciuti) e di trasferirne gli abitanti, per far posto ad una comunità ebraica denominata Hiran, che dovrà essere stabilita sull’area.
E, tanto per aggiungere alla vicenda già triste un ulteriore tocco di brutalità (cosa di cui gli ebrei israeliani sono maestri), i poliziotti, al fine di accelerare le operazioni, hanno impedito alle donne del villaggio di portar fuori da sé i loro bambini, ma hanno afferrato i box con i bimbi dentro e hanno provveduto personalmente alla bisogna (vedi foto).
E già, non perdiamo tempo con dei pezzenti e i loro bambini piagnucolosi, svegliati all’improvviso, terrorizzati, e trascinati fuori dalla loro casa, cerchiamo di sbrigarci!
Secondo Adalah, un’organizzazione per la tutela dei diritti delle minoranze arabe in Israele, i residenti del villaggio erano lì da ben 51 anni; correva l’anno 1956, infatti, quando questi poveri Beduini furono trasferiti in quel sito, mentre la terra che originariamente possedevano veniva trasferita al kibbutz Shoval.
La ILA, nell’agosto del 2001, predispose un rapporto sulla creazione di nuove comunità, e tra queste vi era per l’appunto Hiran, la cui istituzione fu approvata dal governo israeliano nel 2002; successivamente, nel 2004, lo Stato richiese un’ordinanza giudiziale di sgombero, sostenendo che i Beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir occupavano la terra di proprietà statale senza alcun permesso.
Ma non erano stati loro a trasferirli là?
Il rapporto ILA del 2001 faceva riferimento ai Beduini residenti nell’area, rubricandoli alla voce “problemi particolari”, che avrebbero potuto pregiudicare il sorgere della nuova comunità ebraica.
Ma non è stato poi un problema così “particolare” e difficile da risolvere, è bastato schierare un numero sufficiente di addetti allo sgombero e di poliziotti (1.500!), è bastato afferrare e buttare fuori dalle case gli effetti personali dei residenti, ivi compresi i box con i bambini dentro.
Benvenuti in Israele, il focolare domestico degli ebrei, della pulizia etnica, del razzismo, della disumanità.

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23 giugno 2007

Senza parole.

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22 giugno 2007

La luce alla fine del tunnel tra Gaza e Ramallah.

Quando la settimana scorsa ho visto alcune delle immagini provenienti dalle lotte intestine di Gaza, ho represso la mia angoscia e la mia ira al calor bianco, ricordando le sagge, quasi profetiche parole del grande educatore brasiliano, Paulo Freire, che scrisse:
"Il problema centrale è questo: come possono gli oppressi, essendo esseri divisi e inautentici, partecipare allo sviluppo della propria pedagogia della liberazione? Solo scoprendosi ad 'ospitare' l'oppressore possono contribuire al travaglio della loro pedagogia di liberazione. Finché vivono nel dualismo secondo cui essere significa essere come, e essere come significa essere come l'oppressore, questo contributo è impossibile. La pedagogia degli oppressi è uno strumento per la loro critica scoperta che sia essi che i loro oppressori sono manifestazione di deumanizzazione".
Apparentemente nessuna delle due parti in conflitto è riuscita a trascendere il suo ruolo di essere come l'oppressore.
Il rapidissimo successo di Hamas nell'acquisire con la forza il controllo dei presunti simboli del potere palestinese a Gaza non può e non dovrebbe oscurare il fatto che data l'irresistibile presenza dell'occupazione militare israeliana, il sanguinoso scontro tra il gruppo islamista e la sua controparte laica, Fatah, al di là dei motivi, è sceso al livello di una faida tra due schiavi che si contendono le briciole gettate loro, quando si comportano bene, dal loro comune dominatore coloniale.
Non vi è dubbio che una fazione interna di Fatah -- apertamente foraggiata, addestrata e ispirata da USA e Israele -- è la principale sospettata dietro il deflagrare di questa sanguinosa lotta che provoca devastazione a entrambe le parti, che molti osservatori vedono come una tentativo sottilmente velato di destabilizzare il governo democraticamente eletto di Hamas, costringendolo ad accettare diktat israeliani che finora aveva respinto. Inoltre, ogni decente esperto legale ammetterà subito che il cosiddetto "governo di emergenza", dichiarato dal Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, in risposta alla conquista di Gaza da parte di Hamas, viola diversi articoli della Legge Fondamentale, l'equivalente della Costituzione dell'AP.
Mentre la corruzione, l'assenza di legge, la speculazione e persino il tradimento da parte di sezioni di Fatah è divenuto noto e ben documentato da tempo, le tattiche brutali, spregiudicate ed in certi casi criminali usate da gruppi armati all'interno di Hamas ammonivano osservatori neutrali, disposti a concedere al gruppo il beneficio del dubbio, a ricordare che anch'esso contiene una forte fazione, affamata di potere, pronta a sacrificare principi e diritti umani per raggiungere i suoi obiettivi politici. Hamas non può andare esente dall'accusa che, partecipando alle elezioni legislative e munipali secondo le leggi e i parametri posti dagli Accordi di Oslo, ha già contribuito a legittimare i prodotti di quegli accordi, ed ha rinunciato alla sua posizione di movimento di resistenza votato principalmente a realizzare i principi fondamentali del programma di liberazione nazionale. Oltre a ciò, e a differenza degli assai più sofistacati e responsabili Hezbollah in Libano, Hamas, nello scorso anno e mezzo di esperienza di governo a vari livelli, ha rivelato la sua intrinseca tendenza, come tutti i movimenti islamisti, ad imporre la sua visione ideologica e sociale esclusiva, e a rigettare e, quando possibile, reprimere i diversi punti di vista e culture che sono in conflitto con quell'ordine.
In breve, il vuoto politico che inevitabilmente risulterà dalla crescente spaccatura tra Ramallah e Gaza e l'inarrestabile collasso delle strutture dell'AP e della rimanente autorità verrà con tutta probabilità riempito da una completa rioccupazione israeliana dell'intera West Bank e Gaza. Questo annuncerebbe la morte ufficiale del cosiddetto processo di pace di Oslo, che in realtà è collassato molto tempo fa sotto il peso dell'incessante espansione coloniale di Israele, del muro dell'Apartheid -- dichiarato illegale da parte della Corte Internazionale di Giustizia -- e l'intricato apparato di oppressione e umiliazione dei Palestinesi sotto il suo controllo.
Un tale scenario può condurre o a minacciare la sopravvivenza stessa del movimento nazionale palestinese ed il completamento del processo ben avviato di disintegrazione della società palestinese, o a innescare una rinascita della lotta palestinese per l'auto-determinazione. Perché si verifichi il secondo caso, comunque, occorrono due difficili ma realistiche condizioni: primo, la democratizzazione strutturale della Palestina, insieme alla riforma politica e alla ridefinizione delle priorità palestinesi; in secondo luogo, una revisione critica e un rilancio della strategia di resistenza, da prospettive sia etiche che pragmatiche. Entrambe sono urgentemente necessarie, per riallineare la lotta palestinese con il movimento sociale internazionale e porre di nuovo la questione della Palestina nell'agenda mondiale come una lotta di liberazione eticamente e politicamente realistica e giustificabile che -- di nuovo -- catturi l'immaginazione ed il sostegno dei progressisti e degli amanti della libertà di tutto il mondo.
Al fine di contrastare la duplice strategia israeliana, che da un lato frammenta e ghettizza ed espropria i Palestinesi, e dall'altro riduce il conflitto ad una disputa su un sottoinsieme di diritti palestinesi, l'OLP deve essere resuscitato e rimodellato per incorporare i principi, le energie creative, e le cornici nazionali dei tre principali segmenti del popolo palestinese: i Palestinesi nei Territori Occupati, i rifugiati palestinesi, e i cittadini palestinesi di Israele. Le organizzazioni di base dell'OLP hanno bisogno di essere ricostruite dal basso con una partecipazione di massa, e devono essere rette da una democrazia incondizionata e da rappresentanze proporzionali. Questo processo deve essere seguito da un ben pianificato trasferimento dei poteri dalla avvizzita AP ad un OLP ringiovanito, che includa l'intero spettro del movimento politico palestinese.
Per quanto riguarda le strategie di resistenza, non si può e non si deve separare i mezzi dai fini. Se la lotta per la libertà in Algeria, Irlanda del Nord e Sud Africa ci insegna qualcosa, è questo fatto. Indipendentemente dal diritto dei Palestinesi di resistere all'occupazione straniera con tutti i mezzi, riconosciutagli dal diritto internazionale, noi abbiamo un dovere morale di evitare tattiche che bersaglino indiscriminatamente i civili e corrompano la nostra stessa umanità. Allo stesso tempo, con un pieno rispetto al primo principio, abbiamo l'obbligo politico di scegliere metodi che massimizzino le notre vittorie. Dato il continuo nichilistico abuso e la completa inutilità della resistenza armata palestinese, l'unicità della sua difficoltà del contesto geopolitico in cui opera il movimento di resistenza palestinese, la frammentazione di fatto del popolo palestinese e l'isolamento della sua resistenza da potenziali fonti di risorse ed appoggio logistico, la resistenza civile che ha il potenziale di mobilitare la base palestinese sembra non solo moralmente ma anche pragmaticamente preferibile.
Le nuove campagne palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, modellate sull'esempio della lotta anti-apartheid in Sud Africa, ha gia mostrato con ampia evidenza di avere un grande potenziale di unire i Palestinesi ed il movimento internazionale di solidarietà in una strategia di resistenza che è morale, efficace e sostenibile. Solo negli ultimi, molti importanti ed influenti gruppi ed istituzioni hanno aderito all'invito palestinese per il boicottaggio, ed hanno iniziato a considerare ed applicare diverse forme di efficace pressione su Israele.
Tra queste ricordiamo la British University and College Union (UCU);Aosdana, l'accademia di artisti sostenuta dal governo irlandese; la Chiesa d'Inghilterra; la Chiesa Presibiteriana (USA); importanti architetti britannici guidati dall'organizzazione Architects and Planners for Justice in Palestine (APJP); la National Union of Journalists nel Regno Unito; l'organizzazione Congress of South African Trade Unions (COSATU); il Consiglio delle Chiese Sud Africano; il sindacato del pubblico impiego nell'Ontario; e dozzine di celebri autori, artisti e intellettuali guidati da John Berger, tra molti altri.
L'intensificarsi dell'oppressione dei Palestinesi, particolarmente a Gaza, con un'impunità senza precedenti è stato il fattore di innesco principale per l'estendersi del boicottaggio. Con la sua spietata distruzione delle infrastrutture palestinesi, la deliberata uccisione di civili, in modo particolare bambini, il muro di apartheid, le strade e le colonie per soli Ebrei, l'incessante confisca di terra e risorse idriche, e l'orrifica negazione di libertà di movimento per milioni di persone sotto occupazione, Israele ha mostrato alla comunità internazionale la sua totale mancanza di rispetto per il diritto internazionale e i fondamentali diritti umani.
Questa ultima dose di "caos costruttivo" in stile americano -- ispirato da Israele -- nei Territori Occupati palestinesi può avere effetti assai distruttivi sulle poliche USA e Israeliane nella regione. Con l'imminente dissipazione dell'illusione che una sovranità nazionale palestinese possa essere stabilita sotto l'egemonia coloniale di Israele, molti Palestinasi stanno ora seriamente mettendo in discussione la saggezza del mantra dei due stati, e considerando di riformulare i termini della propria causa come una causa di eguale umanità e piena emancipazione, all'interno della cornice di uno stato democratico ed unitario per Israeliani e Palestinesi nella Palestina storica. Dopo quasi tre decenni di "assopimento della coscienza" sull'idea che solo una soluzione a due stati possa soddisfare le esigenze dei Palestinesi, gli USA ed Israele stanno raccogliendo quello che hanno seminato: il collasso di ogni finzione di indipendenza ed integrità dell'AP -- che finora è stata incaricata di sollevare Israele dal peso del suo ruolo coloniale contro gli abitanti della West Bank e di Gaza sotto occupazione -- ed il montante scontento palestinese (se non ancora un'aperta rivolta) verso il gioco di un unilaterale compromesso palestinese verso le insaziabili richieste israeliane di ulteriori cedimenti che comportino perdite di terra, risorse, libertà e le prospettive sinistre, quanto reali, di un crollo della società.
La fine della soluzione a due stati non merita che vi si versino sopra troppe lacrime. Oltre ad aver passato la sua data di scadenza, essa non fu mai una soluzione morale, tanto per cominciare. Nel migliore dei casi, se la Risouzione ONU 242 fosse stata meticolosamente implementata, essa avrebbe dato risposta solo ai diritti legittimi di meno di un terzo del popolo palestinese su meno di un quinto della loro terra ancestrale. Più di due terzi dei Palestinesi, i rifugiati più i cittadini palestinesi di Israele, sono stati espunti in modo miope e maligno dalla definizione di Palestinesi.
E' ora più chiaro che mai che la soluzione a due stati -- oltre ad essere solo un travestimento per il protrarsi dell'occupazione israeliana ed un meccanismo per dividere permanentemente il popolo di Palestina in tre segmenti sconnessi -- era inteso soprattutto ad indurre i Palestinesi a rinunciare al proprio inalienabile diritto al ritorno dei rifugiati nelle loro case e terre dalle quali furono cacciati nella pulizia etnica attuata dai sionisti durante la Nakba (catastrofe) del 1948.
La soluzione ad un unico stato viene percepita sempre di più dai Palestinesi e dalla gente di coscienza nel mondo come l'alternativa morale al dominio coloniale ed apartheid di Israele. Una tale soluzione, che promette una inequivoca uguaglianza nella cittadinanza, come nei diritti comuni e dell'individuo, sia ai Palestinesi (rifugiati inclusi) che agli Ebrei israeliani, è la più appropriata per riconciliare ciò che oggi appare come irreconciliabile: i diritti inalienabili, sanciti dalle Nazioni Unite, all'autodeterminazione del popolo indigeno di Palestina, al rimpatrio, e all'uguaglianza, in armonia col diritto internazionale e, d'altro canto, il diritto acquisito ed internazionalmente riconosciuto degli Ebrei Israeliani di vivere in Palestina -- da eguali, e non da padroni coloniali.
20 giugno 2007
Omar Barghouti (analista politico palestinese indipendente)
Originale da Electronic Intifada
Tradotto dall'inglese all'italiano da Gianluca Bifolchi, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è in Copyleft per ogni uso non-commerciale: è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne l'autore e la fonte. URL di questo articolo: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?lg=it&reference=3061

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21 giugno 2007

Una questione di percentuali (2).

Mi trovo a dover ritornare sul post “Una questione di percentuali” per precisare che non si tratta di una analisi che assuma di avere il carattere della scientificità, né di un parallelo storico e di una analogia tra nazismo e sionismo, come del resto dovrebbe esser chiaro ad ogni persona di normale intelletto.
Come ho già detto – ma a volte ripetere non solo aiuta ma è addirittura indispensabile – il pezzo era solo una provocazione che, nelle sue intenzioni, era volta a suscitare un dibattito sull’efferatezza e la brutalità del crimini dell’occupazione israeliana e del diverso e più favorevole standard di giudizio con cui i crimini del regime sionista vengono considerati se non, talora, addirittura giustificati.
Evidentemente ho commesso un errore, dato che le risposte e le critiche che ho ricevuto non sono state del tenore che avevo ipotizzato.
Ed anche quelle che non ho ricevuto.
Mi riferisco in particolare ad un imbecille, tale Skeight, che in poche decine di righe ha trovato modo (oltre che di offendermi gratuitamente) di accusarmi di avere intenti negazionistici, di ricercare ogni motivazione più stupida e risibile a supporto delle proprie “convinzioni innate” (l’ostilità e/o l’odio verso gli ebrei, è dato supporre), di fare il gioco della “destra nazionalista israeliana”. Ohibò!
Ora, è chiaro che ogni critica è legittima, ed anzi chi rende pubbliche le proprie idee lo fa anche e soprattutto per ottenerne un vaglio critico.
Ma buona norma di cortesia vorrebbe che si rendesse edotto il destinatario delle critiche che gli vengono mosse, magari postando un commento al pezzo “incriminato” oppure inserendo il link dello stesso in modo che l’estensore possa agevolmente risalire alle diverse “blog reactions”.
Invece il nostro amico non ha voluto inserire il link al blog per non “fargli pubblicità” (anche se poi cita il nome del blog stesso, Palestina libera, che inserito nella pagina di ricerca di Google conduce agevolmente alla meta): davvero una cosa ridicola, che tradisce, ahimé, la profondità intellettuale della persona.
Tra l’altro, alcune delle argomentazioni usate da Skeight risultano alquanto fastidiose e sgradevoli, come quanto si straparla di zombie e di Palestinesi che respirano, mangiano e bevono (e meno male che, bontà sua, Skeight ammette che le due ultime cose i Palestinesi sono forzati a farle in modica quantità!).
Anche qui, una persona di normale intelletto avrebbe compreso che si parlava dei Palestinesi sotto occupazione come “morti viventi” intendendo riferirsi ad una morte civile, ad esseri umani che non sono più titolari di diritti basilari come il diritto alla libertà di circolazione, alla salute, all’accesso all’istruzione e al lavoro, alla dignità, financo privi dello stesso diritto alla vita e all’incolumità fisica.
Ma, infine, il punto centrale della discussione è un altro.
Come ho già avuto modo di sostenere a proposito della vicenda dell’U.C.O.I.I., nessuno si sogna di paragonare gli ebrei ai nazisti.
E’ indubbio tuttavia che, da un punto di vista della “qualità” dei crimini commessi, Israele ed il suo esercito hanno messo in campo tutta una serie di brutalità, di assassinii illegali, di punizioni collettive, di massacri in un numero ed in una varietà davvero raccapriccianti per uno Stato che si presume costituisca un “faro di civiltà” nel medio oriente.
Lasciando da parte i numeri, in questi anni chi ha seguito le vicissitudini del popolo palestinese e le “prodezze” di Tsahal ha potuto assistere a crimini ed atrocità senza paragoni, bambini uccisi mentre andavano a scuola o addirittura seduti al loro banco, oppure mentre giocavano per strada, interi nuclei familiari sterminati nelle loro case o su una spiaggia dai bombardamenti indiscriminati dell’Idf, oppure uccisi nel sonno da una bomba della Iaf, donne e bambini uccisi sol perché si erano avvicinati troppo al muro di “sicurezza”, esecuzioni sommarie di militanti mascherate da operazioni di arresto andate “male”, ed altro ancora.
E mentre tutto questo è accaduto e continua ad accadere ogni giorno (tra il 14 e il 20 giugno Tsahal ha causato la morte di ben 14 Palestinesi, di cui 5 ragazzini, nel più assoluto silenzio dei media) noi dovremmo star lì col bilancino a pesare i termini e i paragoni, per non urtare la suscettibilità di alcuno o per non fare il gioco della destra nazionalista e degli ultraortodossi israeliani o, peggio, per non far trasparire quello che, con tutta evidenza, è un antisemitismo innato.
Ma per favore!

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20 giugno 2007

Un commento ai fatti di Gaza

Dall'amico Mauro Manno ricevo e pubblico questo interessante commento sugli ultimi, tragici avvenimenti nella Striscia di Gaza e sulla profonda crisi dell'esperimento sionista.
Cosa succede ai palestinesi? Invece di lottare contro una delle più orribili occupazioni della storia, il popolo palestinese si divide e si fa la guerra civile?
Chi è privo di strumenti per capire cosa stia avvenendo oggi in tutto il Medio Oriente potrebbe giungere a questa conclusione. Ma sbaglierebbe, perché non comprende che quanto più si addensano le difficoltà per gli oppressori, e quanto più si fanno scure le nubi della tempesta, tanto più essi tramano complotti per tentare di restare a galla.
Per orientarsi nella complessa situazione di una regione in cui si sono accumulate tante contraddizioni, sono state commesse tante ingiustizie e in cui le speranze di soluzione sono andate regolarmente ad infrangersi contro le forze del sionismo e dell’imperialismo americano, è assolutamente necessario guardare la realtà con attenzione e senza quei metri di giudizio che ci derivano da schemi mentali vecchi e sorpassati, oltretutto, occidentali. Primo tra questi quello tipico della cosiddetta sinistra che considera sempre positivo il laicismo, negativo tutto quello che è religioso. Nel nostro caso, stiamo parlando di Hamas.
È un tipico errore dell’Occidente dove le forze della religione hanno avuto storicamente un ruolo di conservazione rispetto alle forze del liberalismo e del socialismo. Altro errore sempre più diffuso è quello di equiparare i movimenti religiosi nel mondo islamico con l’estremismo o il terrorismo.

Il piano sionista

La vittoria elettorale del 2005 di Hamas, un movimento di liberazione fortemente caratterizzato dalla religione islamica, ha precipitato nella confusione e nello spavento i sionisti e gli imperialisti americani. Dopo il fallimento di Oslo, era naturale che una situazione di stallo nelle “trattative”, accompagnata dalla continua e selvaggia colonizzazione da parte di Israele, sfociasse nel progressivo indebolimento di quelle forze come Fatah che avevano puntato sul processo di “pace” e, in mancanza di risultati, avevano finito per costituire un regime (senza Stato) mantenuto dalla corruzione derivante dalla spartizione degli “aiuti” americani e europei. Di questi ben poco giungeva al popolo palestinese e quel poco che esso otteneva sotto forma di sovrastruttura civile, veniva immediatamente distrutto dagli interventi militari israeliani.
Il progetto israeliano era quello di indebolire sempre più il Presidente Arafat prima e Abu Mazen dopo e tutta l’Autorità Nazionale Palestinese. Contemporaneamente il piano di Sharon prevedeva la creazione unilaterale, sul campo, di una situazione irreversibile, col muro, gli insediamenti ebraici e i bantustan palestinesi. I due processi - indebolimento ANP e bantustan palestinesi - dovevano portare alla fine alla “pace”: Agli israeliani il 90% della Cisgiordania e il 100% di Gerusalemme Est, tutta l’acqua della Palestina e il controllo dei confini; ai palestinesi un pugno di mosche, cioè quattro prigioni a cielo aperto divise tra di loro che il mondo occidentale avrebbe accettat come “Stato Palestinese”. La prima di queste prigioni era Gaza, che Sharon ha sgomberato nel 2006.
La Road Map, come ha ammesso recentemente perfino un generale israeliano, era solo un pretesto per prendere tempo, uno specchietto per le allodole per l’UE, i governi occidentali e la gente di buone intenzioni ma di cervello limitato. (1)
Questo piano coloniale e razzista veniva sconvolto dalla vittoria di Hamas. Se una ANP indebolita e corrotta, mantenuta coi denari dell’Occidente, se un presidente incapace e insignificante come Abu Mazen, avrebbero forse accettato un “compromesso” come quello pensato dai sionisti, era evidente che Hamas non lo avrebbe mai fatto. Il popolo palestinese aveva eletto democraticamente i suoi rappresentanti perché non lo facessero.
Per gli USA e i sionisti, le elezioni rappresentavano una sconfitta di cui vendicarsi al più presto.

Stati Uniti e Israele

Qui s’impone un chiarimento sulle differenze e le convergenze tra la politica mediorientale degli Stati Uniti e quella di Israele e della lobby ebraica in America. Chi parla dell’importanza della lobby ebraica nella società americana e della sua incidenza nella politica mediorientale degli Stati Uniti viene spesso, se non sempre, accusato di esagerarne il ruolo e di sminuire il carattere imperialista degli USA in Medio Oriente. Lo si accusa, in altri termini, di pensare che l’intervento imperialista USA in Medio Oriente sarebbe positivo se non ci fosse la lobby o Israele. Questa critica ne nasconde un’altra ben più maligna, che cioè chi parla della lobby cela dietro il termine l’idea del complotto ebraico che con l’inganno è penetrato nell’apparato decisionale americano e ne distorce la politica a suo favore, secondo un piano di dominio mondiale ebraico del tipo “Protocolli dei Savi di Sion”. Sciocchezze !
L’obiettivo della superpotenza imperialista americana è il dominio sul Medio Oriente. Ciò comporta: 1) l’eliminazione di tutte le forze, paesi o partiti e movimenti, che si oppongono ad esso, 2) il sostegno a Israele agli stati “moderati” (stati clienti) come Egitto, Giordania, paesi del Golfo e Arabia Saudita, 3) la creazione di uno Stato debole e federale in Iraq dove Kurdi, Sciiti e Sunniti si contrastino a vicenda in un equilibrio precario di cui si fanno garanti gli americani con una loro presenza stabile nel paese, 4) il contenimento, accerchiamento e sovversione (Regime Change) o, se necessario, bombardamento e eventualmente invasione dei paesi “canaglia” Iran e Siria. 5) il rafforzamento delle forze filo-occidentali in Libano e soluzione favorevole a Israele e all’America della situazione di stallo nel paese, con il disarmo e lo smantellamento di Hezbollah.
In Palestina l’obiettivo della superpotenza americana richiede l’appoggio alle forza filo-occidentali di Fatah e il disarmo e smantellamento di Hamas, ma anche la creazione di uno staterello palestinese da affidare a un governo amico degli USA e di Israele.
Sembrerebbe dunque che gli obiettivi americani e quelli israeliani coincidano esattamente ma non è proprio così.
Gli Usa, per garantirsi una supremazia duratura e possibilmente poco costosa nella regione, sarebbero disposti alla creazione di uno Stato palestinese viabile su quei territori che la Risoluzione 242 chiede a Israele di liberare. Nel passato hanno chiesto a Israele di smantellare la maggior parte delle colonie e qualche serio compromesso territoriale (scambio di territori). Sinceramente non vedo perché gli Stati Uniti dovrebbero opporsi alla creazione di uno Staterello palestinese possibilmente amico e riconoscente. Un altro Stato cliente come la Giordania o forse in qualche modo associato ad essa. Il che farebbe felice Abdallah, il figlio del “piccolo re”.
Cosa ci perderebbero gli Usa dalla creazione di un simile Stato? Niente. Ci guadagnerebbero invece moltissimo perché vedrebbero rafforzata la loro posizione nella regione, darebbero un aiuto importante agli stati “moderati” arabi, toglierebbero una ragione di reclutamento ad Al Qaida e indebolirebbero enormemente l’influenza di Siria e Iran in Medio Oriente. Ma gli Usa possono operare per la creazione di uno Staterello palestinese?
Verrebbe spontaneo dire che, siccome gli Usa sono l’unica superpotenza rimasta, essi possono fare quello che vogliono e possono costringere Israele a cedere ai palestinesi i territori occupati nel 1967, ma sarebbe dire cosa non esatta. Se così non fosse dovremmo concludere che gli Stati Uniti, visto che fino ad ora non è avvenuto alcun ritiro israeliano, non vogliono assolutamente uno Stato palestinese. Perché mai non dovrebbero volerlo? Per prestare ancora il fianco al terrorismo internazionale? O per qualche altra ragione economica? C’è forse petrolio o incredibili ricchezze nei territori occupati da Israele? Ne trae forse l’America qualche sostanzioso guadagno?
La potenza degli Stati Uniti non è illimitata. Lo si è capito dall’incapacità americana di vincere in Iraq. Ma la potenza Usa è limitata anche dal sistema delle lobby a Washington. Così gli Stati Uniti non possono operare liberamente per la nascita di uno Staterello palestinese, come hanno fatto a danno del loro alleato indonesiano per la costituzione dello Stato di Timor orientale. Negli Stati Uniti la forza della Lobby ebraica nel Congresso e l’influenza che esercita in entrambi i partiti Democratico e Repubblicano impedisce a qualsiasi potere esecutivo di ottenere il ritiro israeliano dai territori occupati. Dovrebbe essere chiaro ormai dopo il grande dibattito sorto sulla Lobby in seguito alle accuse circostanziate di voci autorevoli quali quelle di Mersheimer e Walt, Jimmy Carter, George Soros, James Petras, Norman Finkelstein, Scott Ritter, il Financial Time, ecc. (2)
Per Israele è questione fondamentale inglobare quanto più territori possibile e impossessarsi delle riserve idriche di tutta la Palestina. Questo è essenziale per uno Stato che punta sull’immigrazione ebraica e che necessita di territori più estesi per difendersi dai paesi arabi circostanti con cui non è riuscito o non ha voluto realizzare la pace e la convivenza. Israele ha quindi affidato alla sua lobby in America il compito importantissimo di impedire la nascita di uno Stato palestinese su tutti i territori occupati, con le sue riserve d’acqua (maggiori di quelle di Israele) con un esercito proprio e il controllo dei suoi confini. Se un eventuale Stato palestinese dovesse controllare le proprie riserve idriche, avere propri confini e un esercito per difenderli, per Israele diventerebbe un prolungamento degli altri paesi arabi e una minaccia allo Stato ebraico. È quindi vitale per Israele, ma non per gli Stati Uniti, che non nasca uno Stato palestinese normale e che i palestinesi siano rinchiusi in prigioni a cielo aperto circondate dal muro dell’apartheid e da filo spinato. Come a Gaza, che pur essendo stata sgomberata dipende in tutto e per tutto da Israele e non ha il controllo della sua frontiera con l’Egitto né il controllo della sua costa e fascia marittima prospiciente.

La situazione attuale a Gaza e in Cisgiordania

Gli obiettivi israeliani e quelli americani, quindi, in parte coincidono (su Hamas e il governo Palestinese), in parte divergono (sulla costituzione di uno Stato palestinese, piccolo, ma viabile). L’isolamento di Hamas e l’appoggio a Fatah e Abu Mazen sono obiettivi comuni. Per Israele, perché Hamas non accetterà mai i Bantustan; per gli americani, perché la Palestina governata da Hamas può essere, con Hezbollah e la Siria, un altro importante alleato dell’Iran contro i moderati arabi e contro il dominio USA sul Medio Oriente.
È comprensibile quindi che i sionisti e gli americani, trascinandosi dietro l’inetta, vile e insignificante Unione Europea, abbiano iniziato a tramare per rovesciare il governo legittimo di Hamas prima, e il governo di Unità Nazionale (nato con l’accordo della Mecca) poi. Lo apprendiamo dagli stessi giornali israeliani o dalle grandi Agenzie di Stampa. (3)
Il primo passo è stato l’imposizione di sanzioni economiche, blocco dei fondi palestinesi, blocco economico di Gaza e Cisgiordania. Quindi si è iniziato a tramare per il rovesciamento armato di Hamas. In questa sporca operazione segreta, iniziata assai presto, l’uomo chiave di Israele e di Bush è stato Mohammad Dahlan.
Questo criminale, responsabile delle forze di sicurezza di Fatah, ha accettato i piani israelo-americani, facendo istruire con dollari Usa (60 milioni) e con istruttori della Cia, diretti dal luogotenente-generale Keith Dayton, giovani disoccupati, e uomini di Fatah. Preparati in Egitto con la complicità dei governi egiziano e giordano questi uomini venivano fatti affluire nella Striscia di Gaza in vari gruppi, piccoli ma ben equipaggiati, in modo da costituire quelle forze che una volta diventate forti e numerose avrebbero dovuto fare contro Hamas quello che invece preventivamente ha fatto Hamas contro Fatah, sventando il complotto ai suoi danni.
I combattimenti striscianti tra Hamas e Fatah a Gaza, che duravano da più di un mese, non erano il segno di una “guerra civile” come ci volevano far credere. Erano le avvisaglie della messa in opera del piano americano-sionista. In questi scontri preparatori, gli uomini di Dahlan hanno sempre avuto la peggio, perdendo molto materiale, oggi in mano ad Hamas. Disperato, Dahlan ha addirittura fatto richiesta a Israele di avere armi più potenti, mortai, lanciagranate e autoblindo. (4) Israele ha rifiutato temendo (come prevedibile) che esse finissero nelle mani degli islamici.
Chi ha attentamente studiato le immagini degli scontri definitivi a Gaza e Rafah, ha potuto notare grande partecipazione di folle accanto ai combattenti di Hamas. Ha potuto notare la partecipazione di molta gente alla cattura dei capi traditori e al loro sbeffeggiamento nelle strade cittadine. Nelle sue operazioni contro gli uomini di Dahlan, Hamas ha riscosso l’appoggio di altre organizzazioni politiche come i Comitati Popolari e organizzazioni e clan familiari patriottici.
Il rapido collasso di Fatah nella Striscia è la prova del totale isolamento dei traditori di Dahlan.
In questa vicenda, Abu Mazen si è dimostrato quello che è, un uomo debole e compromesso. Per qualche tempo ha cercato di difendere il governo di unità nazionale e le istituzioni parlamentari, in cui Hamas e i suoi alleati hanno la maggioranza, infine sotto la minaccia di essere dimesso da Fatah, o peggio, ha ceduto. (5) Ha sciolto il governo legittimo e nominato un governo “di transizione” con uomini di Dahlan, di Fatah e degli americani, presieduto dall’economista Fayyad, altro uomo di Bush. Tutto senza approvazione parlamentare.
È un colpo di Stato. Favorisce il piano strategico israeliano: dividere quel che resta della Palestina.

Prospettive

Ma quello che ora aspetta i Palestinesi è ancora più drammatico. Mentre Usa, Israele e UE (la cosiddetta Comunità Internazionale) si sono affrettati di riconoscere il governo non eletto di Fatah, togliendo le micidiali sanzioni imposte contro un governo democraticamente eletto, Israele si è subito mobilitato per chiudere Gaza in un cerchio di ferro. Blocco delle frontiere e delle esportazioni; niente più forniture di carburante, niente denari delle tasse palestinesi ingiustamente trattenuti e oggi dati ad Abbas. Sembra riuscito il piano di mettere palestinesi contro palestinesi; di affamare e massacrare chi si oppone a Israele con la complicità di chi invece piega il capo.
Abbas non otterrà nulla da Israele, mentre bisogna aspettarsi una nuova vasta campagna militare a Gaza, per distruggere Hamas.
Paradossalmente questi avvenimenti accadono nel momento in cui Israele si trova nella crisi più profonda della sua storia. Basta leggere i commenti al 40° della guerra dei 6 giorni (giugno 1967) per vedere come tutti i commentatori israeliani, identificano in quella “grande vittoria” di Israele la fine delle speranze di pace in Medio Oriente. Doveva mettere al sicuro lo Stato ebraico e invece lo ha reso più odiato e più isolato nella regione. Oggi è più debole di prima.
Tutti insistono sul degrado morale a cui l’esercito e tutta la società israeliana è andata incontro a causa della guerra condotta contro popolazioni civili nei territori occupati nel 1967 e in Libano. A causa dell’occupazione, dicono i commentatori, Israele è diventato uno paese paranoico e violento.
Questi mali, in realtà, hanno le radici nell’ideologia sionista e l’occupazione li ha solo messi a nudo.
Se n’è accorto l’ex presidente della Knesset, Avrahm Burg, il quale, dopo aver preso il passaporto francese ed essere emigrato nel paese del buon vino e dei buoni formaggi, ha dichiarato che “definire lo Stato di Israele come Stato ebraico è la chiave per giungere alla sua fine. Uno Stato ebraico è esplosivo. É dinamite”. Ha quindi ribadito meglio il concetto aggiungendo che la definizione di Israele come Stato “ ‘ebraico-democratico’ è nitroglicerina”. (6)
Avrahm Burg non è Mister Nessuno. É un sionista della prima ora e adesso ha capito che Israele non può essere ebraico e democratico contemporaneamente. O l’uno o l’altro. Se è ebraico, non può concedere uguali diritti ai palestinesi, quindi è uno Stato razzista di apartheid. Se è democratico deve offrire uguali diritti a ebrei e palestinesi e quindi non è ebraico. Uno Stato “ebraico-democratico” è nitroglicerina perché un tale Stato di può realizzare solo con l’espulsione di tutti i palestinesi. Una operazione nazista.
Burg ha capito la contraddizione del sionismo, per questo ha lasciato Israele. Meglio avrebbe fatto a restare nel suo paese e battersi per un unico Stato democratico per ebrei e palestinesi, uno Stato normale come il Sudafrica post-apartheid, come l’Italia o la Francia, sua nuova patria di elezione. Come lui si stanno comportando decine di migliaia di giovani israeliani che chiedono il passaporto dei paesi Europei o degli Stati Uniti e vengono a vivere una vita normale in Occidente. È l’inizio della fine dello Stato sionista.
Lo Stato ebraico, comunque, non sta solo attraversando la sua peggiore crisi morale. Essa porterà indubbiamente alla fine dell’esperimento sionista. Ma le crisi morali necessitano di tempo per giungere a maturazione e portare i frutti definitivi. Israele in crisi potrebbe durare ancora a lungo. Quello che preme sottolineare è invece che, per la prima volta dalla sua fondazione, lo Stato ebraico è entrato in una vera e propria agonia.
Finora gli analisti israeliani hanno sempre messo in rilievo la forza militare di Israele, le sue vittorie lampo, e, in contrapposizione, le cocenti sconfitte degli Stati arabi.
Nell’ultimo anno, il corso degli avvenimenti sembra essersi rovesciato. Nel 2006, il potente esercito israeliano ha subito la prima vera sconfitta della sua storia. La milizia islamica di Hamas ha umiliato Israele portando la guerra sul territorio israeliano e mantenendovela per tutto il corso delle operazioni militari. È un principio militare israeliano quello di fare la guerra sul territorio del nemico, devastandolo il più possibile. L’anno scorso, benché l’esercito sionista avese scatenato una guerra di sorpresa e invaso il Sud del Libano, Hezbollah è riuscita ad inchiodarlo sul terreno per un mese e contemporaneamente colpire profondamente il territorio nemico. Città sono state evacuate, strutture militari distrutte, navi colpite, in Israele.
Alla fine uno dei più potenti eserciti del mondo ha dovuto ritirarsi e chiedere ai paesi amici, Italia e Francia, di andare in Libano per difendere le sue (di Israele) frontiere. Non si era mai visto.
Recentemente una secondo sconfitta, più piccola ma molto più significativa è stata inflitta al mostro dai piedi di argilla. Da Gaza sono partiti e possono riprendere a partire in qualsiasi momento i razzi Kassam verso il territorio israeliano. Israele ha cercato in tutti i modi di fermarli ma non ci è riuscito. Ha invece dovuto evacuare la città di Sderot.
Questa sconfitta è ancora più cocente per la stella di Davide. I palestinesi di Gaza infatti non hanno il retroterra di Hezbollah e i Kassam sono razzi primitivi e artigianali. Eppure hanno inflitto un danno militare e, ancor più, psicologico, che lo Stato più potente del Medio Oriente e lontano dal dimenticare.
Tutto questo interviene mentre gli americani si trovano impantanati in Iraq e mentre in America, per la prima volta si alzano le voci contro la lobby ebraica. Il tempo sembra giocare contro Israele e gli americani.
Siamo certi che la piccola rivincita che Israele e gli americani hanno ottenuto con l’operazione Abu Mazen-Dahlan, sarà di corta durata. Il popolo palestinese saprà riconoscere i suoi veri dirigenti.
I venti della tempesta si calmeranno e allora il sereno non potrà essere lontano. Le condizioni maturano per la costituzione di un solo Stato democratico in Palestina. Nostro compito è quello di isolare Israele e impedire un colpo di testa nucleare sionista, il quale porterebbe certo ad un terribile bagno di sangue ma anche ad una ancora più rapida dissoluzione dello Stato sionista.

[1] Vedi: The Independent on Sunday, 10 giugno 07 , “General who helped redraw the borders of Israel says road map to peace is a lie”, http://news.independent.co.uk/world/middle_east/article2640432.ece .
[2] Abbiamo già affrontato altrove il problema della lobby su cui, malgrado il grande dibattito in America, qui da noi, non giunge voce. Lo faremo nuovamente in uno scritto circostanziato di prossima pubbicazione.
[3] Vedi Ha’aretz, 18 giugno 07, “Hamastan and Fatahland, Ariel Sharon’s Dream”
http://www.haaretz.com/hasen/objects/pages/PrintArticleEn.jhtml?itemNo=871983 ,
Vedi Reuters, 18 giugno 07, “After Gaza, some question who was overthrowing whom”,
http://www.alertnet.org/thenews/newsdesk/L17443574.htm.
[4] Vedi Ha’aretz – 6 giugno 07, “Fatah to Israel: Let us get arms to fight Hamas”,
http://www.haaretz.com/hasen/spages/867987.html .
[5] Vedi Jerusalem Post, 14 giugno 07, “Fatah officials call for Mahmoud Abbas to resign”,
http://www.jpost.com/servlet/Satellite?cid=1181570268148&pagename=JPost/JPArticle/Printer
[6] Vedi: Ha’aretz , 10 giugno 07, "Leaving the Zionist ghetto”,
http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArt.jhtml?itemNo=868385&contrassID=2&subContrassID=14 .

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Una questione di percentuali.

Da un gruppo di discussione su Yahoo riporto questa semplice argomentazione di tipo non revisionista bensì semplicemente realista, fatta da chi - come il sottoscritto - ama le argomentazioni di tipo statistico-numerico.
Supponendo che l'Olocausto sia realmente, interamente ed esattamente accaduto come i media correntemente lo hanno presentato.
Allora potremmo dire che quaranta milioni di Tedeschi-nazisti hanno sterminato sei milioni di ebrei.
Che è un rapporto pari al 15%.
Adesso compariamo questa Tragedia di 62 anni fa con le vittime odierne dello Stato di Israele, altrimenti noto come Israele-sionista.
Quattro milioni di Israeliani hanno ucciso (in 60 anni) circa 120.000 Palestinesi e ne hanno esiliati altri 850.000, che sono divenuti oggi circa due milioni di profughi e altri due milioni di morti viventi, quali sono oggi i Palestinesi sotto occupazione.
Il che ammonta a circa 4.850.000 vittime.
Che conduce a un rapporto pari al 121%.
Se l'umanità o, piuttosto, la disumanità potesse essere calcolata o misurata aritmeticamente, vorrebbe dire che la Germania nazista ha prodotto il 15% di crimini e lo Stato sionista di Israele ne ha prodotto il 121% e/o che il Sionismo è 8 volte peggiore del Nazismo.
Si aggiunga a questa tragedia il fatto che i Sionisti sono ancora instancabilmente attivi, come possiamo facilmente vedere in televisione, ogni giorno.
Raja Chemayel

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7 giugno 2007

Viva gli assassini!

Un fine umorista di origine egiziana ha di recente pubblicato un libro in cui, partendo dalla propria esperienza autobiografica, arriva a maturare il convincimento che “la difesa della sacralità della vita coincide con la difesa del diritto all’esistenza da parte di Israele”.
Peccato che di questa equivalenza non fossero informati i soldati israeliani, e in particolare quelli posizionati nei pressi dell’ex insediamento colonico di Dugit, che per difendere in concreto il diritto di Israele ad esistere e a proteggersi non hanno esitato a uccidere due ragazzini incolpevoli ed innocenti.
O forse, per meglio dire, peccato che il valore e la “sacralità” della vita non vengano in considerazione quando le vite in questione sono quelle di qualche arabo cencioso.
Secondo la ricostruzione dell’Ong palestinese Pchr, venerdì 1 giugno, intorno a mezzogiorno, quattro ragazzini palestinesi stavano tranquillamente giocando con i loro aquiloni vicino alla spiaggia; ad un certo punto, uno degli aquiloni è caduto vicino alla zona in cui era posizionata una unità di fanteria di Tsahal, i cui soldati non hanno esitato ad aprire il fuoco contro un così ghiotto bersaglio.
In questa maniera assurda hanno trovato la morte Ahmad Abu Zubeida e Zaher al-Majdalawi, entrambi 14enni ed entrambi provenienti dal vicino campo profughi di Jabalya, mentre il terzo componente del gruppo, il 16enne Mohammed al-Atawna, è rimasto lievemente ferito alla schiena ed il quarto è riuscito a scappare.
La versione israeliana, naturalmente, diverge leggermente e racconta che “figure sospette” stavano cercando di piazzare un ordigno esplosivo nei pressi della barriera di “sicurezza” e che i soldati, prima di sparare, hanno intimato regolarmente l’alt.
Va’ da sé che si tratta di una versione poco credibile, tanto è vero che il giovane al-Atawna, trasportato in Israele per le prime cure, è stato successivamente trasferito in un ospedale di Beit Lahia senza alcuna accusa a suo carico: naturalmente era disarmato, come gli altri suoi due, più sfortunati, amici.
Appare incredibile come, in pieno giorno, un esercito ben addestrato e, si suppone, dotato di binocoli e di altri dispositivi di avvistamento possa scambiare dei ragazzini per dei “terroristi” e un aquilone per un ordigno esplosivo.
Appare incredibile che - ogni volta che un Palestinese muore nei pressi della barriera di “sicurezza” o in prossimità degli insediamenti smantellati - ciò accada perché stava cercando di piazzare una bomba sotto le recinzioni.
Una bomba sotto la barriera, e perché? Per immigrare clandestinamente in Israele senza farsi notare? Per distruggere una porzione di muro o di reticolato? Per aprire la strada alle agguerritissime truppe palestinesi e permettere loro di invadere Israele?
Il vero è che le aree di territorio (palestinese) immediatamente adiacenti al muro di “sicurezza” – dichiarate unilateralmente da Israele “no-go zones” per i Palestinesi – si sono in realtà trasformate in vere e proprie “zone della morte”, in cui entrare equivale ad andare incontro ad una morte pressoché certa (per alcuni casi precedenti vedi qui e qui).
Ed in verità, se ai Palestinesi bastasse evitare le zone con vista sul muro per evitare danni, andrebbe ancora bene; il problema, purtroppo, è che in Palestina non si è sicuri della propria incolumità nemmeno restando chiusi in casa.
Così ieri mattina - verso le prime luci dell’alba – alcuni soldati israeliani, nel corso di un’operazione di arresto, hanno fatto irruzione in una casa di Hebron sparando all’impazzata, uccidendo il 67enne Yehia al-Jabari e ferendo altri sette componenti della sua famiglia, compresa la moglie 65enne che versa in gravi condizioni in ospedale per una ferita alla testa.
Naturalmente, anche qui, le versioni delle due parti divergono lievemente, con i Palestinesi che sostengono che i soldati israeliani hanno aperto il fuoco senza motivo, mentre fonti di Tsahal affermano, invece, che i soldati hanno aperto il fuoco solo dopo essere stati attaccati dai padroni di casa con lanci di oggetti (persino di una bombola di gas) e a seguito del tentativo di un familiare di al-Jabari di strappare il fucile ad un israeliano.
E già, sembra di vederla la scena, un anziano 67enne che si scaglia contro i soldati israeliani brandendo sopra il capo una bombola di gas, mentre la moglie, più giovane ed arzilla, cerca di strappare il fucile dalle mani del soldato che glielo punta contro.
Voi ci credereste? Io non penso proprio (naturalmente la domanda non è rivolta né agli amici di Israele né alla cricca di informazione corretta e similari).
L’alibi menzognero di Israele a giustificazione della recente ondata di omicidi - purtroppo preso per buono dalla comunità internazionale – è rappresentato, come è noto, dal lancio di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza contro la cittadina di Sderot.
A partire dal 16 maggio e fino al 1° giugno di quest’anno, secondo i dati dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), 321 Qassam sono stati sparati contro Sderot e le aree circostanti, causando due vittime civili e 18 feriti; di contro, nello stesso periodo, 68 incursioni aeree della Iaf e vari raid terrestri dell’esercito israeliano sono costati ai Palestinesi ben 53 vittime, inclusi 7 bambini, e oltre 185 feriti (tra cui 10 bambini).
Questo basterebbe a dar conto della “moderazione” mostrata da Israele e della sproporzione e della disumanità della sua “risposta”.
Ma questi ultimi delitti di cui si è macchiato Tsahal, e di cui abbiamo parlato sopra, possono giustificarsi come “reazione” al lancio dei Qassam? E cosa c’entrano due vecchietti di Hebron con i razzi che partono dalla Striscia di Gaza?
Ma è il concetto stesso di “risposta” da parte dell’esercito israeliano che rappresenta una totale falsità, una menzogna propagandistica che riesce a passare solo grazie all’appoggio pressoché incondizionato dei media e dei politici di casa nostra, e per dimostrarlo basta andare a guardare le statistiche dei morti e dei feriti delle due parti nei primi quattro mesi dell’anno, quando cioè Israele non aveva ancora la necessità di “rispondere” ad alcunché.
Ebbene, nel periodo gennaio – aprile 2007, l’esercito israeliano aveva già assassinato ben 52 Palestinesi, di cui 35 nel West Bank (5 bambini) e 17 nella Striscia di Gaza (4 bambini), mentre i Palestinesi feriti ammontavano a 628, di cui 590 nel West Bank (87 bambini) e 38 nella Striscia di Gaza (10 bambini).
Nello stesso periodo, gli Israeliani uccisi sono stati 4 (tutti soldati dell’esercito di occupazione) e i feriti sono stati 84, di cui 42 civili, quasi esclusivamente coloni (vedi OCHA-oPT Protection of civilians – Report to the end of April 2007).
Come ben si vede, dunque, prima che iniziasse il massiccio lancio di razzi Qassam contro Sderot non vi era certo una tregua in corso; al contrario, Israele non aveva mai cessato la sua lenta ma indefessa opera di massacro di una popolazione innocente e pressoché inerme.
Come ben si vede, piuttosto, sono stati i Palestinesi con i loro Qassam a rispondere, in maniera certo contraria al diritto umanitario ma disperata e comprensibile, allo strapotere militare, alle devastazioni e ai crimini impunemente perpetrati dall’esercito israeliano.
Si aggiunga, peraltro, che le statistiche mostrano come l’azione di Tsahal, nel periodo considerato ma anche successivamente, si sia concentrata soprattutto sul West Bank, da cui non risulta che sia stato mai lanciato un bel niente verso il territorio israeliano, neanche qualche pietra.
Come possa Magdi Allam - e purtroppo tanti al pari di lui in Italia e in Europa – definire Israele come un “faro di civiltà” nel Medio Oriente resta dunque un mistero, considerato che l’unica cosa che Israele riesce ad esportare nella regione è la cieca e brutale forza delle armi, l’oppressione, la devastazione, il furto delle risorse naturali, la morte.
Israele, piuttosto, assomiglia con molta maggiore verosimiglianza al portatore di una grave malattia infettiva, che già devasta e uccide il popolo palestinese e rischia di contagiare l’intera regione, mentre la comunità internazionale dei medici, accorsa al capezzale del paziente palestinese, si limita a nutrirlo e a mantenerlo in vita, rifiutandosi però di adottare le necessarie cure per combattere la malattia e isolarne il portatore, ed anzi rimproverando aspramente il paziente se solo osa cercare di curarsi da sé, al di fuori delle misure previste dai protocolli medici e con mezzi artigianali che risultano essere troppo “aggressivi” per il portatore stesso.
Capisco bene come oggi sia vantaggioso schierarsi al fianco di Israele, vuoi per motivi di immagine e di visibilità, vuoi per motivi di opportunità politica, vuoi magari per motivi più terra terra, legati alla vile pecunia.
Capisco, dunque, ma davvero ne resto stupito ed amareggiato perché, mai come oggi, gridare “viva Israele!” equivale a gridare “viva gli assassini!”.

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