28 settembre 2005

La strage degli innocenti.

Uno dei simboli più evidenti e più tragici dell’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi è costituita dai checkpoints.
Questi posti di blocco – a volte fissi a volte temporanei e inaspettati – hanno conseguenze devastanti per la vita e l’economia dei Palestinesi, impediscono la libera circolazione di persone e merci, vietano l’accesso della popolazione agli ospedali e alle cure mediche, spesso sono teatro di umiliazioni e di violenze fisiche, ben testimoniate da organizzazioni per i diritti umani quali Machsom Watch.
Ma la conseguenza più drammatica di questi checkpoints è evidenziata da un rapporto dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu (OHCHR) datato 31 agosto 2005, secondo cui, nel periodo compreso tra il settembre del 2000 ed il dicembre del 2004, 61 donne palestinesi sono state costrette a partorire senza alcun aiuto ai checkpoints israeliani e, in conseguenza di ciò, ben 36 neonati sono morti, morti per la disumanità e la barbarie dei valorosi soldati di Tsahal.
Tra le tante testimonianze allegate, spicca quella relativa alla morte di una neonata nell’agosto del 2003 al checkpoint situato vicino al villaggio di Salem (Governatorato di Nablus); anche in quella occasione alla madre fu impedito di passare il posto di blocco, ed il padre della bambina fu costretto a tagliare il cordone ombelicale con una pietra, senza l’aiuto e, anzi, tra la totale indifferenza dei soldati addetti al checkpoint.
Come se ciò non bastasse, un’altra conseguenza indiretta di tale situazione è costituita dal notevole incremento delle nascite in casa; molte donne palestinesi infatti (si stima il 30% del totale), temendo di rimanere bloccate ai checkpoints, preferisce partorire tra le mura domestiche, aumentando il rischio di complicazioni e innalzando ulteriormente il livello della mortalità infantile.
Ancora una ennesima prova della ferocia e della barbarie di un esercito senza più alcun freno morale, di un Governo che perpetua un’occupazione militare illegittima, di un intero popolo che si gira dall’altro lato e fa finta di non vedere la sofferenza e la morte che i suoi figli in divisa provocano al popolo Palestinese.
Di tutto questo nessuna notizia sui media, che pure tanto spazio dedicano – e giustamente – al lancio dei missili artigianali Qassam su Sderot, che hanno provocato alcuni feriti leggeri; in Italia - se sbaglio i lettori vorranno cortesemente correggermi - questa notizia l’ha data solo il Manifesto, io l’ho appresa dalla Bbc.
In coda all’articolo ho messo il link al documento dell’OHCHR, se qualcuno vorrà potrà inviarlo a qualche amico, oppure magari a Magdi Allam, per inserirlo nel dossier di accompagnamento alla proposta di conferire il Nobel per la pace ad Ariel Sharon.
Questo rapporto (n.A/60/324 del 31.8.2005) è stato redatto a seguito della risoluzione della Commissione per i Diritti Umani dell’Onu n.2005/7 del 14.4.2005, nelle cui premesse, al quarto comma, si condanna Israele per “… il diniego di accesso agli ospedali da parte di Israele per le donne Palestinesi in stato di gravidanza, che le costringe a partorire ai checkpoints in condizioni, ostili, disumane e umilianti…”.
Questo è il trattamento che gli Israeliani riservano al popolo Palestinese, questo è il volto feroce e disumano di un Paese che ancora qualcuno osa definire un bastione di civiltà nel Medio Oriente.

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15 settembre 2005

Ancora civili innocenti massacrati dall'esercito di Israele.

Nella notte tra il 24 ed il 25 agosto di quest’anno, nel campo profughi di Tul Karm, in Cisgiordania, l’esercito israeliano metteva in atto l’ennesimo raid in territorio palestinese utilizzando una delle sue unità di elite, la Duvdevan, soldati usualmente utilizzati per compiere azioni sotto copertura (vedi “Tanto per non perdere l’abitudine”, 25 agosto).
Il risultato dell’azione – secondo l’entusiastico comunicato ufficiale di Tsahal – era stato il seguente: “Cinque terroristi del network del terrore responsabile degli attacchi allo Stage Club ed all’area commerciale di Netanya sono stati uccisi a Tul Karm”; la solita incursione dei soldati israeliani nei territori palestinesi, dunque, notizia riportata in breve nella sezione esteri dei maggiori quotidiani, nessuno a ricordare – come al solito – che tali raids sono comunque illegali, ma vabbé, tutto si giustifica in nome alla lotta al terrorismo!
Senonché un’inchiesta condotta successivamente ai fatti dai giornalisti del quotidiano Ha’aretz e dagli attivisti di B’tselem ha dimostrato che, in realtà, ad essere stati uccisi dai valorosi soldati di Tsahal erano stati cinque Palestinesi disarmati e completamente estranei ai fatti, tre studenti di liceo 17enni, Anas Abu Zeina, Mahmoud Ahadib e Mohammed Othman, un simpatizzante di Fatah, il 18enne Majdi Aiya, ed il 28enne Adel Abu Khalil, l’unico in qualche modo ricollegabile alla Jihad islamica.
Secondo la versione dell’accaduto rilasciata dal portavoce dell’esercito israeliano, l’operazione della Duvdevan doveva consistere in un “tentativo di arresto” (!) di alcuni noti e pericolosi esponenti del terrorismo palestinese (si sarebbe dovuto trattare, in particolare, di Abu Khalil e di Ribhi Amara, di Hamas); durante l’operazione i soldati avrebbero circondato un gruppo di uomini, di cui alcuni armati, avrebbero intimato l’alt e sparato alcuni colpi di fucile in aria, e solo dopo, a fronte del tentativo di fuga dei ricercati, li avrebbero uccisi, mentre altri terroristi avrebbero sparato contro i soldati israeliani e avrebbero lanciato anche alcune bottiglie Molotov.
Secondo i testimoni palestinesi, invece, i soldati di Tsahal non avrebbero aspettato neanche un attimo prima di sparare, ed anzi, in alcuni casi, avrebbero “confermato la morte” dei feriti sparando loro a distanza ravvicinata.
Quel che è certo e indubitabile, dopo l’inchiesta di Ha’aretz, è che a morire in un maledetto cortile del campo profughi di Tul Karm sono stati cinque Palestinesi e che nessuno di loro era armato.
Anas Abu Zeina, uno studente di 17 anni, quella sera era andato a trovare il suo compagno Mohammed Othman ed altri amici per portare l’invito al matrimonio di suo fratello, che si sarebbe dovuto celebrare alcuni giorni appresso; nel tempo libero, lavorava al mercato di Tul Karm presso un fruttivendolo, non era mai stato arrestato e non aveva alcun collegamento con organizzazioni terroristiche: è morto in un vicolo, dove aveva cercato di sfuggire ai suoi boia.
Neanche Mohammed Othman era noto come appartenente ad alcuna organizzazione, suo padre lavora in Israele nel settore edilizio, e lui si trovava lì a chiacchierare e a mangiare semi di girasole, abitando poco distante: è morto in ospedale per le ferite riportate.
Mahmoud Ahadib era un ragazzo epilettico in cura presso un ospedale di Haifa, e fino a poco tempo prima soffriva di incontinenza; abitava nell’edificio immediatamente adiacente al luogo dell’assassinio: è morto sotto gli occhi di sua madre.
Majdi Atiya apparteneva ad una famiglia simpatizzante di Fatah, come metà degli abitanti del campo, ma mentre suo padre era noto come attivista (che non vuol dire terrorista!), lui non lo era affatto: è morto falciato mentre cercava di scappare.
Abu Khalil era l’unico ad essere inserito nella lista dei ricercati per la zona di Tul Karm, ma da qualche settimana era passato nelle fila dell’Anp, tanto da dormire presso una caserma della polizia per avere protezione: è morto fulminato sul posto, forse giustiziato a distanza ravvicinata.
Nessuno di queste persone – nemmeno Abu Khalil – era armata.
Fonti non ufficiali dell’esercito israeliano hanno riferito ai giornalisti di Ha’aretz che non è possibile sapere con certezza se i Palestinesi uccisi erano o no armati, perché l’Idf “non è stata la prima a raggiungere” i corpi delle vittime: giustificazione risibile, perché oltre agli uomini della Duvdevan c’erano altre unità di supporto, e per alcuni minuti i soldati israeliani hanno sparato all’impazzata tutt’intorno, così da non permettere ad alcun Palestinese di avvicinarsi.
L’Idf nega con decisione, poi, che vi sia stata alcuna “conferma di morte” da parte dei suoi soldati, ma un ufficiale superiore israeliano, in condizioni di anonimato, ha rivelato ad Amos Harel di Ha’aretz che, in un caso almeno, uno dei feriti è stato ucciso a breve distanza nel timore che stesse per tirare fuori un’arma: almeno uno dei feriti, insomma, è stato giustiziato sommariamente.
La stessa portavoce di B’tselem, Sarit Michaeli, ha successivamente dichiarato: al The NewStandard: “… questi metodi sollevano gravi sospetti (che si tratti) di una esecuzione”.
Continuano, dunque, gli assassinii di civili innocenti ad opera dei valorosi soldati di Tsahal, e continuano anche dopo il ritiro “epocale” dei coloni israeliani da Gaza, per il quale Sharon si aspetta in questi giorni applausi e complimenti alle Nazioni Unite.
Chissà se qualcuno gli chiederà conto di questo ennesimo massacro di persone inermi; pare molto difficile se persino la quasi totalità dei media ha ritenuto di dover ignorare la notizia, e di non riportare il contenuto delle investigazioni di un coraggioso gruppo di giornalisti e attivisti per i diritti umani, che ha inchiodato ancora una volta l’esercito israeliano alle sue responsabilità, quella di aver assassinato spietatamente e senza alcun motivo cinque Palestinesi disarmati, quella altrettanto grave e vergognosa di aver insistito e di insistere ancora a definirli e ad infamarli come terroristi.
Eh già, terroristi come Anas Abu Zeina, che portava agli amici gli inviti al matrimonio del fratello, uno studente 17enne che lavorava e studiava, terroristi come Mohammed Othman, suo compagno di liceo, terroristi come il povero Mahmoud Ahadib, un povero ragazzo malato di epilessia spirato sotto gli occhi di sua madre.
E i giornali e le tv italiane, con gran clamore e indignazione, parlano solo delle (ex) sinagoghe bruciate a Gaza, un fatto sconcertante e inconcepibile.
Evidentemente, l’assassinio a sangue freddo di cinque civili disarmati ad opera dei “travestiti” della Duvdevan è considerato un fatto normale ed eticamente corretto; naturalmente, a condizione che a morire siano i Palestinesi!
Ieri il Capo di Stato Maggiore israeliano Dan Halutz ha “assolto” i soldati responsabili della sanguinosa operazione di Tul Karm, e non c’era alcun dubbio in proposito.
Come già si è detto (“Assassini puniti? No, promossi!” – 10 agosto), il livello di impunità per i soldati israeliani che uccidono civili palestinesi inermi e innocenti è pressoché totale.
Peccato che non in tutto il mondo la pensino allo stesso modo, e che ormai i generali di Tsahal che vanno all’estero rischiano di essere arrestati per crimini di guerra: è successo domenica, ad esempio, al generale Doron Almog all’aeroporto londinese di Heatrow.
Soltanto in Israele – fino ad oggi – i giudici sono stati un po’ distratti!

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7 settembre 2005

Buone maniere e brutalità dell'esercito israeliano.

Il recente sgombero forzato dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro piccoli insediamenti del West Bank si è svolto tutto sommato in maniera tranquilla, nonostante l’opposizione di alcuni coloni irriducibili degli insediamenti del sud della Striscia, di ispirazione religiosa, e di alcuni supporters appositamente venuti dalle colonie della Cisgiordania per contrastare il disengagement plan fortemente voluto da Sharon.
Con una copertura mediatica impressionante da parte delle tv di tutto il mondo, quello che è risaltato è stato l’approccio soft dell’esercito e delle forze di polizia nell’adoperarsi per lo sgombero dei coloni, anche di quelli più violenti.
Tutti sono stati accompagnati più o meno gentilmente sui pullman predisposti per l’evacuazione, nessun colono è stato ferito, nessun colpo è stato sparato, ed anzi spesso i soldati hanno solidarizzato con chi doveva abbandonare gli insediamenti, spargendo lacrime copiose, calde e telegeniche.
Unanimemente favorevoli sono stati, in Israele ed all’estero, i commenti sull’operato di soldati e poliziotti durante l’evacuazione di Gaza, anche e soprattutto perché alcuni coloni non sono stati davvero “carini” nei loro confronti, definendoli dei “nazisti” e tirandogli addosso escrementi, vernice, acido e quant’altro.
Peccato che non sempre sia così, e che in occasione di altre manifestazioni di protesta il comportamento dei soldati di Tsahal non si dimostri altrettanto tranquillo ed accomodante.
Venerdì 2 settembre, ad esempio, nei pressi della località di Bil’in, in Cisgiordania, era in corso una delle tanti manifestazioni di protesta dei residenti palestinesi e di pacifisti israeliani e di altre nazionalità contro la costruzione del muro che dovrebbe essere di “sicurezza”, ma che in realtà serve anche e soprattutto a sottrarre ulteriori territori ai Palestinesi per espandere gli insediamenti esistenti e addirittura, in questo caso, per costruire un nuovo insediamento, che dovrebbe prendere il nome di Nahlat Heftziba.
Ora, la manifestazione non solo era più che legittima in quanto, tra l’altro, ad essere oggetto di espropriazione sono più della metà dei terreni del villaggio, ma soprattutto era assolutamente pacifica, eppure i valorosi soldati di Tsahal – che nel frattempo hanno evidentemente smarrito il loro self control – hanno caricato i manifestanti senza alcuna esitazione, sparando proiettili rivestiti di gomma, granate assordanti e lacrimogeni, picchiando e prendendo a calci i manifestanti (vi sono stati una dozzina di feriti, tra cui un giornalista francese), procedendo ad undici arresti.
Ieri sera un gruppo di giovani palestinesi, circa 200, si erano diretti verso l’insediamento di Neveh Dekalim, il più grande di quelli evacuati nella Striscia di Gaza, quando sono stati affrontati dai tank dell’esercito israeliano che, in risposta ad un lancio di pietre, hanno iniziato a sparare senza alcuna esitazione: risultato, un morto – il 24enne Nimar Saudoni – e due feriti.
Ancora una volta, due pesi e due misure vengono applicati ad arabi ed ebrei (ma non a quelli pacifisti!): per i coloni guanti di velluto e gentilezza, per gli altri botte, violenza, colpi di fucile.
E, beninteso, nessun indennizzo e neanche una lacrimuccia.

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5 settembre 2005

Un'odiosa discriminazione.

Il 4 agosto di quest’anno, nella cittadina israeliana di Shfaram, un giovane estremista della destra religiosa, il diciannovenne Eden Natan-Zada, saliva su un autobus ed apriva il fuoco contro i passeggeri, uccidendo quattro arabi israeliani e ferendone altri 12 (vedi ”La via di Israele verso la pace”).
Natan-Zada proveniva dall’insediamento di Tapuah, uno dei più estremisti del West Bank, e aveva studiato nella locale yeshiva, una di quelle scuole talmudiche, cioè, che quanto a fanatismo talvolta nulla hanno da invidiare alle tanto vituperate madrasse islamiche.
Ora, sebbene sin da subito persino il Primo Ministro Ariel Sharon avesse parlato dell’atto sconsiderato di un terrorista, in questi giorni l’apposito comitato interministeriale ha negato alle vittime di questo vile eccidio lo status di vittime del terrorismo, sulla base di una interpretazione letterale della cd. “Victims of Enemy Action Law”.
Questa legge, infatti, attribuisce lo status di vittime del terrorismo, ai fini dell’erogazione dei previsti risarcimenti, soltanto ai cittadini israeliani uccisi o feriti da “membri di una organizzazione ostile ad Israele” e, più specificatamente, di una organizzazione che sia “ostile alla esistenza dello Stato”.
Si tratta di una distinzione non di poco conto, in quanto alle vittime di attacchi terroristici in Israele normalmente sono garantiti dei vitalizi che, per vedove e orfani, possono arrivare a 9.700 sheckels al mese, mentre alle sfortunate vittime della follia messianica di Natan-Zada toccherà soltanto un risarcimento una tantum.
Ma si tratta soprattutto di una questione di principio, in quanto è fuori dalla realtà - o in mala fede - chi non riconosca come atti di terrorismo quelli posti in essere dai coloni israeliani e dagli attivisti dell’estrema destra religiosa, e ne sono esempi non solo le recenti stragi di Shfaram o di Shiloh, ma anche, ad esempio, l’eccidio della Grotta dei Patriarchi perpetrato da Baruch Goldstein o l’assassinio di Rabin, tutti atti mirati a seminare il terrore, a fomentare l’odio, a sabotare ogni minimo passo che, oggi come ieri, stato mosso sulla via della pace.
Si perpetua, così , un’altra odiosa discriminazione tra le vittime del terrorismo arabo e le vittime di atti del terrorismo ebraico, siano essi posti in essere da membri di organizzazioni terroristiche (il Kach nel caso di Natan-Zada) o da singoli ebrei accecati da moventi pseudo-religiosi (come nel caso della strage di Shiloh).
Vale la pena, a questo proposito, riportare le parole di Nazia Hayek, fratello di una delle povere vittime di Shfaram, il 55enne Nader Hayek: “…questa decisione ci dice che, secondo la legge, quello che è accaduto a Shfaram non è né terrorismo né un atto di ostilità, ma un semplice incidente in cui ci sono stati morti e feriti… Ma che tipo di messaggio così si manda all’opinione pubblica, specialmente a quelli che la pensano come Natan-Zada? Che è permesso uccidere gli Arabi e non è terrorismo?”.
Parole come pietre, dunque, che mostrano tutta la rabbia di colui al quale viene ucciso uno stretto congiunto senza che gli vengano attribuiti gli stessi diritti che spettano agli ebrei israeliani.
Parole piene di rabbia e di amarezza, pronunciate da chi vede ucciso un proprio caro e viene preso in giro da chi considera questa morte assurda ad opera di un terrorista fanatico alla stessa stregua di un normale incidente sul lavoro.
Il Parlamento israeliano, in realtà, avrebbe già da tempo potuto porre rimedio a questa ennesima discriminazione a danno degli arabi israeliani, sollecitato più volte in tal senso, a partire dal 1994, dai parlamentari dei partiti arabi in seno alla Knesset, al fine di modificare la legge sulle vittime del terrorismo riconoscendo come tali le persone rimaste vittime della violenza di ispirazione politica e/o nazionalista in genere, ma la Knesset non ha mai ritenuto fino ad ora di dover intervenire.
Nella riunione di gabinetto di ieri, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha in realtà incaricato il proprio Ministro della Giustizia di preparare un emendamento alla legge, mirante a riconoscere alle vittime di Shfaram gli stessi risarcimenti previsti per le vittime di atti del terrorismo, ma è lecito dubitare della sua rapida approvazione da parte del Parlamento israeliano.
Di recente, infatti, proprio la Knesset ha approvato un emendamento alla “Civil Wrongs (Liability of the State) Law”, che impedisce pressocché completamente ai Palestinesi di presentare azioni legali di risarcimento per danni causati dall’esercito israeliano.
Il nuovo emendamento, infatti, approvato nel luglio di quest’anno, secondo la denuncia di nove organizzazioni per la tutela dei diritti umani (tra cui Rabbis for Human Rights e B’tselem) non attribuisce ai Palestinesi il diritto ad alcun indennizzo nemmeno nel caso di sparatorie illegali, abusi e trattamenti degradanti ai check points, violenza fisica.
Si tratta, anche qui, di una clamorosa discriminazione, in quanto si attribuisce il diritto o meno a richiedere un risarcimento sulla base dell’identità della vittima anziché sulla sostanza del reclamo.
E ciò assume una valenza ancora maggiore laddove si consideri che, secondo B’tselem, nel periodo 29.9.2000 – 30.6.2005, su di un totale di 3.185 Palestinesi uccisi nei Territori Occupati, almeno 1.722 (il 54%!) erano civili disarmati e che non partecipavano in alcun modo a scontri armati; a fronte di ciò, soltanto in 6 casi (sei!) le investigazioni condotte dall’Idf hanno condotto alla condanna di soldati dell’esercito israeliano (vedi “Assassini puniti? No, promossi!”).
Rovesciando le affermazioni di Nazia Hayek potremmo allora domandarci: che tipo di messaggio si manda in questo modo ai Palestinesi, che possono essere maltrattati, vessati, uccisi pressoché impunemente dai soldati israeliani senza che nessuno abbia niente da ridire e senza nemmeno il diritto di vedere il colpevole punito e di ottenere un risarcimento?
E in queste condizioni, l’obiettivo della pace si avvicina davvero, nonostante l’esodo “epocale” dei coloni israeliani da Gaza?
Spesso c’è chi parla di Israele come di un “faro” di democrazia nel Medio Oriente; a costoro si vorrebbe ricordare che democrazia non significa soltanto libere elezioni, ma in una nazione democratica (e civile) a tale connotato dovrebbe necessariamente aggiungersi quello del rispetto dell’uguaglianza tra diverse razze e religioni, il rispetto dei diritti umani, l’osservanza del diritto internazionale.
E tutto questo, oggi, non sempre sembra presente in Israele.

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