16 giugno 2006

Belve assassine.

Mentre l’Occidente “civilizzato” continua a chiedere ad Hamas di rinunciare alla violenza, Israele – che la violenza la utilizza nei Territori occupati come pratica quotidiana – può continuare indisturbato a porre in essere i suoi assassinii e i suoi crimini di guerra senza ormai incontrare più alcun ostacolo politico o morale, interno o internazionale, in un crescendo impressionante che, nel giro di una decina di giorni, ha visto le belve assassine di Tsahal scatenarsi e provocare un vero e proprio bagno di sangue.
Un resoconto di cronaca sommario delle valorose gesta israeliane può iniziare da sabato 3 giugno quando, verso le 7 della sera, l’esercito israeliano ha condotto l’ennesimo raid nel West Bank ed è entrato in forze nella città di Tulkarm e nel vicino campo profughi, sparando all’impazzata e a casaccio contro varie case di civile abitazione ed uccidendo il 60enne Fakhri Mustafa al ‘Aarda, un poveraccio che certamente non era sceso in strada a tirare pietre ai soldati.
Ignoti restano i motivi del raid, in quanto nessun arresto è stato effettuato, né le autorità militari israeliane hanno ritenuto di dover fornire alcuna informazione al proposito.
Lunedì, 5 giugno, l’aviazione israeliana ha eseguito un nuovo assassinio “mirato” nella Striscia, sparando due missili contro un’autovettura che transitava sulla Salah al-Din road, a est di Jabalya, con a bordo quattro membri dei Comitati di Resistenza Popolare; due militanti, il 26enne ‘Emad Mohammed ‘Asaliya ed il 28enne Majdi Hammad, sono rimasti uccisi sul colpo e gli altri due sono rimasti feriti, al pari di due civili che si trovavano nei pressi.
Mercoledì 7 giugno, intorno alle 21:00, tre Palestinesi sono entrati nella cd. "dead zone", la striscia di terra immediatamente adiacente alla barriera di separazione tra Gaza e il territorio israeliano, nel tentativo di entrare illegalmente in Israele, ma sono stati subito fatti oggetto di colpi di fucile e cannonate dei tank provenienti dalle postazioni di Tsahal.
I tre poveracci, vistisi scoperti, hanno tentato di scappare, cercando rifugio in un’area adiacente ad una postazione tenuta dagli uomini della sicurezza palestinese, ma gli Israeliani non si sono lasciati commuovere ed hanno continuato il cannoneggiamento.
Con il risultato che i tre Palestinesi non hanno avuto scampo e i loro corpi sono stati devastati dalle cannonate israeliane, ma che è rimasto ucciso anche un membro delle forze di sicurezza palestinesi, mentre un suo collega è rimasto gravemente ferito dalle schegge; in aggiunta, altri quattro civili che abitavano nella zona sono rimasti feriti nell’azione, e tra essi anche un bambino di 5 anni.
Giovedì 8 giugno, poco prima della mezzanotte, un ennesimo raid “mirato” dell’aviazione israeliana nei dintorni di Rafah ha assassinato il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Jamal Abu Samhadana, insieme ad altri tre militanti dell’organizzazione, mentre fonti ospedaliere parlano di un numero di feriti almeno pari a dieci.
Venerdì 9 giugno, intorno alle 15:00, l’aviazione israeliana ha tentato un nuovo assassinio “mirato”, in una zona a est di Beit Hanoun, ai danni di un gruppo di attivisti dei Comitati di Resistenza Popolare; il missile lanciato dall’aereo israeliano ha però mancato il bersaglio, riuscendo soltanto a ferire uno dei militanti, subito ricoverato all’ospedale El-Awda di Jabalya.
Qualche minuto più tardi, tre dei suoi parenti (tra cui due fratelli) si sono recati in ospedale per sincerarsi delle condizioni del ferito ma, sulla via del ritorno, l’auto sulla quale viaggiavano è stata colpita in pieno da un altro missile aria-terra: hanno così trovato la morte il 41enne Khaled El-Za’anin e i due fratelli Basil e Ahmed El-Za’anin, rispettivamente di 26 e 22 anni.
In un separato raid aereo, qualche ora più tardi, tre militanti di Hamas sono stati lievemente feriti e, verso sera, l’aviazione israeliana ha ricominciato a sorvolare i cieli di Gaza, attuando l’odiosa pratica delle cd. “sonic bombs”, le ripetute rotture del muro del suono a bassa quota, che creano terrore ed ansietà nella popolazione della Striscia, soprattutto nei bambini.
Ma l’azione israeliana più atroce e disumana era già accaduta intorno alle 16:40, quando un proiettile di un obice israeliano da 155 mm. è stato sparato contro la spiaggia di Sudanyya – affollata come ogni venerdì dai Palestinesi in cerca di un po’ di fresco e di riposo – esplodendo proprio in mezzo alla gente e facendo strage dei poveri e ignari bagnanti.
Sette i morti, tutti appartenenti alla stessa famiglia: Ali Issa Ghalya, 49 anni, la moglie Ra’eesa, 35 anni, i loro figli Haitham, 1 anno, Hanadi, 2 anni, Sabrin, 4 anni, Ilham, 15 anni, e Alia, 17 anni; 32 i feriti, e tra loro 13 bambini, alcuni in condizioni gravissime.
Chi ha avuto la fortuna (o la sventura, se volete) di poter guardare i filmati e le foto di questo crimine orrendo e bestiale non potrà mai dimenticare le scene di strazio, di disperazione, di morte: la bambina che piange e si dispera accanto al corpo del proprio padre riverso sulla sabbia, Ra’eesa Ghalya e uno dei suoi piccoli morti uno accanto all’altra, un bambino ferito che grida per il dolore e il terrore, un Palestinese che mostra un tovaglia zuppa di sangue, una tovaglia sulla quale, qualche attimo prima, della povera gente stava allegramente facendo un picnic.
Un crimine di guerra come quello di Sudanyya, di tutta evidenza, è un po’ troppo anche per gli ebrei, che pure ci hanno abituato a “prodezze” di questo genere, e dunque l’esercito israeliano ha condotto un’accurata indagine sull’accaduto, conclusa a tempo di record escludendo ogni responsabilità di Tsahal sull’accaduto!
A parte ogni considerazione sulla credibilità di una “indagine” in cui gli assassini investigano sulla strage da loro stessi perpetrata, un accurato report di Human Rights Watch ha smontato pezzo per pezzo le conclusioni del rapporto predisposto dall’esercito israeliano, conclusioni che persino il segretario Onu Kofi Annan ha definito “strane” (ma di questo tratteremo a parte).
Sabato 10 giugno, nei pressi di Beit Hanoun, un aereo israeliano ha lanciato un missile contro un gruppo di appartenenti alla Jihad islamica, uccidendo due militanti e ferendone altri tre; in aggiunta, anche quattro civili che si trovavano nei pressi sono rimasti feriti.
Martedì 13 giugno, a Gaza City, l’aviazione israeliana ha portato a termine l’ennesima esecuzione “mirata” – ovvero l’ennesimo orrendo crimine di guerra – uccidendo due militanti della Jihad islamica, ma anche dieci civili che si trovavano nei pressi, in un nuovo e, se possibile, ancor più bestiale crimine di quelli fin qui descritti, per le particolari modalità della sua esecuzione.
E’ successo infatti che, intorno a mezzogiorno, un aereo israeliano ha lanciato un missile contro un’auto che trasportava due militanti della Jihad islamica lungo la Salah al-Din Street, all’interno del quartiere di al-Tuffah; l’esplosione del missile ha richiamato una gran folla in strada, compreso del personale medico di un vicino ospedale giunto per prestare soccorso, e solo allora, circa quattro minuti dopo, l’aereo israeliano ha lanciato un altro missile contro i Palestinesi accorsi, facendoli letteralmente a pezzi.
Hanno trovato così la morte dieci Palestinesi ignari e indifesi, tra cui due infermieri e due medici, un padre e i suoi due figli, mentre altri 32 civili sono rimasti feriti, dodici in maniera grave.
Ashraf al-Mughrabi, 30 anni, allo scoppio del primo missile era corso davanti alla porta di casa cercando di calmare i suoi due figlioli, Hisham, di 14 anni, e Maher, di 8 anni; “non preoccupatevi” gridava, ma non ha fatto in tempo a dire altro: è morto tra le braccia di suo padre.
Probabilmente l’esercito israeliano lancerà un’altra indagine sull’accaduto, peccato che non se ne concluda mai una con l’individuazione di qualche responsabile e la punizione del crimine: stiamo ancora aspettando, del resto, i risultati dell’indagine sulla strage di una intera famiglia avvenuta a Gaza City il 20 maggio scorso, sempre nel corso di una esecuzione “mirata” della IAF.
Mercoledì 14 giugno, verso l’una del mattino, alcuni soldati israeliani, appostati al primo piano di una casa di civile abitazione a Jenin, hanno ucciso un militante delle Brigate al-Aqsa, il 24enne Mohammed al-Wahesh, uccidendolo sul colpo.
Il giovane era disarmato e stava camminando da solo nei pressi dell’ospedale Khalil Suleiman, ed è stato ammazzato a sangue freddo, a distanza di una settantina di metri e senza alcun avvertimento.
Nella sola settimana compresa tra l’8 ed il 14 giugno, l’esercito israeliano ha condotto 7 esecuzioni “mirate” ed ha ucciso ben 28 Palestinesi, tra cui 21 civili disarmati ed estranei a qualsiasi organizzazione di resistenza: sette erano bambini piccoli; in aggiunta, nello stesso periodo, 76 Palestinesi sono rimasti feriti e, tra essi, venti bambini.
Tutto questo ha un nome ben preciso: crimine contro l’umanità.
Eppure la risposta della comunità internazionale a questo bagno di sangue, e le reazioni della pubblica opinione, sono state straordinariamente flebili, se non assenti, tanto da far dire ad Abu Mazen - una volta tanto ne condividiamo le parole - che i Palestinesi sono stati abbandonati a sé stessi.
Quel che disturba di più nelle parole dei pochi che si sono degnati di intervenire al riguardo è il mettere sullo stesso piano le azioni dei Palestinesi e quelle degli Israeliani, se non addirittura il disarmante ribaltamento delle posizioni di vittima e carnefice tra le due parti, come quando – nel caso degli Usa – si afferma che “Israele ha il diritto di difendersi”.
Così il Segretario Onu Kofi Annan, pur dichiarandosi “shoccato e rattristato” per la morte dei civili palestinesi, coglie l’occasione per chiedere la cessazione del lancio dei missili Qassam.
Così il Santo Padre, anziché gridare con voce forte che gli atti di Israele sono dei crimini contro l’uomo e contro Dio, si limita a “sollecitare i responsabili di entrambi i popoli perché sia … mostrato il dovuto rispetto per la vita umana, specie quella dei civili inermi e dei bambini…”.
Ora, è certo che nessuno Stato può accettare che si lancino dei razzi contro il proprio territorio, e non vi è dubbio che tale pratica sia contraria al diritto internazionale.
Ma è altrettanto certo che non è ammissibile mettere sullo stesso piano i 6.000 colpi di artiglieria sparati e gli 80 missili lanciati contro la Striscia di Gaza dalla fine del mese di marzo a oggi con i circa 200 razzi artigianali Qassam lanciati dai Palestinesi, nello stesso periodo, contro il territorio israeliano.
I Qassam sono dei razzi rudimentali ed imprecisi, composti da un miscuglio di zucchero e nitrato di potassio, e non è peregrino ricordare che non hanno fatto nemmeno una vittima nel corso del 2006.
Di contro, secondo dati forniti da Human Rights Watch, il solo fuoco di artiglieria contro la Striscia di Gaza ha provocato la morte di 47 Palestinesi, tra cui 11 bambini e 5 donne, ed il ferimento di altri 192 civili: è questo che Israele (e gli Usa) intendono per “diritto di difendersi”?
E, lungi dal cercare di evitare ogni coinvolgimento di innocenti, l’Alto comando dell’esercito israeliano ha ordinato di ridurre la distanza di sicurezza tra gli obiettivi dei bombardamenti e le zone civili da 300 a 100 metri, rendendo così, al contrario, quasi inevitabile la morte e/o il ferimento di poveri innocenti, come è successo sulla spiaggia di Sudanyya.
E ciò vale a qualificare tali bombardamenti indiscriminati, per la loro intenzionalità e sistematicità, come dei veri e propri crimini contro l’umanità, per i quali la combriccola degli assassini - i vari Olmert, Peretz, Halutz e quanti altri - andrebbero condotti senza indugio davanti al Tribunale penale internazionale.
Ancora, l’esercito israeliano giura e spergiura di fare tutto il possibile per evitare danni ai civili innocenti nel corso delle sue esecuzioni “mirate”.
Ora, a parte che le esecuzioni “mirate” in sé sono contrarie al diritto umanitario – in quanto costituiscono una “execution without a trial” – è opportuno ricordare che, secondo i dati forniti da B’tselem, dall’inizio della seconda Intifada ad oggi sono stati ben 123 i civili palestinesi ignari e innocenti coinvolti loro malgrado in queste esecuzioni che, evidentemente, tanto “mirate” non sono.
E, infine, dal 17 aprile in poi non si è verificato più alcun attentato kamikaze a danno di Israele, né nessun Israeliano è stato ucciso per mano palestinese mentre, solo nel periodo compreso tra il 1° maggio e il 14 giugno, gli Israeliani hanno ucciso ben 78 Palestinesi!
Dunque non di autodifesa si tratta, né di “legittima reazione” agli attacchi suicidi, ma di un vero e proprio massacro della popolazione civile palestinese, di cui prima o poi la comunità internazionale si spera trovi il tempo e la volontà di occuparsi, imponendo finalmente ad Israele, con ogni mezzo, il rispetto della legalità internazionale e del diritto umanitario.
Che non si possa più aspettare lo mostrano i dati statistici secondo cui, dall’inizio della seconda Intifada ad oggi, Israele ha ucciso ben 3.950 Palestinesi (176 solo quest’anno, contro 15 morti israeliani…) e ne ha feriti ben 30.065 (740 nel 2006).
Di fronte a questo bagno di sangue c’è anche chi si preoccupa di segnalare con sdegno, come ha fatto Magdi Allam dalle colonne del Corsera, che su un sito islamico gestito dai Fratelli Musulmani compaia “lo stereotipo dell’ebreo carnefice con in testa la kippà, lo sguardo truce e il ghigno crudele, in mano un coltellaccio che gronda di sangue fino a formarne una pozza per terra”.
Ma certo, che diamine, ha ragione Magdi Allam a essere sdegnato, questa raffigurazione non è per nulla aderente alla realtà!

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1 giugno 2006

Un trascurabile danno collaterale.

Ci siamo spesso interrogati, senza riuscire peraltro a trovare risposta, sul perché i media italiani siano prodighi di notizie di ogni sorta sulle vicende palestinesi - compresa financo la “fuga d’amore” di una delle figlie del premier palestinese Haniyeh – con un’unica e ben precisa eccezione, quella relativa agli assassinii ed ai crimini di guerra commessi da Israele nei Territori occupati.
Così, ad esempio, è passata quasi sotto silenzio, al massimo con un trafiletto nella sezione esteri di qualche quotidiano, la notizia dell’ennesima esecuzione extra-giudiziaria avvenuta il 20 maggio a Gaza City, in cui è morto Mohammed Dahdouh, il militante che costituiva l’obiettivo prescelto dell’operazione, ma in cui un’intera famiglia palestinese è stata sterminata dalla bestiale e spietata dimostrazione di forza dell’aviazione israeliana.
Ci siamo già occupati di questo nuovo e atroce crimine di guerra imputabile agli assassini israeliani (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/05/operazioni-di-peace-keeping.html), ma vogliamo ritornarci un momento per riflettere, a distanza di qualche giorno, nel momento in cui un giornalista onesto e coraggioso come Gideon Levy di Ha’aretz ci racconta qualcosa in più di questa vicenda, rendendola – se possibile – ancor più tragica ed amara.
Si tratta della storia di Hamdi Aman, un palestinese di 28 anni di Gaza, che a prezzo di grandi sacrifici un giorno riesce ad acquistare, per sé e per la propria famiglia, una Mitsubishi usata.
Possiamo solo intuire la gioia per l’acquisto effettuato, e cercare di immaginare l’allegria dell’intera famiglia quando Hamdi decide di fare una sorta di “inaugurazione” dell’auto andando in giro per il quartiere Gargash di Gaza City, e non è difficile immaginare moglie e marito che si guardano negli occhi compiaciuti, i bambini allegri e frenetici che, per una volta tanto, non devono stare in casa ma possono andare in giro, comodamente seduti, e guardare con occhi curiosi l’affaccendata vita quotidiana di un popoloso quartiere della loro città.
C’erano cinque adulti e tre bambini piccoli in quell’auto, felici ed inconsapevoli, quando, ad un tratto, un pick-up che li stava superando a sinistra, guidato da Mohammed Dahdouh, salta in aria colpito da alcuni missili lanciati da un aereo israeliano.
E’ la fine di Dahdouh, ma anche quella della famiglia di Hamdi Aman.
La moglie Naima, di 27 anni, muore sul colpo, al pari del figlioletto Muhind, di 7 anni, e della madre Hanan, 46 anni; un altro dei suoi figli, la piccola Mariyah, di soli cinque anni – che fino ad un attimo prima stava ballando sulle ginocchia della mamma – rimane gravemente ferita e giace ora in un letto del Centro medico Sheba di Tel Ashomer, completamente paralizzata.
Uno zio di Hamdi, Nahed, 33 anni e padre di due bambini, resta anch’egli paralizzato ed è ricoverato presso il Centro medico Sourasky di Tel Aviv, mentre il figlio più piccolo di Hamdi, Muaman, di due anni, e Hamdi stesso restano feriti da numerose schegge in tutto il corpo.
L’ufficio del portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che si sta “continuando ad investigare” sulle circostanze che hanno portato allo sterminio della povera famiglia palestinese: si, certo, le conosciamo queste indagini in cui gli assassini “investigano” sull’operato dei propri colleghi!
Stiamo ancora aspettando, come sempre avviene e sempre avverrà, l’esito delle indagini sull’altra, valorosa operazione compiuta dall’aviazione israeliana il 6 marzo, sempre a Gaza City, in cui i missili della Iaf hanno ucciso – oltre a due militanti della Jihad islamica – anche una bambina di 8 anni e due ragazzini di 14 e 17 anni, ferendo altresì una dozzina di civili palestinesi che si trovavano nei pressi (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/questi-assassini-vanno-fermati.html).
Il vero è che nel Paese degli assassini forse tutto questo è legittimo e morale, ma secondo i principi del diritto umanitario internazionale si tratta di un crimine di guerra; agli occhi del concesso delle nazioni civili, poi, il massacro della famiglia di Hamdi Aman non è altro che un abominio ed un crimine spietato e bestiale.
Uno dei principi cardine del diritto umanitario è rappresentato dal principio di proporzionalità, in base al quale è proibito compiere attacchi, anche verso dei legittimi obiettivi militari, se vi è la consapevolezza che l’attacco stesso possa provocare danni alla popolazione civile, gravi e sproporzionati rispetto al vantaggio che l’attaccante si propone di acquisire.
Va detto, anzitutto, che anche l’assassinio extra-giudiziario di militanti palestinesi è vietato dal diritto internazionale, in quanto equivale ad una “execution without a trial”, una vera e propria condanna a morte eseguita senza alcuna incriminazione e senza alcun processo.
Ciò è ancor più vero nel caso di Mohammed Dahdouh, il quale non era accusato nemmeno di essere mandante o organizzatore di attentati suicidi, ma era al più ritenuto responsabile del lancio di alcuni razzi Qassam che, vogliamo ricordarlo per inciso, quest’anno non hanno provocato che alcuni ricoveri … per shock.
A fronte di questa circostanza, era ben chiaro ai pianificatori ed agli esecutori del raid aereo su Gaza che lanciare dei missili contro un’autovettura, nel primo pomeriggio e nel bel mezzo di un quartiere popoloso, non avrebbe che potuto comportare lo spargimento di sangue innocente di civili ignari e indifesi, cosa che è puntualmente e nuovamente accaduta.
Si tratta quindi di un crimine di guerra, atroce e ingiustificato, che va imputato ai piloti che lo hanno eseguito, agli “strateghi” che lo hanno ideato, all’intero establishment israeliano della Difesa, guidato da quell’assassino entusiasta che si sta dimostrando essere Amir Peretz.
E complice morale di questo ennesimo assassinio è l’intero popolo israeliano, che è informato e ben conosce, ed in grande maggioranza condivide, l’operato dei propri governanti e del proprio valoroso esercito, il furto della terra e delle entrate fiscali, il disastro dell’economia palestinese, il blocco dei valichi di frontiera, le vessazioni e le umiliazioni ai check-points, i quotidiani raid e gli assassini di militanti e civili senza distinzioni, le “dead-zones” nei pressi del confine tra Gaza ed Israele, i bombardamenti indiscriminati della Striscia, e tutto il resto dell’armamentario con cui questo civile Paese che prende il nome di Israele ogni giorno mette sotto il proprio tallone un intero popolo.
E ci piacerebbe che una volta, una volta almeno, i portavoce delle comunità ebraiche italiane, i vari Morpurgo, Reibman e compagnia, prendessero la parola per condannare i crimini di guerra e le atrocità commesse dal loro beneamato Israele, anziché lamentarsi per qualche bandiera bruciata e blaterare di un fantomatico, risorgente “antisemitismo” italiano ed europeo, scusa valida da tirare fuori in ogni occasione e per tacitare ogni discussione ed ogni protesta.
Tacciano almeno, per un minimo di dignità.

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