27 settembre 2011

Che bel regalo per Rosh Hashanah!

Il comitato regionale per la pianificazione e la costruzione oggi ha approvato un progetto di costruzione di 1.100 alloggi nel quartiere di Gilo a Gerusalemme.

Il progetto comprende la costruzione di piccole unità abitative, di una passerella, di edifici pubblici, di una scuola e di una zona industriale.

“E’ un bel regalo per Rosh Hashanah” (il Capodanno ebraico, che quest’anno cade il 28 settembre, n.d.r.), ha detto Yair Gabay, un membro del comitato distrettuale di Gerusalemme.

“Gerusalemme si sta espandendo verso sud, creando alloggi a prezzi accessibili. Dobbiamo chiarire al mondo che Gerusalemme non è in vendita.

Il progetto edilizio, naturalmente, ha attirato su di sé le aspre critiche delle organizzazioni umanitarie e quelle (ipocrite) di Washington, in quanto Gilo è un quartiere costruito su terra palestinese conquistata durante la Guerra dei sei giorni e, successivamente, annessa alla municipalità di Gerusalemme.

Naturalmente, questo non è che l’ultimo atto, in ordine di tempo, di una massiccia e ininterrotta opera di costruzione illegale di alloggi e di espansione delle colonie su terreni che, secondo diritto, dovrebbero appartenere al futuro stato palestinese.

Recentemente, il governo israeliano ha espropriato un’area di 81 ettari e mezzo, pari all’estensione della Città Vecchia di Gerusalemme, allo scopo di legalizzare l’avamposto illegale (!) di Haresha, la cui superficie complessiva è pari a soli 7 ettari. E lo ha fatto sulla base della propria personale interpretazione di una legge sulla terra del 1858 (!), risalente cioè ai tempi dell’Impero ottomano, in base alla quale il governo israeliano può dichiarare terreni di proprietà privata di Palestinesi, che non siano stati coltivati solo per pochi anni, come “terra di stato” e darla in uso ai coloni.

E ciò benché più volte i capi di governo di Israele, da ultimo lo stesso Netanyahu, avessero solennemente dichiarato: “non abbiamo alcuna intenzione di costruire nuove colonie o di espropriare ulteriori terreni per le colonie esistenti”. Come no…

Un rapporto di Peace Now dei primi di settembre ha mostrato come, nelle colonie, l’attività costruttiva per persona è pari quasi al doppio di quella riscontrata in Israele (rispettivamente, un’unità abitativa ogni 123 residenti nelle colonie, 1 ogni 235 residenti in Israele.

Secondo l’organizzazione, nel periodo ottobre 2010 – luglio 2011, 2.598 sono stati gli alloggi di cui è iniziata la costruzione, 2.149 le nuove costruzioni completate, almeno 3.700 quelle in corso di completamento. Degno di nota il fatto che un terzo delle costruzioni appena iniziate è situato a est del muro di separazione, in insediamenti isolati; un altro terzo si trova, invece, a est della porzione di muro completata, ma ad ovest del tracciato ancora da costruire, nelle cd. “dita” che si inoltrano all’interno della Cisgiordania.

Ora, non ci può essere persona in buona fede che non veda come il pressante invito ai Palestinesi di tornare al tavolo dei negoziati (ma da quanti anni si negozia inutilmente?) nasconda l’ennesima dilazione e l’ennesimo, volgare, trucco con cui Israele tenta di guadagnare tempo per poter continuare ad espandere le colonie e a consolidare la propria presa sulle terre del popolo palestinese.

L’Ufficio del Primo ministro palestinese, nel condannare l’approvazione del progetto edilizio di Gilo, ha dichiarato: “Netanyahu ha detto che non c’è spazio per passi unilaterali (ovvero la richiesta di ammissione della Palestina come stato membro dell’Onu, n.d.r.) – ma non c’è passo unilaterale più grande che ordinare di costruire in terra palestinese. Egli ha raccontato all’Onu di essere lì per dire la verità, ma questa decisione dice la verità al posto suo”

Ma gli amici di Israele continuano a far finta di niente…

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21 settembre 2011

Le incognite dell'iniziativa palestinese all'Onu

L’editoriale di Medarabnews, dedicato all’iniziativa palestinese di chiedere al Consiglio di Sicurezza il riconoscimento della Palestina come stato membro dell’Onu a tutti gli effetti, mette bene in evidenza le opportunità ma anche i pericoli insiti in questa mossa “unilaterale”.

Iniziativa, peraltro, guardata con sospetto e addirittura avversata da molti nel campo palestinese, in quanto non concordata e, per taluni aspetti, contraria agli interessi dei palestinesi della diaspora.

Il rischio concreto – visto l’esplicito richiamo ai confini del 1967 – sarebbe quello, in particolare, di consegnare definitivamente ad Israele il 78% della Palestina storica senza ottenere in cambio pressoché nulla di concreto.

E, tuttavia, a giudizio di chi scrive, l’iniziativa palestinese ha il merito di rompere uno status quo fatto di occupazione militare, di espansione delle colonie e di defatiganti quanto inutili negoziati, potenzialmente destinato a durare in eterno.

Solo la certificazione formale della fine del ruolo americano di “honest broker” del conflitto – attraverso il veto che gli Usa certamente opporranno alla richiesta di riconoscimento palestinese – permetterà una maggiore internazionalizzazione ed un nuovo impulso al processo di pacificazione della regione.


Con l’apertura della riunione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York è entrato nel vivo l’ormai lungamente atteso dramma rappresentato dal tentativo palestinese di ottenere il pieno riconoscimento da parte delle Nazioni Unite come “Stato membro”.

L’iniziativa palestinese è il risultato del fallimento di 20 anni di processo negoziale, rivelatosi del tutto inconcludente e crollato definitivamente lo scorso anno, quando Israele si è rifiutata di estendere una moratoria sull’espansione degli insediamenti in Cisgiordania.

Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati dai fallimentari tentativi americani di ricondurre le parti al tavolo negoziale pur in presenza dell’ostinazione del governo Netanyahu a proseguire l’attività edilizia nelle colonie della West Bank e a Gerusalemme Est, un ostacolo rivelatosi insormontabile.

Uno degli aspetti paradossali degli sforzi del “mediatore” americano è stato il progressivo allinearsi del presidente Obama alle posizioni del primo ministro israeliano Netanyahu, a causa delle enormi pressioni del Congresso americano e dell’AIPAC, la principale lobby filo-israeliana a Washington.

Solo un anno fa, proprio parlando davanti alla platea dell’Assemblea Generale dell’ONU, Obama aveva auspicato la conclusione dei negoziati israelo-palestinesi entro un anno, cosicché i palestinesi avrebbero potuto prendere parte alla riunione plenaria delle Nazioni Unite di questi giorni in qualità di “Stato membro” a pieno titolo.

Ora invece la sua amministrazione sta compiendo ogni sforzo per impedire un riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’ONU. Gli Stati Uniti si sono infatti dichiarati fermamente contrari all’iniziativa palestinese, affermando che uno Stato palestinese può nascere solo attraverso negoziati diretti bilaterali fra israeliani e palestinesi.

LA MOSSA “DISPERATA” DELL’ANP

Tuttavia, a spingere l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a rivolgersi all’ONU è stato proprio il pluriennale fallimento di tali negoziati. Più che una mossa attentamente studiata, l’iniziativa palestinese è apparsa a molti come un disperato tentativo di uscire da un vicolo cieco.

Mahmoud Abbas, il cui mandato presidenziale alla guida dell’ANP è scaduto ormai da tempo, ha urgentemente bisogno di trovare nuove ragioni di legittimazione agli occhi del suo popolo. Egli si è sentito abbandonato dagli Stati Uniti che lo hanno posto in una posizione di negoziatore subalterno, soggetto ai diktat di Netanyahu in primis, e di Washington in seconda battuta, nel contesto di un processo negoziale privo di qualsiasi orizzonte.

Le rivolte della “primavera araba” hanno, per altro verso, ulteriormente accresciuto le aspettative dei palestinesi riguardo a una possibile fine dell’occupazione israeliana, ed hanno inasprito il loro atteggiamento critico nei confronti della “convivenza” fra l’ANP e la potenza occupante.

Per non perdere il controllo della situazione, i politici dell’Autorità palestinese hanno ritenuto necessario “canalizzare” queste energie facendole confluire a sostegno di un’iniziativa palestinese per ottenere un riconoscimento a livello internazionale.

Alla base di questa iniziativa “disperata” vi è il miraggio di riuscire a forzare la mano ad americani ed israeliani strappando loro qualche concessione che permetta al presidente Abbas di riprendere i negoziati senza perdere la faccia (una prospettiva poco probabile vista l’intransigenza dell’attuale governo israeliano), oppure di ottenere un riconoscimento internazionale che consenta in ogni caso all’ANP di poter offrire una vittoria, per quanto simbolica, al suo popolo.

LE DUE OPZIONI TATTICHE A DISPOSIZIONE DEI PALESTINESI

Tatticamente l’iniziativa palestinese all’ONU poteva articolarsi in due modi: chiedere al Consiglio di Sicurezza il riconoscimento della Palestina come “Stato membro” a pieno titolo di questa organizzazione internazionale, oppure rivolgersi all’Assemblea Generale per ottenere lo status di “osservatore” in qualità di “Stato non membro” (l’Assemblea Generale non ha infatti il potere di accordare la piena adesione all’ONU).

La seconda opzione ha un valore puramente simbolico, ancor più della prima (in quanto non accorderebbe ai palestinesi un vero riconoscimento), ma sarebbe in linea di principio più praticabile poiché i palestinesi sono quasi certamente in grado di raccogliere un’ampia maggioranza a loro vantaggio all’interno dell’Assemblea Generale, dove non vige il diritto di veto. Un voto favorevole dell’Assemblea Generale, inoltre, consentirebbe ai palestinesi di avere accesso ad alcuni organismi internazionali come la Corte Penale Internazionale, dove essi potrebbero cercare di rivalersi contro le violazioni israeliane.

La prima opzione – quella di rivolgersi al Consiglio di Sicurezza – è invece certamente più ambiziosa, in quanto punta a un obiettivo più alto e sfida gli Stati Uniti ad uscire allo scoperto per bloccare in prima persona il tentativo palestinese, eventualmente attraverso il ricorso al veto. Al momento i palestinesi sembrano intenzionati ad alzare la posta in gioco perseguendo proprio questo obiettivo.

Essi finora sono certamente riusciti a segnare dei punti a loro favore da un punto di vista politico, ponendo con successo la questione dello Stato palestinese all’attenzione dei media e dei governi a livello internazionale.

LA SCOMMESSA DI ABBAS

Ed è proprio questa la scommessa palestinese: l’ANP sa che la richiesta di riconoscimento all’ONU non modificherà nulla sul terreno, ma potrebbe contribuire a cambiare il clima a livello internazionale. Si tratta infatti di un atto dal profondo significato simbolico che potrebbe cambiare i termini del dibattito in favore dei palestinesi, in un momento in cui gli Stati Uniti stanno visibilmente perdendo influenza in Medio Oriente.

E’ questa la ragione per cui, secondo gli osservatori palestinesi ed arabi, gli Stati Uniti ed Israele temono così tanto l’iniziativa dell’ANP.

Essa infatti potrebbe scardinare i due capisaldi essenziali del processo di pace degli ultimi vent’anni: innanzitutto il fatto che tale processo fosse basato su un negoziato rigorosamente bilaterale fra Israele e i palestinesi, e in secondo luogo il fatto che gli Stati Uniti avessero il monopolio del ruolo di “mediatore imparziale” fra le parti (un ruolo che essi hanno ampiamente dimostrato di non poter interpretare, a causa della loro stretta alleanza con una delle due parti interessate).

La sfida palestinese è rivolta contro questi due capisaldi, a vantaggio di una maggiore internazionalizzazione del processo di pace, e del ruolo di mediazione al suo interno.

L’apparente decisione palestinese di rivolgersi in prima istanza al Consiglio di Sicurezza chiama in causa direttamente Washington, sfidandola a mettere a rischio la propria residua credibilità presso i popoli arabi in rivolta contro i loro dittatori, attraverso la sua aperta opposizione alle legittime aspirazioni di libertà del popolo palestinese.

Obama viene posto infatti di fronte a un difficile dilemma: mentre la sua amministrazione chiede che il regime libico e quello siriano siano chiamati a rendere conto dei loro crimini di fronte alla comunità internazionale, essa fornisce uno scudo protettivo a Israele che consente a quest’ultima di non dover rispondere di nessuna delle sue violazioni (in perfetto accordo, del resto, con le precedenti amministrazioni USA: a partire dal 1972 gli Stati Uniti ha fatto ricorso al veto per ben 42 volte al fine di bloccare risoluzioni ONU di condanna nei confronti delle violazioni israeliane del diritto internazionale).

Obama dunque rischia di alienarsi ancora una volta il mondo arabo, dopo aver promesso ai popoli della regione di appoggiare la “primavera araba” e la loro richiesta di democrazia, libertà e giustizia.

D’altra parte, ogni eventuale apertura da parte di Obama nei confronti dei palestinesi susciterebbe la dura reazione del governo Netanyahu, del Congresso americano e della lobby filo-israeliana negli USA, proprio alla vigilia della sua corsa alla rielezione.

UN’INIZIATIVA PIENA DI INCOGNITE

La scelta palestinese di rivolgersi in primo luogo al Consiglio di Sicurezza non è però priva di incognite, e potrebbe rivelarsi perdente.

Innanzitutto Washington farà di tutto per evitare di ricorrere al veto, e potrebbe riuscirci convincendo un numero sufficiente di membri del Consiglio a non votare a favore della richiesta palestinese (per passare, essa ha bisogno di 9 voti favorevoli su 15).

Certamente anche in questo caso il marcato attivismo americano in chiave antipalestinese non passerebbe inosservato in Medio Oriente, ma i danni di immagine per gli USA sarebbero leggermente più contenuti.

Tuttavia il rischio più grave per i palestinesi è che Washington chieda – come è prassi in questi casi – la creazione di una commissione tecnica per valutare la richiesta palestinese prima che il Consiglio di Sicurezza si pronunci. I lavori di tale commissione potrebbero protrarsi per settimane, se non per mesi, con la conseguenza che il picco di attenzione mediatica e politica che i palestinesi sono riusciti a creare a livello internazionale rischierebbe di svanire rapidamente.

Nel caso di un rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza, i palestinesi potrebbero ancora rivolgersi all’Assemblea Generale, ma la “finestra di opportunità” rappresentata dai riflettori internazionali puntati sulla riunione annuale attualmente in corso sarebbe ormai chiusa da tempo.

Invece una maggioranza schiacciante, da parte dell’Assemblea Generale, ottenuta direttamente nel corso della riunione plenaria di questi giorni, che di fatto riconosca uno Stato palestinese entro i confini del 1967, potrebbe rafforzare il potere contrattuale dei palestinesi in eventuali negoziati futuri, ed in ogni caso contribuire a cambiare il clima internazionale a loro favore.

Ma al di là di questo dilemma, l’iniziativa palestinese presenta altri rischi.

La risoluzione 181 dell’ONU nel 1947 chiese la creazione di due Stati, uno ebraico ed uno arabo, rispettivamente sul 56 e sul 44% della Palestina mandataria. Secondo alcuni ambienti palestinesi, l’attuale richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 da parte dell’ONU, invece, concederebbe automaticamente a Israele il 78% della Palestina senza che i palestinesi ricevano nulla in cambio da parte di Tel Aviv (in termini di fine dell’occupazione, riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, ecc.).

Inoltre l’attuale iniziativa palestinese è il risultato di una decisione esecutiva presa da Mahmoud Abbas, non come presidente dell’ANP, ma come presidente dell’OLP, tuttavia senza che quest’ultima organizzazione – la quale tradizionalmente rappresenta tutti i palestinesi, compresi quelli della diaspora, e non solo i palestinesi della Cisgiordania – sia stata minimamente coinvolta nella decisione.

In generale, i responsabili dell’ANP sono stati accusati di aver organizzato l’iniziativa senza consultare o coinvolgere affatto le varie componenti del popolo palestinese.

Ciò ha contribuito a sollevare il sospetto – in diversi ambienti palestinesi, e non solo fra gli esponenti di Hamas – che, nel caso di un riconoscimento da parte dell’ONU, ogni futuro negoziato con Israele potrebbe essere limitato alla nuova “entità statale” palestinese, cioè all’ANP, con grave pregiudizio per il diritto al ritorno dei profughi e per i palestinesi della diaspora, tanto più che i reali contenuti dell’iniziativa palestinese all’ONU rimangono sconosciuti non essendo stati condivisi con le varie componenti della comunità nazionale palestinese.

A ciò si aggiunge il fatto che, come detto, ogni eventuale riconoscimento da parte dell’ONU rimarrebbe puramente simbolico, senza cambiare nulla sul terreno: ogni cambiamento reale in grado di permettere l’effettiva nascita di uno Stato palestinese richiederebbe in ogni caso un accordo che sia il frutto di un negoziato fra le parti (per quanto riguarda i confini, lo status di Gerusalemme, la sicurezza, gli insediamenti, le risorse idriche, ecc.).

Dunque, secondo alcuni, a fronte di una vittoria che sarebbe comunque puramente simbolica, i palestinesi rischiano di fare concessioni reali ad Israele senza alcuna contropartita.

Ma, ancor prima di questa eventualità, come già accennato, vi è il concreto rischio che l’iniziativa palestinese rimanga per lungo tempo impantanata nelle lungaggini tecniche della commissione incaricata dal Consiglio di Sicurezza, visto che i palestinesi sembrano effettivamente determinati a rivolgersi a quest’ultimo prima che all’Assemblea Generale.

Del resto, alcuni insinuano che lo stesso Abbas sarebbe interessato a tirare per le lunghe il voto al Consiglio di Sicurezza, nella speranza di avere più margine di manovra per strappare concessioni reali agli Stati Uniti – un tentativo che necessariamente richiederebbe tempo.

Proprio per questa ragione sembra invece improbabile l’eventualità che i palestinesi ritirino la loro iniziativa all’ultimo minuto, persuasi da una proposta americana ed israeliana in grado di riaprire in extremis l’orizzonte negoziale.

Al momento le posizioni di israeliani e palestinesi appaiono infatti infinitamente distanti, a cominciare dal categorico rifiuto di Netanyahu di fermare gli insediamenti, di discutere lo status di Gerusalemme, o in generale di permettere la nascita di uno Stato palestinese che non sia un insieme di énclave incapaci di sopravvivere. E per Abbas accettare promesse fumose e non circostanziate da parte israeliana o americana equivarrebbe a un suicidio politico.

NESSUN VINCITORE

Ma anche un fallimento parziale o totale dei palestinesi all’ONU non significa che Israele o gli USA usciranno vittoriosi da questo confronto. L’intransigenza israeliana e la partigianeria di Washington sono sotto gli occhi di tutti – in Medio Oriente, ma anche a livello internazionale.

Inoltre, nel mese di settembre, nel giro di pochi giorni la Turchia ha espulso il rappresentante diplomatico di Tel Aviv ad Ankara, l’ambasciatore israeliano in Egitto è fuggito frettolosamente dal Cairo dopo che una folla inferocita aveva attaccato la sua ambasciata, e i diplomatici israeliani ad Amman hanno furtivamente lasciato la Giordania temendo il verificarsi di un attacco analogo alla loro residenza giordana.

Sebbene la “primavera araba” abbia inferto un duro colpo all’asse siro-iraniano – a causa della rivolta che sta mettendo a rischio la sopravvivenza del brutale regime di Assad – i sentimenti anti-israeliani nella regione stanno crescendo.

Questo clima ha “costretto” perfino i sauditi ad ammonire Washington – per bocca di Turki al-Faisal, ex ambasciatore saudita presso gli Stati Uniti, il quale ha scritto in proposito un articolo sul New York Times – che il mancato sostegno americano all’iniziativa palestinese all’ONU comporterà non solo un declino della credibilità e dell’influenza degli USA in Medio Oriente, ma anche un ulteriore deterioramento nei rapporti con Riyadh.

Faisal ha affermato senza mezzi termini che la monarchia saudita sarà obbligata ad assumere una posizione più indipendente in politica estera (soprattutto in relazione alla questione palestinese) non tanto per volontà propria, ma a causa della pressione dell’opinione pubblica araba e musulmana.

L’ossessione principale dei sauditi rimane l’Iran, ma proprio allo scopo di contenere l’influenza iraniana nella regione Riyadh ritiene che sia sempre più urgente risolvere la questione palestinese.

La posizione saudita a sostegno dei palestinesi è dunque considerata strumentale dai più, e in pochi si aspettano da Riyadh una politica assertiva come quella turca, o dei passi concreti che portino ad una reale rottura con Washington; tuttavia gli ammonimenti dell’ex ambasciatore Faisal sono indicativi del clima che si respira in Medio Oriente, e del gelo che persiste tra sauditi e americani.

Riyadh ha appena promesso di versare 200 milioni di dollari all’ANP per alleviare la crisi economica che la attanaglia, soprattutto a causa del rallentamento dell’erogazione dei finanziamenti da parte dei paesi donatori.

Il bilancio palestinese del 2011 era stato redatto in base a una previsione di 967 milioni di dollari in introiti provenienti dalle donazioni straniere. Ma alla fine di giugno l’ANP aveva incassato solo 293 milioni.

Negli Stati Uniti, che da soli hanno contribuito lo scorso anno a più del 10% del bilancio dell’ANP versando circa 470 milioni di dollari, molti membri del Congresso – sia fra i repubblicani che fra i democratici – hanno minacciato un boicottaggio dell’Autorità palestinese se quest’ultima non rinuncerà alla sua iniziativa all’ONU.

Tuttavia la reale applicabilità di una simile minaccia resta tutta da vedere. L’ANP garantisce infatti la sicurezza in Cisgiordania e fornisce i servizi essenziali ai palestinesi che ci vivono. Se essa dovesse dichiarare fallimento, il governo israeliano dovrebbe assumersi queste responsabilità in qualità di potenza occupante – un fardello economico che Tel Aviv di certo non può permettersi, soprattutto in un momento in cui lo stesso Stato di Israele è attanagliato dai problemi economici e dalle proteste a sfondo sociale.

Le misure punitive minacciate dai membri del Congresso americano rischierebbero dunque di avere conseguenze gravi per l’alleato israeliano, e lo stesso ministro della difesa Ehud Barak ha messo in guardia contro una loro possibile adozione.

Il rischio di un’esplosione di violenza è concreto del resto, non solo nell’eventualità che simili misure vengano adottate, ma anche come semplice conseguenza della frustrazione e della rabbia dovute a un possibile fallimento dell’iniziativa palestinese all’ONU, che ha suscitato speranze probabilmente eccessive in Palestina e nella regione in generale.

Un rischio del genere è ulteriormente acuito dalla tradizionale propensione di Israele a reagire con un eccessivo uso della forza ad ogni potenziale minaccia. Per mesi l’esercito israeliano si è preparato allo scenario di una “possibile” intifada nel mese di settembre. E sono giunte notizie secondo le quali sono state addestrate ed armate anche squadre di coloni in Cisgiordania.

Dal canto suo, il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman ha minacciato “gravi conseguenze” se il tentativo palestinese all’ONU proseguirà, mentre in precedenza aveva affermato senza mezzi termini che “l’Autorità palestinese sta preparando un bagno di sangue”. Il suo vice, Danny Ayalon, tanto per non essere da meno, ha invitato Israele ad annettere parte della Cisgiordania se il presidente palestinese Abbas non tornerà sui propri passi.

Indipendentemente dal suo esito, dunque, l’iniziativa palestinese all’ONU rischia di non aprire alcun nuovo orizzonte negoziale, ma anzi di rappresentare l’ennesimo e forse definitivo funerale del processo di pace, in un contesto mediorientale che appare sempre più frammentato e incontrollabile.

Le rivoluzioni arabe tuttora in corso, la rottura diplomatica tra la Turchia e Israele, il gelo fra Washington e Riyadh, sono altrettanti indizi di un ordine regionale ormai scardinato, in cui le potenze regionali ed internazionali agiscono sempre più in ordine sparso, incapaci di prospettare soluzioni accettabili e condivise alle crisi che affliggono la regione.

Come ha scritto l’ex negoziatore americano Aaron David Miller, stiamo assistendo a un momento in cui le forze della storia stanno prendendo il sopravvento sulle forze della diplomazia. La possibilità di una soluzione a due Stati per il problema israelo-palestinese sembra essere praticamente tramontata, “e gli israeliani, i palestinesi – insieme a tutti noi – ne soffriranno le conseguenze”.

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15 settembre 2011

L’Anp avanzerà la richiesta di riconoscimento come Stato membro dell’Onu al Consiglio di Sicurezza

Dunque è deciso, i Palestinesi avanzeranno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la loro richiesta di adesione e di pieno riconoscimento della Palestina come Stato membro delle Nazioni Unite.

Se da una parte sembra agevole per l’Anp raccogliere i nove voti necessari all’approvazione della richiesta, dall'altra è praticamente certo che questa si scontrerà con il veto opposto dagli Stati Uniti, che hanno utilizzato questo strumento per ben 41 volte nella storia dell’Onu per proteggere gli interessi dell’alleato israeliano.

Ma, stavolta, non sarà così semplice per gli Usa, e l’utilizzo del potere di veto rischia di avere gravi conseguenze e di infiammare ancor più gli animi dei popoli della regione. Non è un caso che, fino all’ultimo, il presidente Obama abbia spedito in loco i propri inviati del Dipartimento di Stato e del Consiglio nazionale di sicurezza, David Hale e Denis Ross, per cercare di scongiurare il concretarsi di questa pericolosa iniziativa “unilaterale” da parte dei Palestinesi.

A parte la palese incoerenza dell’impegno (a parole) manifestato da Obama per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese e dell’aperto appoggio manifestato ai sommovimenti popolari della “Primavera araba” con l’eventuale veto che si opporrebbe al gesto di autodeterminazione del popolo palestinese, l’opposizione degli Usa al riconoscimento della Palestina come stato membro dell’Onu rischia di fomentare vieppiù i sentimenti anti-americani e anti-israeliani, con il concreto rischio che nei Territori scoppi una terza Intifada, spontanea o “incoraggiata” dall’esterno che sia.

In questo contesto, l’Unione Europea non manca l’occasione per l’ennesima, miserabile figura, presentandosi all’appuntamento profondamente lacerata e divisa, con Spagna, Francia, Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Svezia orientate ad appoggiare la causa palestinese, Germania, Italia, Olanda, Bulgaria, Repubblica Ceca schierate invece sulla posizione di Usa e Israele, che vedono nei negoziati l’unica via percorribile per la pace (la pace dell’occupazione e delle colonie, naturalmente).

Resta da vedere quel che accadrà, ciò che è certo è che l’Unione Europea, in politica estera, si autocondanna a rimanere un nano inutile ed insignificante.

PA to file UN membership bid with Security Council
Elior Levy e AP – 15.9.2011

Il Ministro degli Esteri Palestinese Riad al-Malki ha dichiarato oggi che l’Autorità Palestinese presenterà la propria richiesta di pieno riconoscimento come stato membro dell’Onu al prossimo Consiglio di Sicurezza previsto per venerdì, 23 settembre.

La dichiarazione di Malki ha fatto cessare ogni congettura sulla possibilità che i Palestinesi alla fine avrebbero perseguito un avanzamento del loro status di osservatore al posto di una adesione a pieno titolo alle Nazioni Unite.

A seguito dell’annuncio, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto che si recherà a New York per parlare all’Assemblea Generale dell’Onu. Il suo discorso è stato fissato per mercoledì prossimo.

I Palestinesi hanno deciso di richiedere l’approvazione della loro richiesta da parte del Consiglio di Sicurezza, nonostante il fatto che gli Stati Uniti abbiano già dichiarato che vi opporrebbero il veto.

Perché la richiesta di riconoscimento palestinese passi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dovrebbe raccogliere un minimo di 9 voti sui 15 dei suoi membri. Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia – che sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza – hanno anche il potere di veto.

Rischio calcolato?

I Palestinesi originariamente avevano previsto di avanzare la richiesta all’Assemblea Generale dell’Onu, dov’erano certi della maggioranza. Gli Stati Uniti non esercitano un potere di veto nell’Assemblea Generale, dove vi sono anche dei consistenti blocchi di Paesi africani e musulmani – il che garantisce un risultato favorevole all’Autorità Palestinese – tuttavia le risoluzioni dell’Assemblea Generale sono simboliche e non hanno l’importanza di quelle emanate dal Consiglio di Sicurezza.

Mercoledì scorso il Presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato che gli sforzi per ottenere il riconoscimento dell’Onu ad uno Stato palestinese sono stati “irreversibili” e godono di un ampio sostegno internazionale, ma ha aggiunto che non significano la fine dei negoziati con Israele.

Abbas ha affermato che 126 paesi appoggiano l’iniziativa. Ha detto inoltre che non si tratta di una mossa simbolica, ma che rafforzerà la sua posizione negoziale nei confronti di Israele.

La mossa di giovedì rafforza la posizione espressa dagli alti funzionari di Ramallah, i quali ritengono che la campagna per il riconoscimento abbia superato il punto di non ritorno.
“Attualmente propendiamo per andare al Consiglio di Sicurezza. Non chiudiamo alcuna porta, ma pensiamo che sia troppo tardi per ogni nuova proposta”.

Tuttavia, fonti al corrente della mossa hanno affermato che sono in corso negoziati con i delegati dell’Unione Europea, nella speranza di concordare una bozza accettabile della richiesta palestinese all’Onu.

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13 settembre 2011

Il terrorismo ebraico aumenta il "price tag": minacce di morte a un'attivista di Peace Now

Come pochissimi sanno (visto che molti giornali e tv mistificano la realtà parlando ancora, ad esempio, di “territori contesi”), alla luce del diritto internazionale umanitario le colonie ebraiche in Cisgiordania sono illegali e andrebbero smantellate. Ma esistono poi dei piccoli insediamenti abitativi, i cosiddetti avamposti, che sono illegali persino per la stessa legge israeliana, eppure continuano ad esistere e a prosperare.

Qualche tempo addietro, con una decisione davvero inusuale, la Suprema Corte israeliana ha ordinato lo smantellamento di uno di questi avamporti, quello di Migron, entro il marzo del prossimo anno. L’insediamento vanta una sessantina di strutture abitative e circa 250 abitanti.

Per saggiare il terreno le autorità israeliane, qualche giorno fa, hanno provveduto a demolire tre case dell’avamposto, scatenando l’ira dei coloni e la cosiddetta rappresaglia del “price tag”, che consiste nel “far pagare il prezzo” delle demolizioni alle popolazioni arabe native. Così auto sono state date alle fiamme, al pari di una moschea, alberi e vigneti sono stati distrutti o danneggiati, moschee sono state imbrattate con scritte offensive nei confronti di Maometto e della religione musulmana.

Ma, stavolta, l’attività di “price tag” dei coloni ha subito una pericolosa escalation, segnalata dalla pianificazione degli attacchi e dalla creazione di un database dei possibili obiettivi da colpire, con due recenti eventi da mettere in particolare evidenza.

Il primo riguarda l’attacco vandalico ad una
base militare dell’esercito in Cisgiordania. E, come è facile intuire, è praticamente impossibile penetrare all’interno di una base dell’Idf senza avere l’appoggio o addirittura la fattiva collaborazione di uno o più militari.

Dal che traspare di tutta evidenza come l’esercito israeliano, o almeno alcuni suoi elementi, sia vicino e condivida le ragioni dei coloni; non è un caso che, durante gli scontri con i palestinesi, esso tenda naturalmente a schierarsi con i primi, assistendo impassibile ai danneggiamenti e alle aggressioni ai danni dei palestinesi se non addirittura schierandosi apertamente a fianco dei coloni. E cosa accadrebbe se, per pura ipotesi, si dovesse procedere ad uno smantellamento su larga scala delle colonie nella West Bank?

L’altro, preoccupante, avvenimento è stata la scoperta di alcuni graffiti di minaccia sulla facciata dell’abitazione di un’attivista di Peace Now, uno dei quali addirittura ne invocava l’assassinio. E’ appena il caso di ricordare che Peace Now è una organizzazione che si occupa del monitoraggio delle attività e dell’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e, proprio a seguito di un esposto dell’organizzazione, la Corte Suprema aveva deciso lo smantellamento dell’avamposto di Migron.

Del resto, avevamo già segnalato il sensibile incremento degli attacchi dei coloni israeliani ai danni dei palestinesi e delle loro proprietà, che fa segnare fino ad ora un +20% rispetto allo stesso periodo del 2010.

Il guaio è che, come ci ricorda
Gideon Levy, i coloni non sono i soli piromani che stanno incendiando il medio oriente, essendo in buona compagnia di una banda di “politici irresponsabili” e di “pericolosi piromani” che conducono Israele verso il vicolo cieco del totale isolamento.

SHIN BET: GLI ESTREMISTI DI DESTRA ISRAELIANI SI STANNO ORGANIZZANDO IN GRUPPI TERRORISTICI.
Un’attivista di Peace Now bersaglio di graffiti di minaccia nell’ultimo attacco “price tag” da parte dei coloni.
di Chaim Levinson – 13.9.2011


Secondo nuove analisi del servizio segreto Shin Bet, gli attivisti ebrei di estrema destra in Cisgiordania sono passati dagli atti spontanei contro gli arabi – a seguito della demolizione di abitazioni ebraiche da parte delle autorità israeliane o di attacchi terroristici contro ebrei – alla pianificazione organizzata che include l’uso di un database di potenziali bersagli.

I piccoli gruppi di estremisti ebrei, difficili da infiltrare, sorvegliano i villaggi arabi e raccolgono informazioni sui punti di accesso e sulle via di fuga nei villaggi. Essi raccolgono informazioni anche sugli attivisti di sinistra israeliani.

Un'attivista di sinistra lunedì è stato apparentemente l’ultima vittima di un “price tag”, quando graffiti di minaccia contro una leader di Peace Now sono stati scoperti sulla facciata del suo appartamento a Gerusalemme e in una vicina tromba delle scale. L’incidente segue l’attacco vandalico della scorsa settimana contro una base dell’esercito israeliano in Cisgiordania, in apparente vendetta per la demolizione di costruzioni ebraiche abusive in alcuni avamposti colonici.

Fonti dello Shin Bet osservano che gli attacchi pianificati contro arabi e attivisti di sinistra israeliani costituiscono a tutti gli effetti attività terroristica.

L’attivista di Peace Now, che ha chiesto che non venga rivelata la sua identità, ha raccontato che i suoi vicini l’hanno svegliata lunedì mattina per informarla dei graffiti. “Peace Now, la fine è vicina” recitava uno slogan. “Migron per sempre”, recitava un altro, con riferimento all’avamposto non autorizzato della Cisgiordania dove la scorsa settimana è stata effettuata la demolizione delle case. Il contenuto più minaccioso, tuttavia, fa uno specifico appello per l’assassinio della attivista di Peace Now.

“Sappiamo che c’è qualcuno che cerca di spaventarci”, ha detto ieri l’attivista, aggiungendo che alti ufficiali dell’Idf hanno fatto esperienza di incidenti simili. La polizia sta affrontando la questione, ha detto, esprimendo fiducia che i responsabili verranno trovati. La polizia di Gerusalemme non ha ancora effettuato alcun arresto relativo al caso.
In risposta all’attacco dei graffiti, l’organizzazione Peace Now ha dichiarato: “Gli incidenti rendono necessario adottare misure forti contro contro ciò che appare un nuovo movimento clandestino ebraico”.

L’attivista di Peace Now il cui appartamento è stato vandalizzato è una ben nota personalità della sinistra strettamente identificata con la sua organizzazione e coinvolta nel monitoraggio da parte del gruppo delle attività di insediamento ebraico in Cisgiordania. Ha chiesto che il suo nome non venga pubblicizzato in connessione con l’incidente per paura di essere minacciata direttamente. Ciononostante, ieri ha lavorato come al solito, visitando alcuni villaggi palestinesi nella zona di Ramallah per scattare foto della cosiddetta attività di “far pagare il prezzo”.

Domenica sera, alcuni coloni di Migron le cui case erano state demolite la scorsa settimana da parte dell’Idf e della polizia hanno tenuto una manifestazione di fronte lla residenza del Primo Ministro. Altri che si sono uniti alla protesta recavano con sé pezzi delle case demolite.

“Un atto spregevole è stato compiuto in Israele la scorsa settimana”, ha affermato Itai Harel, uno dei fondatori di Migron. “Una forza numerosa è venuta nel cuore della notte e ha lasciato 12 bambini senza un tetto sopra la testa. I giochi sono finiti a Migron”, ha aggiunto. Diverse ore dopo la manifestazione, si è verificato l’incidente dei graffiti nell’appartamento, che si trova nei pressi della residenza del Primo Ministro.

A partire dalla demolizione di tre case a Migron il 5 settembre, vi è stato anche un notevole aumento degli atti di violenza contro moschee e proprietà palestinesi. Nella notte in cui le tre case sono state rase al suolo, si è verificato un tentativo di incendio doloso in una moschea nel villaggio cisgiordano di Kusra, vicino Nablus.

Mercoledì scorso, alcune jeep e altro equipaggiamento militare dell’esercito israeliano sono stati vandalizzati. Giovedì, nel villaggio di Qabalan in Cisgiordania alcune auto sono state incendiate e nel villaggio di Yatma dei graffiti sono stati dipinti con lo spray sulla facciata di una moschea. Il giorno seguente, la facciata di una moschea è stata imbrattata con dei graffiti nella città palestinese di Bir Zeit, e ieri delle viti appartenenti a palestinesi di Halhul sono state danneggiate non lontano dall’insediamento di Karmel Tsur. Delle auto sono state inoltre incendiate nei villaggi arabi vicino a Migron.

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11 settembre 2011

Coloni israeliani incendiano un'abitazione nel villaggio palestinese di Susiya

Durante la notte tra l'8 e il 9 settembre nel villaggio palestinese di Susiya i coloni del vicino insediamento di Suseya hanno dato fuoco a un'abitazione mentre due palestinesi dormivano al suo interno.

Intorno all'una di notte i coloni hanno divelto un copertone inserito in un muretto nelle vicinanze e dopo avergli dato fuoco lo hanno lanciato contro il muro esterno della casa; la tenda di plastica che funge da tetto ha preso immediatamente fuoco. All'interno della casa si trovava una bombola del gas che è stata tempestivamente trasportata fuori dal proprietario svegliato dal fumo; una volta uscito l'uomo ha notato alcune luci che si dirigevano verso l'insediamento.

All'arrivo della polizia e dell'esercito israeliani, chiamati dagli abitanti del villaggio, le luci erano ancora visibili ma ne' i poliziotti ne' i militari hanno inseguito o fermato le persone che le portavano.

L'incendio è stato spento con l'acqua di una cisterna di proprietà degli abitanti del villaggio che fortunatamente si trovava vicino alla casa. Il propretario della casa è stato trasportato in ospedale per problemi respiratori causati dal fumo.

Gli abitanti del villaggio hanno raccontato che i militari israeliani hanno impedito ai mezzi di spegnimento palestinesi, provenienti dalla vicina città di Yatta, di avvicinarsi al luogo dell'incendio, minacciando di aprire il fuoco su di loro. “Loro (gli israeliani, ndr) non danno aiuto ai palestinesi” dice l'uomo che si trovava nella casa “In ogni caso qui c'erano degli esseri umani, qualcuno doveva fermare il fuoco, qualcuno doveva aiutarci. Ma questa è l'occupazione.”

Situato nelle colline a sud di Hebron, il villaggio di Susiya si trova esattamente tra il sito archeologico dell'antica Suseya e l'avamposto dell'insediamento israeliano di Suseya. Questo è l'ennesimo atto di violenza perpetrato dai coloni israeliani dell'area ai danni del villaggio. Il 28 dicembre 2010 è avvenuto un incidente simile: un'altra tenda usata come abitazione è stata incendiata durante la notte. L'obiettivo dei coloni è quello scacciare i palestinesi dalle loro terre per permettere l'espansione dell' insediamento.

Questo ennesimo “incidente” mostra l’escalation della violenza e la pericolosità dei coloni israeliani, che recentemente hanno dato fuoco ad una moschea nel villaggio di Qusra: al 6 settembre, gli incidenti ad opera dei coloni che hanno determinato il ferimento di palestinesi o il danneggiamento delle loro proprietà sono stati 253, a fronte dei 207 dello stesso periodo del 2010; i palestinesi feriti dai coloni israeliani sono stati ben 123 (71 nel 2010).

Come dimostra anche l’attentato di Susiya, il fenomeno della violenza dei coloni è favorito dalla totale assenza di misure di prevenzione da parte delle autorità israeliane, e dal totale disinteresse dell’esercito israeliano nel proteggere i palestinesi e nell’arrestare i colpevoli di questi atti vili e criminali.

Al contrario, spesso i soldati israeliani prendono le difese dei coloni quando costoro compiono le loro razzie e si scontrano con i residenti della West Bank, come è accaduto ancora a Qusra il 26 agosto, quando un 23enne palestinese è stato ferito dal fuoco delle truppe di Tsahal mentre cercava di impedire che alcuni coloni danneggiassero gli alberi del villaggio.

E’ appena il caso di ricordare che secondo la IV Convenzione di Ginevra, la II Convenzione dell'Aja, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni ONU, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la legge israeliana.

(fonte: sito web Operazione Colomba e OCHA)







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Tre morti e oltre mille feriti al Cairo nell'assalto all'ambasciata israeliana.

Ancora gravi disordini in Egitto per le manifestazioni di protesta popolare contro Israele a seguito dell’uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane per opera dell’esercito israeliano, proteste che non accennano minimamente a placarsi.

Anche stavolta, come nel caso della crisi diplomatica con la Turchia, tutto nasce dall’eccesso di forza e dalle uccisioni indiscriminate dell’esercito israeliano, le cinque guardie di frontiera egiziane uccise dal fuoco degli elicotteri e delle truppe di Tsahal durante la caccia agli attentatori di Eilat, i nove attivisti turchi trucidati a bordo della Mavi Marmara, nave che faceva parte della Freedom Flotilla.

E nasce, soprattutto, dallo smisurato orgoglio e dal senso di onnipotenza di Israele, che gli impedisce di avanzare quelle scuse formali che avrebbero riportato la calma e impedito il degenerare della situazione.

Ma anche nel caso dell’uccisione dei soldati egiziani, il massimo che ha saputo fare il governo israeliano, per bocca del ministro Barak, è stato esprimere il proprio “rammarico”, come se a causarne la morte fosse stato un accidente naturale o il destino cinico e baro.

E si dimostra ancora, come se ce ne fosse bisogno, che lasciare mano libera a Israele nel suo uso incontrollato della propria potenza bellica, nei suoi raid, nei suoi crimini, non equivale affatto a fargli un favore o a dimostrargli amicizia, bensì, all’opposto, lo condanna all’odio e all’isolamento, e perpetua nella regione un clima di pericolosa tensione.


IL CAIRO - Si aggrava il bilancio delle violenze di ieri notte nei pressi dell'ambasciata di Israele al Cairo. Secondo fonti del ministero della Sanità ci sono tre vittime, mentre i feriti sono saliti a 1.049. E' intanto rientrato in Israele l'ambasciatore israeliano al Cairo insieme al suo staff, evacuati dall'ambasciata in Egitto dopo l'attacco alla sede da parte di manifestanti. Ora sarà il console israeliano, delegato agli Affari di Stato e rimasto al Cairo, a reggere l'ambasciata.


Respinte dimissioni Sharaf. Il premier egiziano Essam Sharaf ha offerto oggi le sue dimissioni, insieme ai ministri del suo gabinetto, per "l'incapacità mostrata ieri sera nel fronteggiare le proteste di piazza". Le dimissioni sono state comunque respinte dal consiglio militare egiziano, che detiene il potere da quando lo scorso febbraio è stato rovesciato il regime dell'ex presidente Hosni Mubarak.


Nella capitale egiziana intanto continuano gli scontri fra manifestanti e polizia nei pressi della sede diplomatica e dell'università, dove questa mattina si è udita una sparatoria con armi automatiche. I disordini erano iniziati ieri, dopo la preghiera del venerdì, quando è esplosa la protesta per l'uccisione da parte degli israeliani di cinque guardie di frontiera egiziane dopo gli attentati di Eilat 1


La rappresentanza diplomatica è stata assaltata da una folla di manifestanti egiziani, che prima hanno demolito il muro di protezione dell'edificio, poi sono entrati, lanciando documenti dalle finestre e costringendo l'ambasciatore a una precipitosa fuga in aeroporto. Il premier Netanyahu ha chiamato Obama per chiedere aiuto, il presidente americano ha invitato l'Egitto a garantire la sicurezza della sede diplomatica. Il ministro dell'Interno egiziano ha dichiarato lo stato di allerta, decine di blindati sono accorsi sul posto e ci sono stati scontri tra forze di sicurezza e manifestanti.


Per Netanyahu si è trattato di un "incidente serio" e una "grave offesa". Si è "evitato un disastro", ha aggiunto, ringraziando Barack Obama per il sostegno. Nei momenti più tesi dell'assalto, sei membri dello staff della rappresentanza diplomatica sono rimasti intrappolati all'interno dell'edificio e sono stati salvati solo grazie all'intervento delle teste di cuoio egiziane. Lo ha riferito alla Bbc un funzionario del governo israeliano.


In Israele è stata attivata un'unità di crisi, presso la sede del ministero degli Esteri a Gerusalemme, dove è giunto anche il ministro, Avigdor Lieberman. Per la leader di Kadima, il partito di opposizione centrista israeliano, ed ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, l'attacco rappresenta "un grave incidente", ma lo storico trattato di pace del 1979 - il primo sottoscritto dallo Stato ebraico con un Paese arabo - "deve essere mantenuto, a dispetto di una folla rabbiosa di strada".


A scatenare le proteste degli egiziani era stata la decisione delle autorità locali di erigere una protezione a difesa della rappresentanza diplomatica israeliana, oggetto di numerose manifestazioni, soprattutto dopo l'uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane dopo gli attentati di Eilat. Secondo i manifestanti, l'Egitto dovrebbe seguire l'esempio della Turchia e del suo premier Recep Tayyeb Erdogan, che ha espulso l'ambasciatore israeliano e ha ritirato il suo in Israele in segno di protesta contro le mancate scuse per l'attacco alla flottiglia delle libertà lo scorso anno. Erdogan è atteso al Cairo lunedì, una visita che sta generando grande attesa.


Cdm Egitto: "Protezione ambasciate e misure severe". L'Egitto esprime il suo impegno "a rispettare tutti gli obblighi e accordi internazionali compresi quelli per la protezione di ambasciate e di missioni diplomatiche sul suo territorio". E' quanto emerge dalla riunione straordinaria del Consiglio dei ministri e del Consiglio supremo militare, che ha anche decretato che "Le forze dell'ordine reagiranno agli episodi di vandalismo con misure "ferme e severe" e utilizzeranno "il loro diritto a difendersi ricorrendo a tutte le regole

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7 settembre 2011

Al contrario di quanto accade in Israele, nella colonia di Ariel non c'è crisi di alloggi

Nonostante non vi sia necessità di alloggi, il governo israeliano continua a costruire nell’insediamento colonico di Ariel, mentre negli ultimi sei anni gli israeliani che hanno lasciato la colonia sono più di quelli che vi sono andati ad abitare. Un fatto questo su cui dovrebbero riflettere le decine di migliaia di israeliani che in questi giorni riempiono per protesta con le loro tende le strade di Tel Aviv e di altre città d’Israele.

I dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica mostrano chiaramente che nella colonia di Ariel, in Cisgiordania, non c’è una crisi di alloggi e non c’è alcuna giustificazione per continuare a costruire. Dal 2003 al 2009 ogni anno (ad eccezione del 2007) l’immigrazione di Ariel è stata negativa – il che significa che sono state più le persone che hanno lasciato l’insediamento di Ariel di quelle che sono andate a risiedervi. Il numero totale dei residenti di Ariel negli anni è aumentato di poco, principalmente per la crescita naturale (più nascite che morti). Tuttavia, è ben noto che i bambini hanno poco bisogno di un proprio appartamento, almeno fino all’età di 18 anni. Negli ultimi anni, la leadership dei coloni ha iniziato a mandare un gruppo di coloni religiosi a risiedere nella colonia, al fine di “rafforzare Ariel”. Questo potrebbe essere un altro indizio che l’israeliano medio non si trasferisce ad Ariel.

Nonostante il fatto che non vi sia grande richiesta di nuove abitazioni, le costruzioni continuano. Dall’inizio del saldo migratorio negativo nel 2003 fino al 2009, ad Ariel è iniziata la costruzione di 402 nuove case.

In breve molti residenti hanno lasciato Ariel, alcuni di questi appartamenti vuoti sono stati forse affittati dagli studenti della locale scuola superiore – ma non vengono utilizzati da coloni che hanno fatto di Ariel la loro residenza permanente. A causa della mancanza di domanda, le costruzioni in corso si tradurranno in appartamenti più a buon mercato.

(fonte: Peace Now)

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5 settembre 2011

La legge del contrappasso colpisce i viaggiatori israeliani

L’edizione on line del quotidiano Ha’aretz stamattina ha diffuso la notizia secondo cui una quarantina di passeggeri israeliani di un volo delle Turkish Airlines da Tel Aviv, al momento del loro arrivo ad Istanbul, sono stati separati dal resto dei passeggeri e interrogati a lungo dalla polizia turca, in un evento definito “grave” e “altamente inusuale” dal Ministero degli esteri israeliano, che di tutta evidenza si ricollega alla profonda crisi diplomatica in atto tra Israele e Turchia.

La polizia turca ha preso i passaporti degli israeliani all’arrivo e ha interrogato separatamente e a lungo ciascuno di essi; soltanto dopo gli è stato riconsegnato il documento e sono stati lasciati liberi di andare.

Anche numerosi passeggeri di un volo dalla Thailandia verso Israele con scalo in Turchia hanno dichiarato di essere stati trattati dalle autorità turche in maniera umiliante. “Mi hanno fatto spogliare fino alla biancheria intima. Lo ha fatto un ufficiale donna, ma non è stata particolarmente gentile. Mi ha ricordato i racconti che mia nonna mi faceva del suo passato”, ha raccontato Alina, una dei passeggeri del volo.

Come al solito, anche per uno spiacevole incidente come questo, prevale l’abitudine tutta israeliana di ricordare le discriminazioni razziali e le persecuzioni che gli ebrei hanno dovuto subire in passato.

Eppure Israele e gli israeliani sono i massimi esperti al mondo di fastidiosi ed umilianti interrogatori ed ispezioni di passeggeri sui loro voli. Con il contorno di incidenti diplomatici, di vergognose ritorsioni ai danni di funzionari Onu “sgraditi”, di persecuzione degli attivisti pro-Palestina, di una costante pratica – in palese violazione dei diritti umani degli arabi – del “racial profiling”.

Per una volta tanto, tocca ai bravi passeggeri israeliani assaggiare il trattamento riservato da Israele a coloro che ne minacciano la “sicurezza”.

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4 settembre 2011

The zionist machine


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1 settembre 2011

L'infamia di Israele, un paese che arresta e tortura i ragazzini

La politica di Israele nei confronti delle manifestazioni di protesta in Cisgiordania è molto semplice: repressione brutale e spietata. E questa politica si rivolge in buona parte contro quello che si ritiene il punto debole del fronte di lotta palestinese contro l’occupazione, i bambini e i ragazzi.

Così, nel cuore della notte, squadre della miglior feccia di Tsahal vengono inviate ad arrestare ragazzini anche dodicenni con l’accusa, il più delle volte campata in aria, di aver tirato delle pietre durante cortei e manifestazioni di protesta. Si tratta, in realtà, di un pretesto dal doppio scopo: spaventare e dissuadere dalla lotta contro l’occupazione i più piccoli e i più indifesi e, soprattutto, ottenere false confessioni per incriminare ed arrestare gli adulti.

E ciò avviene in piena violazione dei diritti umani di questi ragazzi, e in palese contrasto con norme e convenzioni internazionali e persino della stesse legge israeliana: ragazzini arrestati in piena notte, bendati e ammanettati, picchiati e torturati, interrogati senza la presenza di genitori o avvocati, costretti a firmare false confessioni, per di più scritte in lingua abraica.

Un record che fa orrore e desta sconcerto, persino per uno stato-canaglia come quello israeliano.

Come Israele si vendica dei ragazzi che tirano pietre.
Un video visionato da Catrina Stewart rivela i brutali interrogatori dei giovani palestinesi
26.8.2011

Il ragazzo, piccolo e fragile, lotta per restare sveglio. La testa gli ciondola da un lato, ad un certo punto gli crolla sul petto. “Alza la testa! Alzala!” grida uno di quelli che lo interrogano, schiaffeggiandolo. Ma il ragazzo ormai non se ne cura, perché è sveglio da almeno dodici ore da quando è stato separato dai suoi genitori sotto la minaccia delle armi alle due di quella mattina. “Vorrei che mi lasciaste andare”, piagnucola il ragazzo, “così posso dormire un poco.”

Nel video di quasi sei ore, il 14enne palestinese Islam Tamimi (nella foto, n.d.r.), esausto e spaventato, viene gradualmente logorato fino al punto in cui comincia ad accusare gli uomini del suo villaggio e a creare delle storie fantastiche che ritiene che i suoi aguzzini vogliano sentire.

Questo filmato quasi mai visto, visionato dall’Independent, offre uno scorcio di un interrogatorio israeliano, quasi un rito di passaggio che centinaia di ragazzini palestinesi accusati di aver lanciato pietre subiscono ogni anno.

Israele ha difeso con fermezza il suo comportamento, sostenendo che il trattamento dei minori è notevolmente migliorato con la creazione, due anni fa, di un tribunale militare minorile. Ma i ragazzi che hanno affrontato la dura giustizia dell’occupazione raccontano una storia molto diversa.

“I problemi nascono ben prima che i ragazzini vengano condotti in tribunale, cominciano con il loro arresto”, afferma Naomi Lalo, un’attivista di No Legal Frontiers, un’associazione israeliana che monitora i tribunali militari. E’ durante l’interrogatorio che il loro “destino è segnato”, sostiene.

Sameer Shilu, 12 anni, stava dormendo quando i soldati una notte hanno sfondato la porta d’ingresso della sua casa. Lui e suo fratello maggiore sono venuti fuori dalla camera da letto con gli occhi annebbiati per scoprire sei soldati mascherati nel loro salotto.

Controllando il nome del ragazzo sulla carta d’identità del padre, l’ufficiale sembrava “scioccato” quando ha visto che doveva arrestare un ragazzino, racconta il padre di Sameer, Saher. “Gli ho detto, ‘E’ troppo piccolo; perché lo ricercate?’ ‘Non lo so,’ rispose”. Bendato, e con le mani legate dolorosamente dietro la schiena con delle fascette di plastica, Sameer è stato spinto dentro ad una jeep, mentre il padre gli gridava di non spaventarsi. “Abbiamo pianto, tutti noi, “ racconta suo padre. “Conosco i miei figli, loro non tirano pietre”.

Nelle ore precedenti il suo interrogatorio, Sameer è stato tenuto bendato e ammanettato, e gli è stato impedito di dormire. Accompagnato finalmente per un interrogatorio senza la presenza di un avvocato o di un genitore, un uomo lo ha accusato di aver partecipato ad una manifestazione, e gli ha mostrato il filmato di un ragazzo che tirava pietre, sostenendo che era lui.

“Disse, ‘Questo sei tu’, e io risposi che non ero io. Poi mi chiese, ‘Chi sono questi?’ e io dissi che non lo sapevo”, racconta Sameer. “A un certo punto, l’uomo ha cominciato a gridare contro di me, e mi ha afferrato per il bavero, e ha detto ‘Ti butterò dalla finestra e ti picchierò con un bastone se non confessi’.”

Sameer, che protestava la sua innocenza, è stato fortunato; è stato rilasciato poche ore dopo. Ma la maggior parte dei ragazzi sono costretti a firmare una confessione, impauriti dalle minacce di violenza fisica o dalle minacce contro le loro famiglie, come il ritiro dei permessi di lavoro.

Quando viene firmata una confessione, gli avvocati solitamente consigliano ai ragazzi di accettare un patteggiamento e di scontare una pena detentiva stabilita anche se non colpevoli. Dichiararsi innocente significa provocare lunghi procedimenti giudiziari, durante i quali il ragazzo è quasi sempre detenuto in carcere. Le assoluzioni sono rare. “In un tribunale militare, devi sapere che non ti aspetti giustizia,” afferma Gabi Lasky, un avvocato israeliano che ha rappresentato molti ragazzi.

Vi sono molti ragazzini palestinesi nei villaggi della Cisgiordania sotto l’ombra del muro di separazione israeliano e delle colonie ebraiche sulle terre dei Palestinesi. Laddove sono nate manifestazioni di protesta in gran parte non-violente come forma di resistenza, vi sono dei ragazzini che tirano pietre, e le incursioni israeliane sono abituali. Ma gli avvocati e le associazioni per i diritti umani hanno criticato la politica israeliana degli arresti che nei villaggi che resistono all’occupazione hanno come obiettivo i ragazzini.

Nella maggior parte dei casi, bambini anche di dodici anni vengono buttati giù dai letti di notte, ammanettati e bendati, privati del sonno e del cibo, sottoposti a lunghi interrogatori, infine costretti a firmare una confessione scritta in ebraico, una lingua che pochi di loro sanno leggere.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha concluso che “i diritti dei minori vengono gravemente violati, che la legge non riesce quasi per nulla a proteggere i loro diritti, e che i pochi diritti garantiti dalla legge non sono resi effettivi”.

Israele afferma di trattare i minori palestinesi nello spirito del proprio diritto minorile ma, nella pratica, è raramente il caso. Per esempio, i ragazzini non dovrebbero essere arrestati di notte, gli avvocati e i genitori dovrebbero essere presenti durante gli interrogatori, e ai bambini dovrebbero essere letti i loro diritti. Ma queste sono considerate delle linee guida, piuttosto che un obbligo di legge, e spesso vengono ignorate. E Israele considera i propri giovani come ragazzi fino all’età di 18 anni, mentre i palestinesi sono visti come adulti dai 16.

Avvocati ed attivisti affermano che più di duecento ragazzi palestinesi si trovano nelle prigioni israeliane. “Volete arrestare questi ragazzini, volete processarli,” dice la Sig.ra Lalo. “Bene, ma fatelo secondo la legge israeliana. Dategli i loro diritti”.

Nel caso di Islam, il ragazzo del video, il suo avvocato, la Sig.ra Lasky, ritiene che il video fornisca la prima prova concreta di gravi irregolarità nel suo interrogatorio.

In particolare, la persona che interrogava Islam ha omesso di informarlo del suo diritto a restare in silenzio, proprio mentre il suo avvocato supplicava inutilmente di vederlo. Al contrario, l’interrogante ha spinto Islam a raccontare tutto a lui e ai suoi colleghi, facendo intendere che se lo avesse fatto, sarebbe stato rilasciato. Uno di quelli che lo interrogavano allusivamente colpiva il palmo della sua mano con il pugno chiuso.

Alla fine Islam, scoppiando a piangere singhiozzando, ha ceduto ai suoi inquisitori, mostrando di fornir loro tutte le informazioni che vogliono sentire. Mostratagli una pagina di fotografie, la sua mano si muove debolmente sopra di esso, identificando gli uomini del suo villaggio, che verranno tutti arrestati per aver partecipato alla protesta.

La Sig.ra Lasky spera che questo filmato cambierà il modo in cui vengono trattati i ragazzini nei territori occupati, in particolare convincendoli ad accusare altri, il che secondo gli avvocati costituisce l’obiettivo primario degli interrogatori. Il video ha aiutato ad ottenere il rilascio di Islam e gli arresti domiciliari, e potrebbe anche portare ad una piena assoluzione dall’accusa di aver lanciato pietre. Ma in questo momento, un curvo e silenzioso Islam non si sente fortunato. A qualche metro di distanza dalla sua casa a Nabi Saleh c’è l’abitazione di sua cugina, il cui marito si trova in prigione in attesa del processo insieme ad una dozzina di altri in forza della confessione di Islam.

La cugina è magnanima. “Lui è una vittima, è solo un ragazzino,” dice Nariman Tamimi, 35 anni, il cui marito Bassem, 45 anni, è in carcere. “Non dobbiamo biasimarlo per ciò che è accaduto. Era sotto una enorme pressione”.

La politica di Israele in un certo senso ha avuto successo, seminando la paura tra i ragazzi e dissuadendoli da future dimostrazioni. Ma i ragazzi sono rimasti traumatizzati, soggetti ad incubi e ad enuresi notturna. La maggior parte devono perdere un anno di scuola, o persino ritirarsi.

I critici nei confronti di Israele sostengono che la sua politica sta creando una nuova generazione di attivisti dal cuore pieno di odio verso Israele. Altri affermano che sta macchiando la reputazione del paese. “Israele non ha alcun motivo di arrestare questi ragazzi, di processarli, di opprimerli,” dice la Sig.ra Lalo, con gli occhi lucidi. “Non sono i nostri figli. Il mio paese sta facendo così tanti torti e li giustifica. Dovremmo essere un esempio, ma siamo diventati uno stato oppressivo”.

Dati sulla detenzione minorile

7.000 Il numero stimato di giovani palestinesi detenuti e processati dai tribunali militari israeliani dal 2000, secondo un rapporto di Defence for Children International Palestine.

87% La percentuale di minori sottoposti ad una qualche forma di violenza fisica durante la detenzione. Si stima anche che circa il 91% ad un certo punto della detenzione sia stato bendato.

12 anni L’età minima per la responsabilità penale, secondo quanto previsto dall’Ordine Militare n.1651.

62% La percentuale dei ragazzi arrestati tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

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