26 gennaio 2011

I negoziati farsa e il tradimento dell'Anp.

Dei cosiddetti “Palestine Papers” – i quasi 1.700 documenti segreti trafugati dai computer della Palestinian Negotiation Support Unit (NSU) e pubblicati in contemporanea dai siti web del Guardian e di al-Jazeera – molto si è parlato e si parlerà ancora.

Dalla lettura delle prime risultanze, due cose saltano subito agli occhi. La prima: come afferma Lucio Caracciolo su Limes, i negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi fino ad oggi non sono stati altro che una farsa, utile solo a perpetuare “il controllo israeliano sui Territori occupati, formalmente subappaltato al governo fantasma di Abu Mazen, a sua volta sovvenzionato dall’estero, in particolare da noi europei”.

La seconda: l’incredibile e vergognoso tradimento di una leadership palestinese corrotta e priva di legittimazione, pronta ad ogni compromesso persino sulle fondamentali questioni relative a Gerusalemme est e al diritto al ritorno dei profughi palestinesi pur di conservare il potere e, soprattutto, il generoso sostegno finanziario occidentale.

Resta da chiedersi che senso abbia tutto questo per noi occidentali, se davvero abbiamo a cuore la pace in quest’area tormentata. Perché nessuna pace duratura potrà mai essere raggiunta da una leadership debole e corrotta, nessun accordo di pace potrà mai essere approvato dal popolo palestinese ove non conduca alla creazione di uno stato sovrano nei confini pre-1967 con Gerusalemme est come capitale e non contempli il caposaldo di un soddisfacimento del diritto al ritorno dei profughi che non sia soltanto simbolico.

Sull’argomento, da diverse prospettive, gli interessanti articoli di Lucio Caracciolo e di Khalid Amayreh (tradotto a cura di Agenzia di stampa Infopal – www.infopal.it).

Se trattare è una finzione
di Lucio Caracciolo – 25.1.2011

Il negoziato israelo-palestinese è una tragicommedia.

Di fatto, non è nemmeno una trattativa.

È un teatro allestito per l'opinione pubblica internazionale che serve a perpetuare lo status quo. Ossia il controllo israeliano sui Territori occupati, formalmente subappaltato al governo fantasma di Abu Mazen, a sua volta sovvenzionato dall'estero, in particolare da noi europei.

Con gli americani vestiti da mediatori, preoccupati più di mantenere in vita questa triste recita che di risolvere una disputa irresolubile. O meglio risolta sul terreno in base agli attuali rapporti di forza, segnati dalle vittorie militari di Israele.

I Palestinian papers che Al Jazeera e Guardian stanno centellinando sul web – quasi 1.700 documenti segreti sui rapporti fra israeliani, palestinesi e americani, relativi al periodo 1999-2010 – disegnano un quadro disperante.

Con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) disposta a tutto pur di sopravvivere – e continuare a ricevere i finanziamenti internazionali che ne tengono in vita il pletorico apparato – mentre gli israeliani respingono ogni offerta e si esibiscono in studiate manifestazioni di arroganza.

Se il negoziato è mai esistito, è sempre stato degli israeliani con se stessi e con il presidente americano di turno.

Non che i files finora pubblicati segnalino straordinarie novità. Molte delle “offerte” di Saib Erekat e degli altri negoziatori palestinesi erano note.

Ma per l'opinione pubblica palestinese è umiliante leggere nero su bianco come gli uomini di Abu Mazen fossero pronti a concedere a Israele «la più grande Gerusalemme della sua storia» (Erekat), inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici illegali nella zona orientale della città, oltre alla disponibilità ad affidare a un comitato internazionale il controllo dello Haram al-Sharif (Monte del Tempio).

Gli uffici dell'Anp hanno smentito tutto e accusato Al Jazeera di aver manipolato la verità.

Alcune centinaia di militanti di al-Fatah hanno vendicato l'affronto attaccando gli uffici della tv qatarina a Ramallah al grido di «Al Jazeera uguale Israele».

Hamas ha colto l'occasione per accusare l'Anp e Israele di lavorare insieme alla liquidazione della questione palestinese, quasi non fosse già chiusa.

Fioccano le teorie del complotto. Il giornale israeliano Maariv indica in Mohammed Dahlan, boss palestinese da tempo sospettato di fare il doppio o triplo gioco, la possibile “gola profonda”.

Di certo la reputazione già assai pallida del vecchio Abu Mazen e del suo gruppo dirigente è definitivamente compromessa.

In attesa delle prossime rivelazioni e di analisi più approfondite dell'enorme massa di carte e mappe, ciò che resta del teatrino negoziale allestito da Obama con gran fanfara appare spazzato via.

Netanyahu non ha tempo da perdere con Abu Mazen. E quest'ultimo non è in grado di rappresentare un popolo oppresso e ingannato dai suoi stessi dirigenti.

In attesa che gli estremisti più radicali, che hanno trasformato la causa palestinese in uno scontro di religione in salsa jihadista, profittino dell'esasperazione delle frange più giovani e combattive di una popolazione che non crede più in un futuro migliore.

Resta da capire se per noi europei mantenere in vita questa finzione, pagando in cambio di nulla una pseudo-leadership debole e corrotta, abbia ancora un senso. Ammesso l'abbia mai avuto.


Se è tutto vero, è alto tradimento.
di Khalid Amayreh – 26.1.2011

Se le rivelazioni fatte domenica sera su Al Jazeera riguardo ai segreti di anni di trattative tra Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp) sono vere (e non ho il minimo dubbio che lo siano), allora non possiamo sfuggire alla conclusione che chiunque abbia accordato queste incredibili concessioni al regime sionista è un traditore.

Traditore della Palestina, traditore del suo popolo, traditore dei suoi martiri, e traditore delle moltitudini di politici e combattenti della resistenza che languono dietro le sbarre delle carceri israeliane.

Al Jazeera sostiene di aver rinvenuto ben 1.600 documenti, che sono in realtà minute d'incontri avvenuti tra i funzionari palestinesi, israeliani e statunitensi.

Secondo il materiale reso pubblico, i negoziatori palestinesi hanno effettivamente accettato di cedere a Israele il cuore di Gerusalemme, liquidare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e scambiare “terra occupata con altra terra occupata”.

L'Anp ha anche servito ed agito in qualità di subappaltatrice d'Israele ricercando, arrestando, tormentando e persino torturando i palestinesi sospettati di essere coinvolti nella resistenza anti-israeliana.

È inoltre previsto che Al Jazeera riveli ulteriori materiali incriminanti su altre questioni riguardanti le negoziazioni, inclusi i rifugiati e le collaborazioni a livello di sicurezza. Il risultato sarà quello di smascherare la stupidità, irresponsibilità e inferiorità dei negoziatori e funzionari dell'Anp.

Questi ultimi, profondamente imbarazzati e stupiti dalle sconvolgenti rivelazioni, si sono trovati particolarmente incapaci a spiegare quel che è successo veramente.

Sa'eb 'Ereqat, la cui firma è stata mostrata su molti dei fogli resi pubblici, ha cercato invano di eludere il problema reale, rimproverando ad Al Jazeera di aver scelto il momento sbagliato per diffondere questo genere d'informazioni.

Altri membri dell'Anp hanno negato l'autenticità dei documenti, affermando che alcuni di essi sarebbero in realtà fasulli: una possibilità piuttosto lontana, considerando le firme personali di personalità palestinesi, israeliane e statunitensi che li sanciscono.

Oltre ad esprimere la propria disponibilità ad accordare la maggior parte di Gerusalemme est occupata all'illegittimo regime sionista, i fogli mostrano anche come l'Anp fosse seriamente pronta ad approvare enormi concessioni sull'altro argomento di fondamentale importanza, ovvero i rifugiati.

Secondo le offerte fatte, l'Autorità di Ramallah avrebbe infatti accettato di far ritornare nella Palestina occupata dal 1948 solo 100mila degli abitanti che furono sradicati dalle loro case con la minaccia delle armi. Questo, inoltre, dovrebbe avvenire nell'arco di dieci anni, al ritmo di 10.000 profughi rimpatriati ogni anno.

Traditi alla luce del sole

Di sicuro, non ci siamo mai aspettati che l'Anp ripetesse l'esempio del Saladino: i suoi membri non hanno abbastanza dignità da guadagnarsi un simile onore.

In molti hanno occasionalmente cercato di assicurarci che costoro si sarebbero mantenuti fedeli alle costanti nazionali, che conoscono praticamente l'approvazione di tutte le fazioni della politica e della resistenza palestinesi, continuando a rappresentare il minimo che un palestinese potrebbe definire un consenso.

Adesso, persino questo consenso rattoppato viene infranto e abbandonato da persone che sostengono di essere i custodi del sogno palestinese di libertà e indipendenza. L'attuale leadership in Palestina non fa che mentire spudoratamente alla popolazione, e indulge in veri e propri atti di perfidia.

Siamo davanti a qualcosa di più di un semplice deviare da aspirazioni e obiettivi nazionali preziosi e portati avanti da lungo tempo: questo è alto tradimento, puro e semplice.

Dico tradimento, perché nessuno ha autorizzato Mahmud 'Abbas, Sa'eb 'Ereqat, Ahmad Qrei' e il resto della compagnia a compromettere o a svendere i diritti inalienabili del nostro popolo.

In fondo, Gerusalemme è patrimonio dell'intera 'Umma [la comunità islamica, ndr]. In ultima analisi, se 'Omar Ibn al-Khattab fece ingresso nella città sacra e il Saladino la liberò dalle mani dei Franchi, non fu certo per il bene del nazionalismo arabo.

Cedere ai sionisti la città, o ampi settori di questa, rappresenta quindi un tradimento scandaloso, non solo nei confronti di chi ha perso la vita per la causa fin dal 1948, ma anche di numerose generazioni di palestinesi, arabi e musulmani vissute fin dal 637 d. C., quando il califfo 'Omar il Giusto entrò nella città e diede ai suoi abitanti il suo famoso statuto, conosciuto come al-'Uhda al-'Omariyya.

Per concludere in bellezza, l'Anp e i suoi membri cercano di nascondere la vergogna insistendo nel dire che i documenti in questione sono sempre stati condivisi “con i nostri fratelli” in Egitto, Giordania, Arabia Saudita e altri paesi.

Ebbene, una simile scusa è peggiore di un peccato mortale: da quando l'alto tradimento può essere giustificato se scusato, avallato ed accettato da “altri tiranni arabi”, la cui priorità nella vita è restare al potere, preferibilmente con il beneplacito degli Stati Uniti?

Dopotutto, compiacere Israele vuol dire compiacere gli Usa, e niente compiacerebbe Israele – e quindi gli Usa – più della cessione di Gerusalemme, o di gran parte di essa. E poi, quando mai questi “Fratelli Arabi” si sono preoccupati davvero di Gerusalemme, o della Palestina in genere?

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Le cattive amicizie israeliane sono amici ancora peggiori del popolo ebraico.

Vi è una contraddizione – come vedremo in realtà solo apparente – tra il fatto che diverse figure di spicco dell’estrema destra europea si professano grandi amiche di Israele e la loro militanza all’interno di formazioni politiche talvolta influenzate da ideologie antisemite.

Ci spiega perché Ian Buruma in questo articolo pubblicato sul Daily Star lo scorso 13 gennaio, e qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

Ultimamente Israele ha ricevuto delle visite piuttosto particolari. Il populista olandese Geert Wilders è un frequente visitatore, il quale non perde occasione per ricordare ad un pubblico bendisposto che Israele è in prima linea nella guerra dell’Occidente contro l’Islam. E a dicembre una delegazione di politici europei di estrema destra ha intrapreso un tour per gli insediamenti ebraici della Cisgiordania occupata, e ha compiaciuto i suoi ospiti rassicurandoli sul fatto che quella sarebbe “terra ebraica”.

Alcuni di questi “amici di Israele” rappresentano partiti politici i cui sostenitori non sono tradizionalmente noti – per usare un eufemismo – per i loro sentimenti fraterni nei confronti degli ebrei. Heinz-Christian Strache, per esempio, è a capo del Partito della Libertà in Austria, il quale ha iniziato le sue attività politiche, con il defunto fondatore e leader Jorg Haider, adulando degli ex nazisti. “Più forza per il nostro sangue viennese”, tanto per citare uno dei suoi slogan elettorali, dà un’idea del tono usato da Strache. Il suo collega belga, Filip Dewinter, rappresenta un partito nazionalista fiammingo che si macchiò di collaborazionismo con i nazisti ai tempi della guerra.

Sicuramente al giorno d’oggi anche i politici di destra in Europa sono attenti a non sembrare apertamente antisemiti. Wilders, per esempio, è ostentatamente filosemita, e tutti i membri della nuova destra tengono a sottolineare l’importanza di quelli che essi chiamano “valori giudaico-cristiani”, i quali dovrebbero essere difesi contro l’”islamofascismo”.

I critici liberali e di sinistra della politica israeliana tengono a precisare che l’anti-sionismo e l’antisemitismo sono due cose distinte. Ma è altrettanto vero che essere amico di Israele non è necessariamente la stessa cosa che essere amico degli ebrei.

Richard Nixon, ad esempio, degli ebrei disse che “non ci si può fidare dei bastardi”, ma era un grande ammiratore di Israele. E, naturalmente, gli ultimi 2.000 anni hanno dimostrato che l’antisemitismo è perfettamente compatibile con l’adorazione di un ebreo chiamato Gesù di Nazareth. Negli Stati Uniti, alcuni dei più accaniti difensori del sionismo intransigente sono cristiani evangelici che credono fermamente che agli ebrei che rifiutano di convertirsi al cristianesimo un giorno verrà inflitta una terribile punizione.

A volte, le “cattive compagnie” possono rivelarsi utili. Quando Theodor Herzl fece il giro dell’Europa alla fine del XIX secolo, in cerca di sostegno per la creazione di uno Stato per gli ebrei, venne spesso respinto da ricchi e potenti notabili ebrei che lo vedevano come un piantagrane. Invece, trovò dei ferventi sostenitori tra i devoti protestanti, per i quali gli ebrei appartenevano alla loro Terra Santa piuttosto che all’Europa.

Dopo che fu istituito lo stato ebraico, i primi amici europei di Israele erano spesso persone di sinistra, le quali ammiravano la vita comunitaria dei kibbutz e vedevano in Israele un grande esperimento socialista, guidato da vecchi e saggi idealisti di sinistra, come David Ben Gurion. Il residuo senso di colpa per l’Olocausto rafforzò questo atteggiamento.

Le cose cominciarono a cambiare dopo la guerra del 1967, e ancor più dopo la guerra dello “Yom Kippur” dell’ottobre del 1973, quando ormai divenne chiaro che Israele non aveva alcuna intenzione di rinunciare ai territori palestinesi che aveva conquistato. Più tardi, quando Israele iniziò a costruire insediamenti in tutti i territori occupati, l’ammirazione si trasformò addirittura in ostilità attiva tra la sinistra europea.

Per molte persone di destra, tuttavia, ciò che veniva deplorato dalla sinistra europea (e israeliana) diventò motivo di ammirazione nei confronti di Israele. A questi nuovi “amici” piacque l’uso spietato della forza, il nazionalismo etnico, la continua umiliazione dei palestinesi. Spinti dalla necessità di rilanciare una forma più militante di nazionalismo nei loro paesi, politici come Strache, Wilders, e Dewinter trovarono in Israele una sorta di modello – un modello che era screditato ormai da lungo tempo in Europa, a causa dei brutti ricordi del fascismo e del nazismo.

In realtà, la sinistra anti-sionista cerca spesso di screditare Israele paragonando le sue azioni a Gaza e in Cisgiordania alle atrocità naziste. Questo è un facile e dubbio modo per produrre la più grande offesa. Contrariamente a quanto l’autore Jose Saramago, vincitore del Premio Nobel, affermò una volta, gli attacchi dell’esercito israeliano su Gaza non sono paragonabili in alcun modo ad Auschwitz. Ma la posizione, abbracciata dai nuovi “amici” di Israele appartenenti all’estrema destra, secondo la quale Israele si troverebbe in prima linea nella guerra contro il fascismo islamico, è altrettanto mendace.

Paragonare l’Islam in generale – non solo il terrorismo islamista – al fascismo, come fanno i populisti di destra, e affermare che l’Europa deve far fronte ad una minaccia paragonabile a quella nazista, non è solo sbagliato, ma pericoloso. Perché, se fosse vero, tutte le misure prese contro i musulmani, per quanto brutali, sarebbero giustificate, e Israele sarebbe in effetti uno stato in prima linea che si oppone all’ “islamofascismo” per prevenire un’altra Auschwitz. Questo è certamente il modo in cui un certo gruppo di politici israeliani di estrema destra spiega la realtà. E trova dei ferventi pappagalli tra alcune delle forze politiche europee più retrograde.

Si tratta di una visione che contiene la grave implicazione che una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese è quasi impossibile. Quanto più Israele, applaudito dai suoi “amici” europei, continua ad umiliare i palestinesi e ad occupare le loro terre, tanto più l’odio e la violenza ostacoleranno il compromesso, senza il quale non ci può essere pace.

Tuttavia, vi è un’altra potenziale conseguenza. Le false analogie con il passato banalizzano la storia. Se gli israeliani o i palestinesi sono come i nazisti, l’orrore creato da ciò che i veri nazisti fecero è notevolmente diminuito.

Ma usare la storia per giustificare la violenza attuale non funziona sempre. Quando le persone smetteranno di credere che Israele difende l’Occidente contro il fascismo, Israele verrà accusato di tutte le violenze in Medio Oriente. E, per associazione, tutti gli ebrei nel mondo ne saranno ritenuti responsabili. In conclusione, le “cattive compagnie” di Israele sono amici ancora peggiori per il popolo ebraico.

Ian Buruma è professore di Democrazia, Diritti Umani e Giornalismo al Bard College di New York; il suo ultimo libro è ““Taming the Gods: Religion and Democracy on Three Continents”

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24 gennaio 2011

Due anni dopo: il massacro di Gaza rivisitato.

Sono passati due anni dall’operazione israeliana denominata “Piombo Fuso” (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009), 23 giorni di massacri senza soluzione di continuità costati la vita a 1419 Palestinesi, l’82% dei quali donne, bambini, civili inermi.

Resta lo sdegno per la mancata punizione dei crimini inauditi commessi dalle bande assassine dell’esercito israeliano, la mancata ricostruzione delle inenarrabili devastazioni operate dai raid dell’aviazione israeliana, il mancato risarcimento delle vittime innocenti, la totale indifferenza dell’Occidente, per modo di dire, “civile”.

Sdegno scolpito in queste parole del giornalista palestinese Khalid Amayreh.

L’AGGRESSIONE GENOCIDA ISRAELIANA A GAZA RIVISITATA.
di Khalid Amayreh – 3.1.2011

L’attacco israeliano contro la Striscia di Gaza due anni fa, durato tre settimane, è stato oscenamente criminale e chiaramente genocida. Israele consapevolmente e deliberatamente ha preso di mira civili innocenti, compresi bambini, utilizzando modernissime macchine della morte.

Intere famiglie sono state semplicemente sterminate con il pretesto che uno dei componenti era coinvolto nella resistenza. Case, ospedali, moschee e altri edifici pubblici sono stati cancellati. Finanche persone terrorizzate e assolutamente in preda al terrore che alzavano bandiere bianche sono state crivellate di colpi senza pietà.

La pura e semplice criminalità dell’esercito israeliano ha dato l’impressione che i soldati israeliani stessero probabilmente tentando di imitare la crudeltà del Vecchio Testamento, uccidendo uomini, donne e bambini, e distruggendo e annientando tutto ciò che respirava!!

L’attacco genocida a Gaza è sufficiente a rendere Israele uno stato illegittimo. Nessuno stato al mondo, ebraico o no, si comporterebbe in modo così abominevole rimanendo legittimo.

Non menzioniamo l’olocausto. In ultima analisi, da quando Israele ha il diritto di utilizzare un olocausto per commetterne un altro? O di usarlo come diversivo per distogliere l’attenzione dalle atrocità genocide commesse contro le sue vittime?

Per coprire i suoi crimini contro l’umanità, Israele ha usato al meglio la sua efficace macchina della menzogna. Ha affermato che Israele si è trovato sotto attacco da Gaza e che ha semplicemente esercitato l’autodifesa.

Una tale affermazione, proveniente da un paese basato sull’omicidio di massa, la pulizia etnica e il furto della terra, è molto simile ad un immaginaria pretesa del Terzo Reich di essere stato costretto a trattare severamente gli Ebrei perché i soldati delle SS erano stati attaccati dai combattenti della resistenza ebraica nel Ghetto di Varsavia.

Faccio questo paragone perché subito dopo che Israele ha in apparenza abbandonato Gaza nel 2005, ha imposto un blocco a tenuta ermetica sull’enclave costiera, facendola diventare la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Gli abitanti di Gaza sono stati tormentati, attaccati selvaggiamente e affamati in maniere mai viste dai tempi del Ghetto di Varsavia, o probabilmente della colossale inedia in Ucraina sotto Stalin.

Israele voleva semplicemente che gli abitanti di Gaza morissero non compianti e il più silenziosamente possibile. Tuttavia, quando gli abitanti di Gaza hanno scoperto che non avevano nulla da perdere, hanno deciso di morire restando in piedi, piuttosto che recandosi docilmente al mattatoio israeliano.

Israele ha fatto piovere morte su Gaza per 21 giorni consecutivi, sperando di spingere la gente di Gaza a strisciare sulle mani e sui piedi, implorando misericordia da un esercito che ha combinato in sé tutti gli elementi di barbarie e di brutalità della Wehrmacht, della Gestapo e delle SS uniti insieme.

Nonostante ciò, gran parte della cosiddetta comunità internazionale ha continuato a guardare mentre Gaza veniva uccisa e violentata come se questi abomini stessero accadendo su un pianeta lontano.

Non c’è alcun dubbio che l’oscena apatia con cui il cosiddetto mondo civilizzato si è rapportato con la vergognosa aggressione israeliana a Gaza due anni fa ha rappresentato un minimo storico nella moralità del mondo.

Cos’altro si può dire di stati potenti, alcuni dei quali sono considerati capisaldi del sistema internazionale, che hanno assistito al tentativo di linciaggio di quasi due milioni di abitanti di Gaza limitandosi a dire che “Israele ha il diritto di difendersi”!! Che razza di fornicazione linguistica è questa, proveniente dal Presidente della più potente nazione al mondo?

Senza alcun dubbio, depravazione morale è stata la sorte di un impero del male che ha permesso ad Israele e ai suoi sostenitori di trasformarlo in una grande puttana. Molti altri paesi hanno tradito e continuano a tradire Gaza, compresi paesi che spudoratamente affermano di essere arabi e islamici.

Sfortunatamente, il trascorrere di due anni da quando le nubi della morte hanno sostato sul cielo di Gaza non ha portato alcun sollievo. La brutale abiezione di un Israele manifestamente fascista è più evidente che mai. E Israele continua ad accanirsi criminalmente contro Gaza, impedendo alle vittime dell’aggressione del 2008-9 di ricostruire le proprie case, vietando l’importazione a Gaza di materiali da costruzione.

E’ vero che la situazione umanitaria generale a Gaza è lievemente migliore rispetto a due anni fa. Tuttavia, è anche vero che qualsiasi miglioramento vi sia stato non è il risultato della magnanimità di Israele, ma piuttosto un cinico tentativo di migliorare la sua immagine offuscata.

E’ per questo che gli spiriti liberi del mondo devono rimanere concentrati su Gaza, per timore che Israele decida di riattivare i suoi istinti genocidi e scateni nuovamente le sue bande criminali contro i bambini di Gaza.

Non dobbiamo dimenticare il fatto cardinale che l’assassinio di bambini palestinesi è sempre stata una ben custodita tradizione sionista. Purtroppo, non vi è alcuna evidenza che suggerisca che l’entità sionista stia per rinunciare a questa malvagia ma intrinseca tradizione, che per la maggior parte dei sionisti costituisce un modo di vivere.

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19 gennaio 2011

Sono i bulldozer israeliani a condurre il dialogo.

I lavori di demolizione di un’ala dello storico Shepherd Hotel, nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, per farvi posto a 20 nuove unità abitative da destinare ai coloni israeliani, costituiscono solo uno degli ultimi atti con cui le autorità israeliane tentano di imporre la giudaizzazione di Gerusalemme est e la cancellazione di ogni simbolo della sua antica identità arabo-islamica.

In ciò Israele è favorito dall’incredibile acquiescenza e dalla passività dell’intera comunità internazionale, pur essendo chiaro che nessuna pace vi potrà mai essere tra Israeliani e Palestinesi se a questi ultimi non sarà consentito di creare uno stato indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme est.

Eppure, proprio negli stessi giorni, i capi delle missioni diplomatiche Ue nell’area hanno tracciato una possibile strada da seguire, arrivando addirittura a invocare il boicottaggio delle aziende e delle merci israeliane provenienti dalle zone occupate di Gerusalemme.

E’ dunque la politica che deve battere un colpo, e i governi occidentali, se davvero hanno a cuore la pace, devono far seguire atti concreti di sanzione contro Israele alle sterili condanne formali che lasciano il tempo che trovano.

Israeli bulldozers do the talking.
di Khaled Amayreh – 15 gennaio 2011

Israele la scorsa settimana ha dimostrato ancora una volta la sua determinazione a rifuggire da qualsiasi vera occasione di dialogo che potrebbe portare alla fondazione di uno Stato palestinese accettabile basato sui confini del 1967.

Ruspe israeliane ed enormi martelli pneumatici si sono abbattuti sul quartiere palestinese di Sheikh Jarrah per demolire lo Shepherd Hotel, un enorme complesso costruito negli anni ’30 (attualmente i lavori sono sospesi in pendenza di un ricorso del Palestinian Islamic Council, n.d.r.). Una parte della struttura era stata anche la casa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al Husseini. La struttura demolita aveva in effetti un grande valore storico legato alla lotta palestinese.

Questa demolizione è stata solo l’ultimo passo di Israele per consolidare l’egemonia ebraica su una città araba occupata e obliterare la sua antica identità arabo-islamica. La giudaizzazione forzata della città – sacra a musulmani, cristiani ed ebrei – viene febbrilmente eseguita tramite oscuri accordi e dubbie espropriazioni dove abbondano menzogne, inganni e truffe.

Inoltre i circoli sionisti, in cooperazione con il governo israeliano e con gli interessi dei coloni ebrei, hanno disposto centinaia di milioni di dollari per trasferire le proprietà arabe agli interessi ebraici in tutta Gerusalemme Est. La distruzione dello Shepherd Hotel è avvenuta nonostante le obiezioni dell’intera comunità internazionale.

In ogni caso, data l’inefficacia storica di questo genere di obiezioni, il governo israeliano si è abituato a non prenderle seriamente, pensando che esse siano solo fatte per motivi di facciata e che non costituiscano in alcun modo una contestazione credibile alla politica israeliana degli insediamenti.

Secondo fonti israeliani attendibili a Gerusalemme, le autorità municipali israeliane stanno aspettando il momento giusto per dare il via ad altre grandi demolizioni di case arabe nel quartiere di Silwan. “Se il governo dovesse scoprire che la reazione internazionale, soprattutto statunitense, sarà debole come al solito, allora andrà avanti con le demolizioni,” ha riferito la fonte, che non era stata autorizzata a parlare con i media.

“[il Consiglio Municipale pro-insediamenti della città] vuole desensibilizzare l’opinione pubblica internazionale per farle accettare la [sua] realtà e il fatto che Israele ha carta bianca a Gerusalemme.”

Le reazioni all’ultima provocazione israeliana sono state “normali”, che si tratti dell’Autorità Palestinese (ANP) – che si è spesso appellata alla “comunità internazionale” per fare pressione su Israele – dell’UE, dell’ONU o degli Stati arabi, che hanno soltanto più o meno ripetuto le solite formalità sull’illegalità della politica israeliana.

Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese, ha richiesto che i Paesi occidentali facciano seguito alle loro condanne nei confronti delle provocazioni israeliane. “L’ONU ed i governi di tutto il mondo, inclusi gli Stati Uniti ed il Regno Unito, hanno già condannato i piani di demolizione dell’hotel. Chiediamo a tutto il mondo di prendere una forte posizione in difesa delle proprie opinioni. Questo comportamento intransigente e illegale di Israele deve essere contrastato e controllato.”

Con toni disperati, Erekat avverte che il primo ministro israeliano Binyamin Netanhyahu sta minando e sminuendo gli sforzi internazionali per la creazione di uno Stato Palestinese. “Mentre Netanyahu continua la sua campagna propagandistica sul processo di pace, nella realtà si sta muovendo rapidamente per prevenire la fondazione di uno Stato Palestinese.”

“Israele continua a modificare il paesaggio di Gerusalemme cercando di cambiare il suo status e di trasformarla in una città esclusivamente ebraica. Questo processo di pulizia e colonizzazione deve essere fermato per poter cambiare la cupa realtà dell’occupazione israeliana e trasformarla in uno Stato palestinese libero e sovrano con Gerusalemme Est come capitale.”

Nel frattempo il governo israeliano sta cercando di dare l’impressione che i diplomatici siano al lavoro, probabilmente per controbilanciare l’espansione degli insediamenti e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e dalla West Bank.

Netanyahu si è incontrato col presidente Hosni Mubarak al Cairo la scorsa settimana. Ha anche richiesto un incontro col re Abdullah di Giordania, apparentemente per la stessa ragione. Mubarak ha spinto Netanyahu a cambiare la politica israeliana verso i palestinesi e verso il processo di pace. Netanyahu ha ascoltato la richiesta di Mubarak, tuttavia senza recepirla. Infatti non appena è rientrato in Israele, sono avvenute le demolizioni a Gerusalemme Est.

Nel frattempo Israele sta per mandare un inviato a Washington per rassicurare l’amministrazione Obama che il governo Netanyahu è ancora impegnato nel processo di pace. Tutto questo avviene dopo il fallimento dell’amministrazione Obama nel suo tentativo di convincere Israele a congelare l’espansione degli insediamenti nei territori occupati palestinesi, anche in cambio di grandi incentivi diplomatici e militari.

Alcuni analisti credono che l’ossequioso comportamento americano verso il governo Netanyahu, soprattutto l’eccessiva pazienza mostrata dal segretario di Stato Hillary Clinton, abbia ulteriormente incoraggiato Israele e la sua leadership a ignorare le pressioni statunitensi. “ Sono sicuro che la signora Clinton teme l’ira israeliana più di quanto gli israeliani temano l’ira americana”, ha detto un esperto giornalista europeo a Gerusalemme Est.

La reazione americana alla demolizione dello Shepherd Hotel insieme agli ultimi omicidi a sangue freddo di palestinesi innocenti nella West Bank e nella Striscia di Gaza, inclusi contadini che coltivavano la loro terra e anziani che dormivano nei loro letti, è stata caratteristicamente vuota e mascherata dal linguaggio diplomatico.

Nel frattempo, la Clinton ha rimesso nel cassetto il processo di pace durante il suo tour negli emirati del Golfo Persico, preferendo incitare gli arabi contro il programma nucleare iraniano. Prevedibilmente la Clinton sottintendeva che Israele non rappresenta alcuna minaccia per gli arabi e che il vero nemico comune di Israele e degli arabi è l’Iran. La Clinton è arrivata fino screditare le dichiarazioni del capo del Mossad, Meir Dagan, nelle quali egli aveva affermato che l’Iran non avrebbe avuto capacità belliche nucleari prima del 2015.

Qualche settimana fa, la Clinton ha respinto l’accusa che “azioni unilaterali israeliane” stiano facendo deragliare il processo di pace. “I negoziati bilaterali”, ha detto, “sono l’unico modo per raggiungere la pace fra Israele e i palestinesi”. Un ministro del governo dell’ANP ha commentato le dichiarazioni della Clinton, dicendo: “ Questo è come dire alla vittima e al suo stupratore di mettersi d’accordo fra di loro”.

Khaled Amayreh è un giornalista palestinese; è corrispondente di al-Ahram Weekly da Gerusalemme Est

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18 gennaio 2011

Voci nel silenzio: per non dimenticare le vittime del massacro israeliano a Gaza.


L'offensiva israeliana denominata "Piombo Fuso" - nel periodo compreso tra il 27 dicembre del 2008 e il 18 gennaio del 2009 - ha provocato la morte di 1.419 Palestinesi, 1.167 dei quali (l'82% del totale!) erano civili inermi e innocenti, e oltre 5.300 feriti.

Enormi e sconcertanti sono state le conseguenze per le abitazioni e le infrastrutture ad uso civile, ivi inclusi scuole, ospedali, fabbriche. I ricoveri gestiti dall'UNRWA distrutti dai raid israeliani - secondo i dati della stessa organizzazione - sono stati 3.600, 2.700 quelli gravemente danneggiati.

Secondo i dati del governo di Gaza, le case distrutte o danneggiate sono state 51.553, tra queste 3.336 sono state completamente distrutte e 4.021 hanno subito gravi danni.

Sin dall'immediata fine delle operazioni Israele, in violazione della risoluzione 1860/2009 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ha negato inoltre la riapertura dei valichi di frontiera con la Striscia, impedendo l'ingresso dei beni necessari per le riparazioni e la ricostruzione, vietando in maniera pressocché totale le esportazioni, limitando la libertà di movimento dei residenti e determinando una gravissima crisi umanitaria che perdura tutt'oggi.

Per ricordare le devastazioni di "Piombo Fuso", per invocare la immediata eliminazione del blocco dei valichi di Gaza, per chiedere con forza che i crimini israeliani non rimangano impuniti, per ripristinare con la forza delle parole il diritto di ricordare le vittime innocenti della barbarie israeliana, donne, bambini, povera gente inerme, è stata organizzata a Palermo la terza edizione della rassegna "Voci nel silenzio", che si svolgerà dal 18 al 20 gennaio all'Atelier del Piccolo Teatro Montevergini, al numero 8 della via omonima, e dal 21 al 23 gennaio al Piccolo Teatro Patafisico, sito in Salita della Guilla, dietro la Cattedrale.

A organizzare la manifestazione è il “Coordinamento di solidarietà con il popolo palestinese”, in collaborazione con Arca “Federazione delle associazioni e delle comunità degli immigrati”, la comunità Rom di Palermo e l’associazione “Luminarie”. L’iniziativa è finalizzata anche a contribuire alla seconda missione della “Freedom Flottillia” che, nell’indifferenza di troppi verso la drammatica situazione di Gaza e della Palestina occupata, cercherà di rompere l’assedio alla Striscia, costringendo il mondo a volgere lo sguardo verso una regione dove le parole “pace” e “giustizia” sembrano aver perso ogni significato.

Questo è il programma degli appuntamenti.

Piccolo Teatro Montevergini

18 gennaio - Layla e i rumori degli aerei

Mario Bellone introduce i video di Stefano Savona girati durante il bombardamento di Gaza. Incontro-intervista con l'autore.

19 gennaio - Versi di terra ferita

Recital di poesie di Mahmoud Darwish.
Yousif Latif Jaralla, voce. Carlos Riboty, voce. Lelio Giannetto, contrabbasso. Said Benmsafer, liuto. Michele Piccione, percussioni.

20 gennaio - Il silenzio dei vivi e le grida dei morti

La meccanicità dei mass media di fronte alla tragedia palestinese. Partecipano: Vincenzo Guarrasi, geografo, Marcello Faletra, saggista, Lidia Tilotta, giornalista.

Tutti gli eventi avranno inizio alle ore 21:00 e saranno preceduti da buffet arabo-palestinese e dal té. Saranno raccolti contributi finalizzati al finanziamento della Freedom Flotilla 2, la cui partenza è programmata per la prossima primavera. Sono previsti infine, nel corso delle serate, due collegamenti telefonici con Vittorio Arrigoni e Moni Ovadia

Piccolo Teatro Patafisico.

MINIMO TEATRO FESTIVAL I EDIZIONE
Data: dal 20 al 23 gennaio 2011 - Ora: 21:00

Per un pugno di Datteri

PROGRAMMA DEL FESTIVAL La rassegna si svolgerà in 4 serate: 20, 21, 22 e 23 gennaio 2011 e sarà così organizzata. Il programma potrà essere integrato nel caso di iniziative promosse dalle associazioni che vorranno entrare a far parte dell'organizzazione.

20 gennaio: Serata di presentazione
h 18.30 Aperitivo e apertura del Festival.Verrà offerto del cibo cucinato da un cuoco arabo, mentre sul palco si avvicenderanno tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del progetto ai quali sarà chiesto di raccontare chi sono e che attività svolgono sul territorio. Saranno presentate due pillole video su Gaza e la mostra sulla storia della Palestina in manifesti realizzate dalla ONG CISS - Cooperazione Internazionale Sud Sud.

21 gennaio - La Tana della iena di Hassan Itab (Palestina) con Carlo Orlando musiche in scena Simone Martino

22 gennaio - Ingannati liberamente tratto da Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani (Palestina) con Nicola Pannelli

23 gennaio - Habibi e altre storie.... con Paolo Li Volsi, Dario Mangiaracina, Carlo Orlando, Nicola Pannelli

Ogni sera prima degli spettacoli, dalle 19.30 con un piccolo contributo, sarà possibile cenare con un piatto di pietanze arabe e il ricavato sarà raccolto dal Coordinamento di Solidarietà con il Popolo Palestinese e inviato a sostegno della campagna per la Freedom Flottilla 2.

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13 gennaio 2011

Il film RACHEL ora in distribuzione anche in Italia.



Tutti conoscono la storia di Rachel Corrie, la giovane attivista americana morta a Rafah (Striscia di Gaza) il 16 marzo del 2003 a soli 23 anni, travolta e schiacciata da un bulldozer dell'esercito israeliano mentre tentava di impedire la demolizione di alcune case palestinesi.

La sua tragica vicenda torna ora in certo qual modo d'attualità, anzitutto perchè, come è noto, Rachel Corrie era il nome di una delle navi componenti la Gaza Freedom Flotilla, attaccata dalla marina israeliana lo scorso mese di maggio.

Ma anche perchè - e questo è meno noto a causa della "autocensura" dei media italiani per tutto quanto riguarda i misfatti di Israele - proprio in questi mesi si va disvelando la mancanza di trasparenza nelle indagini e nel processo in corso in Israele per la morte di Rachel, culminata nell'impossibilità per i genitori della giovane americana non solo di avere giustizia, ma persino di poter guardare in faccia il conducente del bulldozer (l'assassino?) che ha causato la morte della figlia o di conoscerne almeno il nome.

Di questo prode soldato israeliano, infatti, sono note soltanto le iniziali, Y.P., ovviamente per motivi di sicurezza, sostengono le autorità israeliane, ovvero, a scelta, per l'omertà mafiosa che lo stato di Israele garantisce ai suoi soldati, anche quando uccidono un'attivista 23enne o liquidano con un colpo alla testa una scolaretta palestinese di 13 anni.

Il film Rachel, della regista franco-israeliana Simone Bitton, ricostruisce i drammatici fatti di quel giorno, mostrando per la prima volta le foto scattate dai compagni di Rachel e i filmati delle telecamere di sorveglianza, e dando la parola a tutti i protagonisti della vicenda, nel tentativo di far scaturire la verità da versioni contradditorie tra loro.

Non si tratta, tuttavia, solo di un tentativo di individuare i responsabili della morte della Corrie, problema che la polizia militare israeliana ha liquidato molto in fretta e rispetto al quale il governo americano non ha mai preteso chiarimenti, ma anche e soprattutto di una commovente riflessione sulla giovinezza e sull'idealismo.

Il film, in realtà del 2008, è ora disponibile anche in Italia (in copie video sottotitolate) per proiezioni pubbliche, non solo in sale cinematografiche ma anche presso associazioni, scuole, università ed istituzioni culturali pubbliche e private.

A garantire la distribuzione del film è CineAgenzia, in collaborazione con la francese Umedia. Per maggiori informazioni su Rachel, il trailer e altri materiali basta visitare il sito di CineAgenzia, dove è presente anche un link relativo a testi e informazioni sulla vita (e la tragica morte) della giovane attivista americana.

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11 gennaio 2011

I diplomatici Ue: Gerusalemme est capitale palestinese!

Proprio all’indomani della demolizione, da parte israeliana, di un’ala dello storico Shepherd Hotel, nel popoloso quartiere arabo di Sheikh Jarrah – per farvi posto a 20 nuove unità abitative da destinare ai coloni israeliani – il quotidiano Ha’aretz da notizia di un rapporto redatto dai capi delle missioni diplomatiche dell’Unione europea a Gerusalemme e a Ramallah in cui si suggeriscono iniziative senza precedenti per contrastare e, in certo qual modo, sanzionare la giudaizzazione di Gerusalemme est.

Partendo dall’ovvio presupposto che non vi sarà mai pace tra Israeliani e Palestinesi senza che questi ultimi possano avere uno stato con Gerusalemme est come capitale, i consoli dell’Unione europea si spingono a suggerire una vera e propria svolta nei rapporti con Israele e nell’atteggiamento europeo rispetto all’occupazione israeliana, arrivando a suggerire misure come il boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti da Gerusalemme est o il divieto di ingresso nei paesi Ue per i coloni “violenti”.

E’ un primo segno di risveglio dell’Unione europea di fronte alla situazione di totale illegalità che connota l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, un segnale che rischia di arrivare tardi se consideriamo che a Gerusalemme est e nelle aree della West Bank annesse alla municipalità dopo il 1967 vivono ormai ben 190.000 Israeliani, a fronte di 250.000 Palestinesi ivi residenti.

Rimane da sperare che i suggerimenti dei diplomatici spingano finalmente i governi della Ue ad abbandonare la tradizionale pavidità e a costringere Israele, una volta per tutte, a rientrare nell’alveo della legalità internazionale.

DIPLOMATICI UE SOSTENGONO CHE GERUSALEMME EST DOVREBBE ESSERE TRATTATA COME LA CAPITALE PALESTINESE.

I consoli dell’Unione europea presso l’Autorità palestinese raccomandano il boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti da Gerusalemme est, chiedono che funzionari della Ue siano presenti durante la demolizione delle case e le evacuazioni.

di Nir Hasson

Gerusalemme est dovrebbe essere trattata come la capitale dello Stato palestinese, secondo un rapporto redatto dai capi delle missioni diplomatiche europee a Gerusalemme e a Ramallah. Il rapporto include varie altre raccomandazioni senza precedenti per l’Unione europea per quanto riguarda il suo atteggiamento nei confronti di Gerusalemme est.

I diplomatici europei, soprattutto consoli, raccomandano inoltre che i funzionari e i rappresentanti politici della Ue si rifiutino di recarsi presso gli uffici governativi israeliani dislocati al di là della Green Line e declinino ogni misura di sicurezza da parte israeliana a Gerusalemme est sia nella Città Vecchia sia altrove.

Il rapporto, completato il mese scorso, è stato inviato a Bruxelles al principale organismo di politica estera della Ue, il Comitato per la Politica e la Sicurezza. Al momento non è stato divulgato, chiaramente a causa della delicatezza del suo contenuto.

Il rapporto dei diplomatici discute anche della possibilità di vietare l’ingresso nei paesi della Ue ai “coloni violenti di Gerusalemme est”. Per quanto riguarda il commercio, si raccomanda di incoraggiare il boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti da Gerusalemme est.

La prima parte del rapporto descrive nei dettagli la costruzione e l’espansione degli insediamenti colonici a Gerusalemme est, la violazione dei diritti umani dei Palestinesi che risiedono nella parte orientale della città, così come la disuguaglianza in materia di istruzione e di servizi sanitari a disposizione dei Palestinesi. Il rapporto conclude che, al di là del loro significato umanitario, queste condizioni indeboliscono il controllo dei Palestinesi sulla città.

Le critiche europee alla politica israeliana nei territori e, in particolar modo, a Gerusalemme est, non sono nuove. Ma il cambiamento radicale contenuto nel rapporto lo si può vedere nelle misure operative che esso raccomanda, che di fatto pongono le basi per imporre sanzioni contro Israele.

Ad esempio, il documento propone che gli alti funzionari della Ue in visita non si avvalgano delle aziende israeliane operanti a Gerusalemme est, come alberghi e aziende di trasporto, e che non visitino i siti archeologici gestiti dalle “organizzazioni pro-coloni” (un riferimento al Parco Nazionale “Città di Davide”).

Il rapporto continua suggerendo di promuovere la consapevolezza dell’opinione pubblica sui prodotti provenienti dalle colonie, “per esempio fornendo assistenza ai principali rivenditori della Ue in materia di etichettatura di origine per i prodotti delle colonie”, e di informare i cittadini della Ue sui “rischi finanziari derivanti dall’acquisto di proprietà nei territori occupati di Gerusalemme est”.

I diplomatici raccomandano, inoltre, che la Ue incoraggi Israele a consentire la riapertura degli uffici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Gerusalemme est, in linea con quanto previsto dalla road map. Israele ha chiuso le istituzioni dell’OLP durante la seconda Intifada.

Per il rapporto, inoltre, i diplomatici Ue sono chiamati a esprimere grande preoccupazione circa lo stato dei servizi di emergenza previsti per gli Arabi di Gerusalemme est durante i loro incontri con gli alti funzionari israeliani.

Il rapporto aggiunge che funzionari della Ue dovrebbero essere presenti in occasione della demolizione di case o della loro evacuazione, così come ai processi su tali questioni, nonché “assicurare l’intervento della Ue in caso di arresto o di intimidazione dei Palestinesi da parte delle autorità israeliane a causa delle loro pacifiche attività culturali, sociali o politiche a Gerusalemme est.”.

Il rapporto raccomanda, infine, che l’Unione europea “incoraggi i paesi arabi a riconoscere la dimensione multiculturale di Gerusalemme, ivi compreso il patrimonio culturale ebraico e cristiano”.

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3 gennaio 2011

Chi ricostruirà Gaza?

A distanza di due anni dall'operazione militare israeliana a Gaza denominata “Piombo Fuso” (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009), che ha provocato la morte di 1.419 Palestinesi (l'82% dei quali civili inermi) e causato immani rovine e distruzioni, viene spontaneo chiedersi a che punto sia la ricostruzione nella Striscia, impegno dichiaratamente assunto dalla comunità internazionale.

Ed è amaro constatare che quello di Gaza è l'unico caso al mondo in cui una popolazione, attaccata e massacrata, continua ad essere sottoposta ad un embargo che impedisce ogni lavoro di ricostruzione e ogni accenno di ripresa dell'economia, una punizione collettiva che è illegale sotto il profilo del diritto e indegna e immorale sotto il profilo etico.

In realtà, a seguito del blocco della flottiglia umanitaria e del successivo massacro sulla Mavi Marmara, il 20 giugno il governo israeliano aveva annunciato la propria intenzione di “consentire ed espandere l’afflusso dei materiali da costruzione a duplice uso (“dual use” è un termine usato per indicare beni o tecnologie che possono avere un duplice scopo, civile e militare, n.d.r.) per progetti approvati con autorizzazione dell’Autorità Palestinese che siano sotto la supervisione internazionale”, e di facilitare “l’espansione dell’attività economica” a Gaza, limitando le restrizioni al movimento da e per la Striscia solo a quelle necessarie ad impedire l’ingresso di materiali bellici.

Nonostante la decisione governativa, Israele continua ad impedire l’importazione a Gaza di acciaio, ghiaia e cemento, materiali che non sono considerati a duplice uso secondo gli standard internazionali.

Vi sono state in realtà limitate eccezioni che hanno permesso l’afflusso di questi materiali per progetti finanziati dalla comunità internazionale e approvati dall’Autorità Palestinese, caratterizzati tuttavia da una estrema lentezza e da notevoli intralci di carattere burocratico.

A seguito della decisione del Gabinetto di Sicurezza israeliano del 20 giugno, il successivo 6 luglio Israele rilasciava due liste di prodotti di cui avrebbe proibito l’ingresso nella Striscia di Gaza in aggiunta a quei materiali di cui già impediva l’importazione nei Territori palestinesi, in accordo alla Directive on Defense Export Control. Tale direttiva consiste in una lista di 56 prodotti che riprende, andando tuttavia oltre, le previsioni del Wassenaar Arrangement, la fonte internazionalmente riconosciuta per definire i beni cd. “dual-use”.

Una delle liste rilasciate il 6 luglio, dal titolo “Beni a duplice uso per progetti”, include il cemento e altri materiali necessari per l’edilizia, nonostante il fatto che questi materiali non siano ad uso militare, non siano mai stati precedentemente inclusi in alcuna lista israeliana o internazionalmente riconosciuta di beni a duplice uso, e siano necessari per riparare ai danni provocati alle abitazioni e alle infrastrutture civili durante l’Operazione “Piombo Fuso”.

Israele ha richiesto alla comunità internazionale una sorta di “assicurazione di utilizzo finale”, che attesti che i materiali da costruzione per la realizzazione dei progetti non finisca nelle mani del governo di Gaza. Israele teme che Hamas userebbe questi materiali per costruire bunker o per “accrescere le proprie capacità militari”.

E tuttavia, a fronte della richiesta di una “assicurazione di utilizzo finale”, Israele non ha esattamente chiarito alla comunità internazionale quali siano le sue aspettative. L'ong israeliana Gisha ha richiesto la documentazione e la modulistica che precisano le procedure per richiedere l’importazione di beni, ai sensi del Freedom of Information Act, e i criteri per la valutazione delle richieste, ma sino ad ora Israele ha rifiutato di renderli noti. L’onere di fornire la certezza dell’utilizzo finale ha spinto alcune organizzazioni internazionali ad assumere guardie a costi elevati per “proteggere” i materiali da costruzione, mentre altre documentano ampiamente il trasferimento e l’installazione dei materiali per mezzo di fotografie e di video; questo nonostante il fatto che i materiali da costruzione non sono armi e non sono considerati beni a duplice uso secondo la normativa israeliana o gli accordi internazionali. Le Nazioni Unite hanno stimato che i procedimenti relativi all’assicurazione sull’utilizzo finale sono costati milioni di dollari agli organismi internazionali, fondi che avrebbero potuto essere usati per progetti di cui avrebbero beneficiato direttamente gli abitanti di Gaza.

Paradossalmente, mentre le organizzazioni internazionali, che sono finanziate dagli stati occidentali e lavorano in cooperazione con l’Autorità palestinese, negoziano scrupolosamente l’ingresso di ogni prodotto necessario per progetti vitali, il governo a Gaza acquista materiali attraverso i tunnel. Dal 6 luglio al 6 dicembre di quest’anno, per la realizzazione di progetti internazionali è stato consentito l’ingresso a Gaza solamente di 744 carichi di cemento, ghiaia e acciaio - ovvero di circa 149 carichi al mese. In raffronto, precedentemente al giugno del 2007, i residenti di Gaza acquistavano più di 5.000 carichi di cemento, ghiaia e acciaio ogni mese. D’altra parte, ogni giorno, fino a 900 tonnellate di cemento (l’equivalente di 36 carichi) o 300 tonnellate di acciaio o 250 tonnellate di ghiaia entrano a Gaza attraverso un numero stimato di 30-40 tunnel utilizzati per il trasporto di materiali da costruzione. Alti prezzi, assenza di prevedibilità delle forniture e la scarsa qualità rendono i tunnel un’opzione non attraente per gli imprenditori privati. Mentre l’attività di costruzione intrapresa dal governo rimane in gran parte limitata a piccole riparazioni e a qualche progetto minore, si ha nondimeno la percezione che il governo di Gaza sia in grado di mantenere gli impegni, mentre la comunità internazionale lotta faticosamente per superare gli ostacoli burocratici persino per iniziare i suoi progetti.

La differenza la si può vedere a Gaza. Per fare un esempio: a fine giugno, Israele acconsentì “in linea di principio” a permettere all’UN Relief and Works Agency (UNRWA) di costruire otto delle 100 scuole di cui necessita per l’istruzione degli studenti di Gaza. Ci sono voluti quattro mesi ad Israele per iniziare effettivamente a permettere l’ingresso dei materiali da costruzione a Gaza – e successivamente Israele revocò il permesso per quattro delle scuole. All’inizio di quest’anno scolastico, l’UNRWA è stata costretta a respingere 40.000 bambini per mancanza di spazio nelle classi.

Il diritto internazionale consente ad Israele di limitare l’ingresso di beni per motivi di sicurezza, ma deve farlo tenendo in considerazione e soppesando le legittime preoccupazioni per la sicurezza con i diritti e le necessità degli abitanti di Gaza, di cui Israele controlla la possibilità di accesso ai beni. Anche se vi fosse un motivo di sicurezza per limitare i materiali da costruzione (va ripetuto, il cemento non è un’arma e non è considerato un materiale a duplice uso né dalla legislazione israeliana né da quella internazionale), la disponibilità di materiali da costruzione attraverso i tunnel solleva dubbi sulla effettività del divieto, da una parte, e sul danno terribile al diritto di ricostruire inflitto agli abitanti di Gaza, dall’altra. Ciò rende il divieto sproporzionato e controproducente.

L’allentamento del blocco e l’economia di Gaza

I cinque mesi trascorsi dall’attuazione in data 6 luglio della decisione governativa hanno visto un costante aumento della quantità di beni di consumo importati nella Striscia di Gaza, in corrispondenza con l’allentamento del divieto sui prodotti per la casa ed alimentari, e dei cambiamenti infrastrutturali operati al valico di Kerem Shalom. Nonostante il Fondo Monetario Internazionale abbia pubblicato in settembre un rapporto in apparenza promettente, che riflette lo sviluppo nella Striscia, gli indicatori socio-economici, tuttavia, mostrano un quadro molto meno positivo. I tassi di disoccupazione, di insicurezza alimentare e di povertà restano elevati.

Mentre il volume dei beni in ingresso è aumentato a circa il 40% del fabbisogno, rispetto al 22% del fabbisogno durante i precedenti tre anni, permane il divieto di esportazione e quello sui materiali da costruzione, frenando la possibilità di una ripresa dell'economia. La capacità massima di Kerem Shalom è cresciuta fino a 250 camion al giorno, ma la tipologia di beni che viene importata è costituita quasi interamente da beni di consumo fabbricati in Israele e da spedizioni umanitarie, con solo il 3,5% delle importazioni costituite da materiali da costruzione (acciaio, ghiaia, cemento) e circa il 3% da materie prime.

Alcune limitate esportazioni sono iniziate nelle settimane passate, con la promessa di consentire ulteriori esportazioni di prodotti dei settori agricolo, dell'arredamento e dell'industria leggera, in conformità a una decisione del Gabinetto di Sicurezza dello scorso 8 dicembre. Si tratta di un cambiamnto benvenuto dopo tre anni e mezzo di divieto quasi totale di commercializzare beni al di fuori di Gaza. La Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Israele sono parte di un'unica zona doganale controllata da Israele, che fissa le tariffe doganali e le aliquote IVA in tutte e tre le aree. Commercializzare beni da Gaza verso la Cisgiordania e Israele, di conseguenza, non costituisce “esportazione” ma piuttosto commercio che, secondo il diritto internazionale, può essere limitato solo per ragioni di sicurezza. Questo commercio è decisivo per la ripresa dell'economia e per lo sviluppo per il milione e mezzo di abitanti di Gaza la cui capacità di vendere beni è controllata da Israele, particolarmente al fine di rivitalizzare il settore privato di Gaza che, in passato, vendeva i suoi prodotti locali a commercianti in Israele, in Cisgiordania e all'estero, portando ricavi e lavoro ai residenti, al pari di autosufficienza e dignità.

Vi è chi ha asserito che la domanda di movimento ai valichi di frontiera è più bassa della loro capacità corrente. A partire dal 2007, Israele ha chiuso tre valichi commerciali per Gaza su quattro, determinando una pressione sul valico di Kerem Shalom, la cui capacità è limitata. Israele attualmente sta frenando la domanda a Kerem Shalom con il divieto all'entrata dei materiali da costruzione e all'uscita dei beni destinati all'esportazione, con limitate eccezioni. Prima di queste restrizioni, giornalmente, in media sarebbero entrati a Gaza 433 camion e ne sarebbero usciti 70 di beni destinati all'esportazione. Al contrario, a partire dal giugno del 2007 e fino alla data del 6 dicembre 2010, Israele ha consentito soltanto l'uscita in totale di 268 carichi di beni per l'estero, con una media giornaliera pari ad un terzo del carico di un camion.

Circolazione delle persone

Ormai da molti mesi, i due terzi di coloro che riescono a viaggiare attraverso il valico di Erez sono malati che necessitano di cure mediche e i loro accompagnatori e gli addetti delle organizzazioni internazionali. In particolare risulta limitata la circolazione tra Gaza e la Cisgiordania, laddove ogni spostamento è vietato al di fuori dei casi più eccezionali. Mentre vi è stato un insignificante incremento del numero dei permessi concessi a uomini d’affari, i criteri in base ai quali è concesso di viaggiare rimangono limitati principalmente ai “casi umanitari” e senza alcuna considerazione riguardo a motivazioni di sicurezza attinenti ai singoli individui che richiedono di viaggiare. In altre parole, la libertà di movimento rimane vincolata, non per concrete ragioni di sicurezza, con implicazioni negative sulle possibilità di ripresa dell’economia e la realizzazione dei diritti umani.

Come nota il rapporto dell’FMI dello scorso settembre, una reale e sostenibile ripresa dell’economia, obiettivo dichiarato sia di Israele sia della comunità internazionale, richiede che vengano rimosse le rimanenti limitazioni al movimento delle merci e delle persone. Le esportazioni e l’importazione di materiali da costruzione, al pari della libera circolazione delle persone da e verso Gaza, soggetta solo a controlli di sicurezza individuali e comprendente gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania, dovrebbero e potrebbero aver luogo da subito.

Ogni ulteriore indugio da parte della comunità internazionale a far seguire agli appelli e alle denunce anche la concreta pressione su Israele per togliere l'embargo criminale alla Striscia di Gaza, lungi dal fiaccare il governo di Hamas e dal privarlo del consenso popolare, non farà altro che accrescere l'astio e il rancore del mondo arabo verso Israele e in generale verso l'Occidente, non a torto considerato complice di questo ennesimo crimine israeliano.

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