28 marzo 2007

Un esercito di vili e assassini e l'informazione a senso unico.

Una vera e propria leggenda racconta che Tsahal, l’esercito israeliano, sia in assoluto l’esercito più “morale” che esista al mondo, come ha di recente sostenuto, ancora una volta, il premier Olmert.
Che si tratti di una delle tante, colossali menzogne spacciate da Israele è facilmente dimostrabile prendendo spunto dai fatti della cronaca quotidiana palestinese, così come da quelli del recente passato.
Tra i tanti, abbiamo scelto tre casi particolarmente indicativi non solo della “moralità” dei soldati di Israele, ma anche del loro valore e del loro coraggio.

1) Verso i primi giorni di marzo la televisione israeliana ha trasmesso un documentario dal titolo “Spirit of Shaked” in cui venivano narrate le eroiche gesta di una unità speciale dell’esercito israeliano – la Shaked Reconnaissance Unit per l’appunto – durante la Guerra dei sei giorni del 1967, ed è venuto fuori che tra queste “gesta” vi sarebbe stato anche il massacro di almeno 250 prigionieri di guerra egiziani avvenuto durante le operazioni belliche nel Sinai.
Il documentario in questione ha suscitato un vespaio in Egitto e ha rischiato di compromettere seriamente le relazioni tra questo Paese e Israele, costringendo tra l’altro il Ministro delle Infrastrutture Ben-Eliezer – all’epoca comandante della Shaked e ritenuto coinvolto nel massacro – a rinviare una visita ufficiale in Egitto.
Naturalmente gli Israeliani si sono affrettati a smentire, seppur in maniera un po’ confusa.
Secondo un comunicato del portavoce del Ministero degli Esteri, il filmato mostrerebbe chiaramente che non si è trattato “dell’assassinio di prigionieri di guerra inermi, ma piuttosto di un combattimento tra i soldati israeliani e un commando egiziano”.
Per l’autore del documentario, il giornalista israeliano Ran Ederlist, citato da Ha'aretz, l’incidente non avrebbe affatto coinvolto prigionieri di guerra egiziani, bensì militanti palestinesi in azione di guerra.
Dice il vero Ederlist o si tratta di una ritrattazione alla Toaff?
Resta il fatto che, al di là dell’azione incriminata, numerose sono le testimonianze che attestano come Israele, nel corso della guerra dei sei giorni, abbia commesso vari ed efferati crimini di guerra.
Osama el-Sadek, ufficiale dell’esercito egiziano ai tempi della guerra del ’67, ha raccontato al quotidiano el-Masri el-Youm del ritrovamento, avvenuto dopo il 6 giugno, dei corpi di circa 40 soldati egiziani, tutti liquidati con un colpo alla testa e i cui cadaveri recavano le tracce del passaggio di alcuni tanks sopra di essi.
Secondo Aryeh Yitzhaki, storico della Università Bar-Ilan (ancora loro!), varie centinaia di prigionieri di guerra egiziani furono trucidati durante la Guerra dei sei giorni, e il fatto più grave accadde a El Arish, dove la Shaked si rese responsabile del massacro di un numero di egiziani compreso tra le 300 e le 400 unità, la maggior parte dei quali si era già arresa.
Una dozzina di anni fa un ex generale dell’Idf, Ariel Biro, ammise di aver ucciso a sangue freddo 49 prigionieri di guerra egiziani: il suo battaglione aveva ricevuto l’ordine di muovere verso sud e non poteva portarsi dietro i prigionieri, né avrebbe potuto liberarli perché, in questo caso, avrebbero potuto svelare la presenza del reparto israeliano (cfr. Il Manifesto, 6.3.2007).
Biro ha aggiunto: “anche oggi, in circostanze simili, lo rifarei”.
E noi non abbiamo alcun dubbio in proposito.

2) Negli ultimi mesi, lungi dal cessare la pratica illegale degli assassinii mirati, Israele ha tuttavia deciso di rinunciare ad utilizzare a questo fine le incursioni aeree - a causa delle proteste della comunità internazionale legate al troppo alto numero di civili innocenti coinvolti nei raid – ed ha deciso di affidare il compito di portare a termine le esecuzioni ai “travestiti” di Tsahal, le unità di élite che operano sotto copertura.
Tali reparti (come la ormai tristemente famosa Duvdevan), che compiono le loro azioni camuffandosi da civili palestinesi, sono da considerarsi unità di élite nel senso che costituiscono dei veri e propri squadroni della morte, formati da soldati senza alcuna pietà che non si curano più nemmeno di mascherare i loro crimini come delle operazioni di arresto finite “male”.
Così, ad esempio, la mattina del 28 febbraio una unità dell’Idf sotto copertura, a bordo di una vettura con targhe palestinesi, nei pressi di Jenin ha affiancato l’automobile su cui viaggiavano tre militanti della Jihad islamica ed ha aperto il fuoco all’impazzata, uccidendo gli occupanti.
Hanno trovato così la morte il capo delle Brigate al-Quds per la Cisgiordania settentrionale, il 25enne Ashraf Mahmoud Nafe’ al-Sa’di, insieme ad altri due militanti, il 34enne Mohammed Ibrahim Abu Naa’sa e il 24enne ‘Alaa’ Braiki.
Degno di nota è il fatto che l’autovettura dei palestinesi è uscita di strada ed è andata a finire contro un muro; all’interno di essa, al-Sa’di era rimasto solamente ferito ed avrebbe potuto essere catturato, ma i soldati israeliani lo hanno liquidato sparandogli a bruciapelo.
Qualcuno plaude a questa “svolta” operata dall’esercito israeliano, il quale avrebbe ogni “diritto” di uccidere i (presunti) “terroristi” in ogni luogo, e che in questo modo riesce anche ad evitare (eccola la “moralità” di Tsahal!) il versamento di sangue innocente.
Ma naturalmente non è proprio così.
Per tutto il mondo (eccettuati ovviamente Usa e Israele) gli assassinii “mirati” sono contrari al diritto, in quanto equivalgono ad una condanna a morte eseguita senza alcun processo, alcuna giuria, alcuna prova, ma solo sulla base di “segnalazioni” dei servizi segreti di dubbia veridicità e provenienza.
Ma è lo stesso modus operandi delle unità sotto copertura, in realtà, ad essere vietato dalle leggi di guerra, di cui pure gli stessi Israeliani pretendono l’applicazione nelle loro operazioni di “polizia” nei Territori occupati
Tra i divieti imposti dalla legislazione internazionale, infatti, vi è anche il divieto di “slealtà”, che impedisce ai soldati di camuffarsi dietro abiti civili, e ciò allo scopo di salvaguardare il più possibile l’incolumità della popolazione civile, nel duplice senso di permettere una chiara distinzione tra civili e combattenti – i quali ultimi soltanto possono costituire l’oggetto di un attacco militare – e di consentire ai civili stessi, alla vista delle uniformi, di rendersi conto del pericolo e di porsi tempestivamente al riparo.
Cosa che, purtroppo, non è avvenuta nel pomeriggio di venerdì 4 gennaio 2007, durante un’altra incursione delle unità israeliane sotto copertura, quando i soldati di Tsahal incaricati del recupero dei propri “travestiti” – con l’accompagnamento dei bulldozer e del fuoco degli elicotteri – hanno messo a ferro e fuoco il centro della cittadina di Ramallah, distruggendo varie auto, negozi e banconi di merce e, soprattutto, uccidendo quattro civili palestinesi e ferendone altri quaranta, di cui dieci in modo grave (tra questi, sei erano minori di 18 anni).
Unità di élite, dunque, specializzate nel massacrare civili disarmati e nel liquidare i ricercati con un colpo alla nuca: evidentemente, a questo fine, sono necessari un coraggio da leoni e un grande senso etico!

3) Ma l’aspetto più repellente della condotta dei valorosi soldati di Tsahal consiste certamente nell’uso disinvolto di civili palestinesi come “scudi umani” nel corso delle quotidiane operazioni di arresto compiute nei Territori occupati, nonostante i divieti a ciò imposti dal diritto umanitario internazionale e dalla stessa Corte di Giustizia israeliana.
Così, ad esempio, nel corso dell’operazione “Hot Winter” a Nablus, in un lasso di tempo compreso tra il 25 e il 28 febbraio di quest’anno, l’esercito israeliano, in almeno tre casi, ha usato dei Palestinesi inermi come scudo durante la ricerca di militanti casa per casa, e in due di questi casi si trattava di ragazzini.
L’operazione militare denominata “Hot Winter”, mirata alla ricerca di militanti e alla distruzione di laboratori clandestini di esplosivi a Nablus, in realtà, quasi da subito, si era rivolta come al solito a danno della popolazione civile innocente, imponendo oltre due giorni di stretto coprifuoco e causando la morte del 42enne ‘Anan Mohammed al-Teebi, colpito al collo da un cecchino israeliano, ed il ferimento del figlio 24enne Ashraf, accorso per soccorrerlo.
Durante il primo giorno delle operazioni, il 25 febbraio, i soldati israeliani costringevano sotto la minaccia delle armi i due cugini ‘Amid e Samah Amirah, rispettivamente di 15 e di 24 anni, a camminare davanti ai fucili puntati mentre effettuavano la loro ricerca casa per casa di militanti palestinesi, talvolta facendo irruzione in alcuni appartamenti sparando vari colpi all’interno: questa azione valorosa è stata immortalata da una troupe dell’Associated Press e diffusa da vari telegiornali, sia in Israele sia all’estero, ma nessuna inchiesta è stata promossa in merito, né alcuna protesta ufficiale è stata avanzata all’indirizzo di Israele…
Tre giorni dopo, il 28 febbraio, i soldati dell’Idf, nel corso di una analoga operazione svoltasi nel quartiere di Yasmina, nella città vecchia, non esitavano a ripararsi dietro una bambina di 11 anni, Jihan Tadush, obbligandola a precederli mentre eseguivano l’ispezione di un edificio.
Non è peregrino osservare che la Quarta Convenzione di Ginevra proibisce esplicitamente l’utilizzo di civili come “scudi umani” al fine di rendere certi punti o aree immuni da attacchi (articolo 28), così come può essere utile ricordare che le note ufficiali di commento alla Convenzione riferiscono di questa pratica come di un atto “crudele e barbarico”; la Convenzione, inoltre, proibisce l’uso della coercizione fisica e morale a danno della popolazione civile, nonché l’utilizzo di civili per compiti o incombenze di carattere militare (articoli 31 e 51).
E poiché i minori di 15 anni godono di una ulteriore protezione addizionale, loro riconosciuta dal diritto umanitario, il loro utilizzo quali scudi umani costituisce una grave crimine di guerra che dovrebbe (dovrebbe!) essere perseguito dalle autorità preposte, sia in Israele che a livello internazionale.
Ma, al di là delle considerazioni basate sul diritto umanitario, ciò che colpisce e disgusta è il solo immaginare i prodi soldati israeliani, armati fino ai denti, che si fanno precedere nelle loro operazioni da una bimbetta di 11 anni tremante di paura: davvero un coraggio senza pari!

Quelli che abbiamo riportato costituiscono soltanto tre esempi della enorme quantità e varietà dei crimini di guerra commessi dai soldati israeliani oggi come nel recente passato, ma potremmo elencarne molti altri, dall’uso eccessivo della forza (leggi: fucilate) nei confronti dei ragazzini che lanciano pietre contro i soldati ai maltrattamenti ai check-points, dal divieto di consentire cure mediche ai feriti agli arresti indiscriminati di minorenni e così via discorrendo.
Ma di tutto questo un lettore dei quotidiani italiani (o uno spettatore dei vari telegiornali di casa nostra), pur attento, farebbe fatica a trovare anche un breve accenno, e non perché i media non si occupino di Palestina, tutt’altro.
Tra il 22 e il 23 marzo, i tg italiani e i quotidiani della carta stampata (questi ultimi spesso con un richiamo in prima pagina) hanno dato ampio risalto all’intervista effettuata dalla tv di Hamas a due bambini palestinesi di nome Doha e Muhammad Al-Riyashi, rispettivamente di 5 e 3 anni, figli di una giovane palestinese che si è fatta saltare in aria al valico di Erez il 14 gennaio 2004, uccidendo 4 soldati israeliani.
Questa vicenda merita una attenta riflessione.
Sfruttare dei bambini a fini di propaganda, e soprattutto per esaltare il martirio suicida, è un puro e semplice abominio, e su questo non vi è discussione.
Ma da qui a dire (come ha fatto Guido Rampoldi su La Repubblica) che questi bambini “sono già carne da macello” c’è davvero una bella differenza!
A Rampoldi vorremmo ricordare che i bimbi palestinesi portati al macello sono quelli uccisi o feriti dai soldati israeliani, che non si soffermano certo su considerazioni di carattere umanitario: nei soli primi due mesi del 2007, i Palestinesi minori di 18 anni uccisi o feriti da Israele sono stati, rispettivamente, 5 e 43, e questi numeri salgono a 140 e 505 con riferimento al 2006 (cfr. in proposito il report OCHA-oPT Protection of Civilians, febbraio 2007).
Ma vi è di più.
La prima segnalazione del video della tv Al-Aqsa risale al 14 marzo, ad opera del Memri (Middle East Media Research Institute), un ben noto istituto di disinformazione e di propaganda sionista: come mai, a distanza di ben 8/9 giorni, i media italiani, all’unisono, hanno deciso di dare ampio risalto alla “scoperta” del Memri?
E perché altrettanto spazio e diffusione non è stato dato al video che mostra i soldati israeliani che utilizzano un ragazzino come scudo umano, o al più recente filmato che mostra degli altri soldati che picchiano uno studente palestinese ad un check-point “volante”?
Ho già scritto della sempre più pervasiva e preoccupante influenza della lobby ebraica nel campo dell’informazione, negli Usa e ora anche in vari Paesi europei, e avendo al riguardo citato il caso di Ariel Toaff ho ricevuto numerose critiche e reprimende, come ad esempio dal blog di rosalux.
Tutti sanno come è andata a finire in quel caso, con lo studioso costretto ad una clamorosa (e vergognosa) abiura e a ritirare il proprio libro dal mercato, non già per le critiche ricevute dagli altri “luminari” del settore – perché chi avesse letto il libro avrebbe scoperto che era stato scritto con consapevolezza in senso diametralmente opposto alle altre pubblicazioni sull’argomento – ma per il fuoco di sbarramento davvero spaventoso scatenato dalla comunità ebraica italiana, dalla Knesset, dai finanziatori (ebrei) dell’Università Bar-Ilan, nonché in conseguenza dell’incombente pericolo di perdere la propria cattedra universitaria.
Nel caso di cui ci occupa i meccanismi naturalmente sono diversi, entrando anche in gioco questioni di carattere geopolitico, ma il risultato è il medesimo: è più che lecito, anzi auspicabile, mettere in cattiva luce i Palestinesi (rectius, gli Arabi), è assolutamente vietato (tranne casi eccezionali) parlar male degli Israeliani, figuriamoci accusarli di commettere crimini di guerra!
Eppure ci viene davvero difficile capire come si possa, anche da parte di un giornalismo disinformato e cialtrone come quello di casa nostra, condannare con parole anche aspre (come è giusto) l’utilizzo di bambini a fini di propaganda ma, contemporaneamente, considerare lecito e “normale – tanto da non meritare nemmeno due righe in fondo alla pagina esteri – l’utilizzo degli stessi bambini come scudi umani nelle operazioni di arresto/assassinio del valoroso esercito israeliano.

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23 marzo 2007

Stop al boicottaggio contro il Governo palestinese.

Abbiamo già sottolineato l’importante presenza, all’interno del mondo ebraico della diaspora, di voci dissonanti rispetto alle posizioni ufficiali dei rappresentanti delle comunità ebraiche, provenienti da gruppi organizzati che si rendono ben conto di come la pace nel vicino oriente possa essere raggiunta solo attraverso un equo accordo tra le parti in conflitto e la piena affermazione della legalità internazionale.
Così, dopo l’appello a fermare il boicottaggio contro il governo palestinese lanciato già nel gennaio di quest’anno dal Comitato esecutivo di European Jews for a Just Peace (vedi "Fuori dal coro"), il Manifesto, lo scorso 20 marzo, ha ospitato un altro importante intervento degli “Ebrei per la pace”, in cui sostanzialmente si rivolge un invito ai Paesi Ue – alla luce del recente accordo raggiunto alla Mecca per un governo palestinese di unità nazionale – a smarcarsi dall’attuale appiattimento della politica europea riguardo alla questione palestinese sulle posizioni Usa, a porre termine al boicottaggio politico ed economico nei confronti dell’Anp e ad aprire un dialogo con il premier Haniyeh, volto a favorire la ripresa dei colloqui di pace con Israele.
Ma l’aspetto fondamentale della questione che gli Ebrei per la pace mettono in evidenza è un altro, una constatazione semplice eppure incredibilmente sottaciuta dai mezzi di informazione e misteriosamente ignorata dai governi europei.
E cioè che le tre condizioni che Israele, gli Usa e la Ue vorrebbero rispettate da Hamas per porre termine al blocco degli aiuti e all’isolamento politico (il riconoscimento dello Stato di Israele, la fine della violenza e il riconoscimento degli accordi precedenti siglati dall’Olp) sono misure assolutamente unilaterali, non prevedendo reciprocità nei confronti di Israele, e non aiutano in nulla il raggiungimento di un accordo di pace.
Non solo, infatti, come è evidente, il boicottaggio nei confronti del governo palestinese è assurdo e ingiusto, costituendo l’unico caso al mondo di sanzione che colpisce un popolo oppresso, invaso, massacrato, ma il solo risultato che sino ad oggi ha ottenuto è stato quello di rendere ancora più miserevoli le condizioni di vita della popolazione civile.
Ma, soprattutto, le condizioni richieste dalla comunità internazionale per riprendere i normali rapporti politici ed economici con i Palestinesi rappresentano l’ennesimo esempio del duplice standard da sempre applicato nella regione.
Si chiede, infatti, ai Palestinesi di cessare ogni violenza, ma si tollera tranquillamente che l’esercito israeliano effettui i suoi raid, le sue esecuzioni, i suoi assassinii, compiendo quotidianamente nei Territori occupati ogni sorta di crimine di guerra.
Si chiede ad Hamas di ufficializzare il rispetto di ogni accordo firmato in passato, ma si consente che Israele abbia violato e continui a violare ogni sorta di accordo, convenzione o risoluzione internazionali, compresi quelli più recenti e tanto strombazzati, come l’accordo per l’accesso e il movimento da e per Gaza (AMA).
Si chiede ad Hamas di riconoscere Israele, ma si passa sopra al fatto che Israele abbia modificato unilateralmente i confini internazionalmente riconosciuti con la costruzione del muro di “sicurezza”, che i suoi governanti riaffermino a ogni pié sospinto che Gerusalemme è e rimarrà sempre sotto sovranità israeliana, che si rifiuti persino di discutere della questione dei profughi palestinesi, i cui diritti peraltro sarebbero tutelati dalla risoluzione Onu n.194 del 1948.
L’appello degli Ebrei per la pace cade in un momento particolarmente delicato.
Da una parte, infatti, Israele vorrebbe veder riaffermato l’isolamento politico ed economico di Hamas, ed anzi ha iniziato ad attuare un curioso boicottaggio “di secondo livello”, vietando ogni incontro ufficiale ad ogni politico o diplomatico che, nel corso dello stesso viaggio, abbia incontrato anche esponenti governativi di Hamas: così è accaduto, ad esempio, per il Vice Ministro norvegese Raymond Johansen, primo membro di un governo europeo a incontrare il premier palestinese Haniyeh.
Dall’altra, tuttavia, il fronte oltranzista del boicottaggio comincia a mostrare qualche crepa laddove, all’interno della Ue, Francia, Spagna e Svezia chiedono una riapertura di un canale diretto con l’Autorità palestinese, mentre persino il console Usa Jacob Walles ha recentemente incontrato il neo Ministro delle Finanze palestinese Salam Fayyad.
E’ dunque importante dare spazio, anche qui in Italia, a quanti spingono giustamente per porre fine al boicottaggio che colpisce l’intero popolo palestinese e ad usare ogni strumento possibile per far riprendere i colloqui di pace tra Israeliani e Palestinesi.
L’appello degli Ebrei per la pace, soprattutto, dovrebbe essere distribuito in copia ai tanti parlamentari della sinistra italiana che (a parole) si professano pacifisti e che trovano il tempo di intervenire su tutto, dall’Afghanistan alle Frecce Tricolori, ma inspiegabilmente non trovano un attimo di tempo per chiedere conto al governo Prodi del duplice standard applicato nei rapporti tra Anp e Israele, laddove la prima subisce l’isolamento politico e il blocco degli aiuti, mentre il secondo gode di rapporti privilegiati di scambio e di collaborazione in campo economico e militare.
Sarei davvero curioso di poter avere una risposta.

EBREI PER LA PACE: “TRATTARE CON HAMAS” (Il Manifesto, 20.3.2007)
Facendo nostre alcune delle considerazioni e raccomandazioni contenute nell'articolo di Henry Siegman - direttore del U.S./Middle East Project e docente della School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra - apparso il 19/2/07 sull' International Herald Tribune e nell'editoriale di Haaretz del 5/2/07, nonché in un articolo di Uri Avnery del 17/2/07, ci rivolgiamo all'Unione europea e alle dirigenze dei vari Paesi che ne fanno parte, perché diano un proprio indipendente contributo all'inizio di serie trattative di pace tra Israele e l'Anp.
All'Unione europea, ai leader dei paesi europei.
Come individui e gruppi di ebrei impegnati per la pace tra israeliani e palestinesi riteniamo che, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni dello scorso anno, il governo israeliano ha continuato a delegittimare ogni possibile interlocutore palestinese. Già l'Autorità palestinese era stata ignorata da Sharon nel ritiro da Gaza. Olmert ha boicottato e ottenuto il boicottaggio internazionale del governo Hamas uscito vincitore dalle elezioni e ha nel contempo delegittimato Abu Mazen. Oggi continua a farlo anche di fronte a un nuovo e importante sviluppo: il recente accordo per un governo palestinese di unità nazionale, cui si è pervenuti alla Mecca su iniziativa di re Abdullah, sembra aver raggiunto tre obiettivi:
1) fermare la guerra civile fra i palestinesi che, se fosse andata avanti, avrebbe portato a un bagno di sangue con esiti catastrofici e reso impossibile ancora per molti anni parlare di pace nell'area;
2) sganciare Hamas dall'influenza dell'Iran verso cui l'organizzazione si era rivolta in mancanza di alternative;
3) rompere il tabù dell'impossibilità di appoggiare un governo palestinese che includa Hamas, e indicare nel nuovo governo di unità nazionale un interlocutore possibile e legittimo.
Sembra perciò che ci siano adesso i presupposti perché con il sostegno dell'Arabia saudita - da cui gli Stati uniti dipendono non solo per il petrolio ma anche per la gestione dello scontro con l'Iran e per la situazione irachena -, l'Europa possa sganciarsi dalla subordinazione verso l'alleato americano nella questione del conflitto israelo-palestinese.
L'Unione europea dovrebbe quindi annunciare immediatamente la fine del boicottaggio e aprire un dialogo con il governo di unità nazionale per la ripresa delle trattative con Israele, nella consapevolezza che non si può perdere anche questa occasione di pace.
Sarebbe una ripetizione del tragico errore già commesso nel 2002, quando l'Arabia saudita propose la fine completa delle ostilità tra il mondo arabo e Israele e il riconoscimento dello Stato ebraico, da parte araba, a fronte del ritiro dai territori occupati.
Sono state poste finora tre condizioni per la fine del boicottaggio:
a) il riconoscimento da parte di Hamas dell'esistenza dello Stato d'Israele;
b) la fine del terrorismo;
c) il pieno riconoscimento degli accordi siglati dall'Olp.
Però questi tre punti sono assolutamente unilaterali poiché la radicalizzazione della società palestinese rappresentata dal voto ad Hamas ha tra le sue ragioni intrinseche la prosecuzione dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967, con tutto il dolore che porta con sé, e le afflizioni che i palestinesi sopportano.
Ora, l'Unione europea e i suoi leader hanno la facoltà di cambiare le condizioni preliminari per la fine del boicottaggio internazionale del nuovo governo palestinese di unità nazionale, mettendo così l'Autorità nazionale palestinese in grado di riprendere i negoziati. Dovrebbero cioè chiedere ad Hamas, come condizione preliminare per la fine del boicottaggio, di dichiarare la sua volontà di riconoscere Israele quando Israele dichiarerà il proprio riconoscimento dei diritti palestinesi all'interno dei confini precedenti il 1967, escludendo cambiamenti nei confini senza l'accordo palestinese, come stabiliscono le risoluzioni Onu: questa condizione, infatti, racchiude in sé anche la possibilità delle altre due. In mancanza di quest'atto dovuto, tutto il resto sembra solo un alibi per sostenere l'ingiusto status quo.
Vorremmo ricordare ai leader dei paesi europei che la base forte di una simile presa di posizione sta nelle stesse decisioni assunte dall'Unione europea nel marzo 2004, quando i presidenti dei paesi dell'Ue dichiararono all'unanimità l'intenzione di non ammettere nessuna deviazione dai confini del 1967 che non fosse il risultato di un accordo fra le due parti.
È il momento di agire in coerenza con questa decisione.
Barbara Agostini, Irene Albert, Paolo Amati, Dunia Astrologo, Marina Astrologo, Annalisa Bemporad, Andrea Billau, Lina Cabib, Giorgio Canarutto, Paola Canarutto, Ilan Cohen, Giuseppe Damascelli, Lucio Damascelli, Marina Del Monte, Ester Fano, Carla Forti, Giorgio Forti, Joan Haim, Jules Karpi, Dino Levi, Tamara Levi, Michele Luzzati, Patrizia Mancini, Miriam Marino, Marina Morpurgo, Ernesto Muggia, Carla Ortona, Sergio Ottolenghi, Valeria Ottolenghi, Moni Ovadia, Paola Sacerdoti, Renata Sarfati, Stefano Sarfati, Giorgio Segrè, Danco Singer, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Susanna Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Ornella Terracini, Marco Todeschini, Claudio Treves, Virginia Volterra.

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8 marzo 2007

Moderazione commenti.

Un piccolo incidente "tecnico" relativo all'area di moderazione ha impedito per alcuni mesi la pubblicazione dei commenti ai post di questo blog.
Di ciò mi scuso con quanti hanno speso parte del loro tempo per commentare, in maniera favorevole o contraria, quanto da me scritto in questo tempo.

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L'8 marzo delle donne palestinesi.

L’8 marzo, giornata internazionale della donna, è per noi soprattutto l’occasione per ricordare come la pluridecennale occupazione dei Territori palestinesi, il blocco finanziario internazionale decretato contro l’Anp e i crimini di guerra quotidianamente commessi dagli Israeliani a Gaza e in Cisgiordania colpiscano soprattutto le fasce più deboli della popolazione civile palestinese, e in primo luogo le donne e i bambini.
Dall’inizio del 2006 e fino al 28 febbraio di quest’anno, l’esercito israeliano ha ucciso ben 36 donne, e tutte in circostanze che chiaramente rappresentano degli efferati crimini di guerra.
Donne come Sa’diyah Hassan ‘Atallah Harzallah, 73 anni, vittima innocente di un’operazione di arresto avvenuta il 21.11.2006 a Beit Lahiya, o come Khairieh Ahmad Muhammad Nazzal, ferita e lasciata a morire per dissanguamento a Qabatiya il 27 novembre, quando era corsa in aiuto di uomo rimasto ferito nei pressi della sua casa.
Oppure ragazzine che non hanno avuto il tempo di diventare delle donne, come Da’ha Abed al-Kadr, 14 anni, uccisa dai soldatini di Tsahal il 19 dicembre 2006 perché si era avvicinata troppo al muro di “sicurezza” israeliano, o come ‘Abir Bassam ‘Abd Rabo ‘Aramin, 10 anni, ferita alla testa il 16 gennaio di quest’anno mentre stava andando a comprare delle caramelle in un negozio vicino alla sua scuola, e morta qualche giorno dopo.
Questo 8 marzo è quindi la data giusta per ricordare queste tra le altre migliaia di vittime innocenti di una violenza cieca e bestiale, nonché per chiedere alla comunità internazionale di cessare un ingiusto e assurdo boicottaggio economico ai danni di una popolazione oppressa e massacrata e, soprattutto, di condannare ed imporre severe sanzioni a carico di Israele, responsabile di sabotare ogni sforzo sulla strada della pace e di commettere quotidiani crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario.
L’8 marzo è anche l’occasione per parlare del caso della piccola Maria Aman, 6 anni, vittima nel maggio del 2006 di una esecuzione "mirata" in cui trovarono la morte anche la madre, la nonna e un fratellino, e condannata a rimanere paralizzata dal collo in giù per tutto il resto della sua vita.
Recentemente il Sunday Times ha raccolto 10.000 sterline tra i suoi lettori da devolvere in favore della piccola Maria, sarebbe una bella cosa se qualcuno, anche in Italia, si facesse carico di organizzare una simile, meritoria iniziativa.

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