25 maggio 2006

Uno squarcio di onesto giornalismo.

Abbiamo più volte denunciato la lacunosa, se non addirittura assente, informazione sugli assassinii e sui crimini di guerra quotidianamente commessi dall’esercito israeliano in territorio palestinese.
Talvolta accade, tuttavia, che qualche corrispondente Rai riesca a svolgere onestamente il proprio lavoro; è il caso di Filippo Landi che stanotte, su rainews24 (approfittando dell’assenza di Claudio Pagliara…), è riuscito nell’impresa di riportare correttamente la notizia del raid israeliano di ieri a Ramallah, che è costato la vita a quattro civili Palestinesi ed ha provocato il ferimento di un’altra cinquantina di persone.
Non è peregrina questa premessa, perché la propaganda israeliana ha parlato dei fatti di Ramallah come di uno scontro a fuoco (“gunbattle”) tra soldati di Tsahal e militanti palestinesi, ma la realtà è ben diversa.
E’ successo mercoledì, infatti, che soldati israeliani sotto copertura – i famosi “travestiti” dell’unità di élite Duvdevan – sono entrati in pieno giorno a Ramallah per effettuare l’arresto di un militante della Jihad islamica, Mohammed Shubaki.
Giunti nella centrale Manara Square, i soldati sono stati “assaliti” da numerosi civili palestinesi, che hanno iniziato a tirare pietre all’indirizzo degli israeliani, i quali hanno risposto sparando ad altezza d’uomo, con il risultato di uccidere quattro Palestinesi e di ferirne un numero compreso tra 35 (secondo Ha’aretz) a 50 (secondo rainews).
L’esercito israeliano si è giustificato sostenendo di aver dovuto fronteggiare non solo dei lanci di pietre, ma anche numerosi colpi di fucile, e che, nonostante tutto, i prodi soldatini di Tsahal si sono limitati a sparare in aria.
Delle due l’una, o l’esercito israeliano mente (come al solito…) o i Palestinesi hanno imparato a volare!
Del resto, la prova che gli israeliani abbiano mentito ancora una volta sta nel fatto che una quindicina circa di Palestinesi sono stati feriti da proiettili rivestiti di gomma, e tale tipo di munizionamento si usa per fronteggiare casi di sommossa, non certo negli scontri a fuoco con militanti armati.
Va rilevato, inoltre, che un solo soldato israeliano è rimasto lievemente ferito negli scontri, ed è stato ferito … da una pietra; anche qui i casi sono due, o gli israeliani mentono, o i fucilieri palestinesi hanno davvero una mira molto scarsa, considerato che non riescono mai a colpirne neanche uno dei soldati dell’Idf…
Immediate reazioni al raid di Ramallah sono giunte dal Quisling palestinese Abu Mazen, che ha accusato Israele di accrescere la tensione e di far saltare la tregua (ma quale tregua?), e dal Ministro degli esteri egiziano Gheit, che ha accusato l’esercito israeliano di “uso sproporzionato della violenza”, sai che novità!
Ed in effetti niente di nuovo è accaduto, nell’ipotesi benevola i soldati israeliani hanno perso la testa e hanno aperto il fuoco all’impazzata, nell’ipotesi peggiore ha prevalso, come troppo sovente accade, la voglia di veder scorrere il sangue del proprio “nemico”.
Ma il risultato non cambia, l’ennesimo illegale raid nei Territori occupati, l’ennesimo crimine di guerra israeliano, l’ennesimo assassinio deliberato di civili disarmati.
Il blocco degli aiuti finanziari all’Anp e la disastrosa situazione umanitaria nei Territori palestinesi, da una parte, sta facendo scivolare lentamente i Palestinesi verso il baratro della guerra civile, rendendo sempre più plausibile un intervento del Presidente Abu Mazen teso a far cadere il legittimo governo di Hamas (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/05/quei-morti-dimenticati.html), ma, dall’altra, sta portando all’esasperazione la popolazione civile palestinese, accrescendo vieppiù l’odio contro gli Israeliani oppressori ed assassini e rendendo più che probabile una ulteriore escalation di violenza e di morte.
Dopo il raid di ieri a Ramallah, il bilancio di nemmeno cinque mesi di valorose operazioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati sale a 126 Palestinesi morti ed almeno 550 feriti, mentre le perdite israeliane ammontano a 13 persone uccise, otto in Israele e cinque nei Territori occupati (fonte siti web della Mezzaluna Rossa e di B’tselem).
Ci si chiede dove gli Usa, la Ue, il Quartetto e quanti altri abbiano il coraggio di chiedere ad Hamas, e solo ad Hamas, la cessazione della violenza, ci si chiede cosa aspetti la comunità internazionale ad intervenire su questo Paese di ladri, razzisti ed assassini che prende il nome di Israele per imporre la cessazione del massacro della popolazione civile palestinese ed il ripristino di un minimo di legalità e di rispetto dei diritti umani.
Ma davvero non sappiamo più cosa pensare.

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21 maggio 2006

Operazioni di peace-keeping.


In questi giorni sono in corso in Sardegna – tra le proteste delle popolazioni locali e dei pacifisti – alcune manovre congiunte tra le forze aeree di varie nazioni europee, ivi compresa Israele (vedi come cambia la geografia politica!).
In particolare, nel quadro dell’operazione denominata “Volcanex 2006”, vengono simulate talune attività militari che fanno parte della cosiddetta “Peace Support Operation”, tra le quali, ad esempio, la ricerca e il soccorso di feriti in territorio ostile.
A queste esercitazioni, come si sa, avrebbe dovuto partecipare con alcuni velivoli anche la Svezia, che però si è tirata indietro all’ultimo momento proprio a cagione della partecipazione di Israele alle manovre congiunte, e non già perché gli Svedesi protestassero contro l’inclusione di Israele tra le nazioni europee, ma per il semplice fatto che intendevano sottolineare il singolare paradosso che vede un Paese oppressore ed assassino partecipare a delle operazioni di peace-keeping.
Ma la Svezia ha torto.
In realtà, in questo campo, gli Israeliani sono dei veri maestri ed hanno molto da insegnare a noi europei “mollaccioni”.
Si prenda, ad esempio, l’ultima, valorosa operazione di peace-keeping effettuata da Israele ieri pomeriggio a Gaza.
Intorno alle 18:30, un aereo dell’aviazione israeliana ha lanciato alcuni missili in direzione di una sottostante, affollata strada nei sobborghi di Gaza City, colpendo in pieno un pick-up Mitsubishi ed uccidendone l’unico occupante, Mohammed Dahdouh, uno dei leader delle brigate al-Quds, l’ala militare della Jihad islamica.
Peccato che, nell’incursione, sia rimasto coinvolto anche un taxi che procedeva dietro l’auto di Dahdouh e che, in tal modo, abbiano trovato la morte anche tre civili innocenti, la 25enne Hanan Aman, sua madre, la 45enne Naima, ed il figlioletto di soli 5 anni, Muhind, mentre l’altra figlia di soli 3 anni, di nome Mariyah, versa in gravissime condizioni.
E di una operazione di peace-keeping perfettamente riuscita si tratta, in effetti, perché in un sol colpo Israele ha assicurato a sé stesso e ai suoi cittadini – con la morte di Dahdouh – pace e sicurezza ai propri confini con Gaza, mentre alle due povere donne e al piccolo Muhind ha assicurato … la pace eterna!
Si fa dell’amara ironia, qualcuno forse la troverà fuori luogo, ma è l’unica maniera per dissimulare l’enorme carica di rabbia, di angoscia, di frustrazione che la notizia di questo ennesimo crimine israeliano ha portato nell’animo di chi scrive.
Il 6 marzo, in un analogo raid aereo a Gaza City, l’aviazione israeliana aveva ucciso altri due militanti della Jihad islamica, ma nel contempo aveva fatto strage di civili inermi, uccidendo una bambina di 8 anni, Ra’ed al-Batash, e due ragazzini di 14 e 17 anni, Ahmed al-Swaifi e Mahmoud al-Batash; altri 12 civili che si trovavano nei pressi erano rimasti feriti, tra cui sei adolescenti e il padre di due dei ragazzini uccisi, mentre l’anziana zia di uno dei militanti palestinesi, che abitava nei pressi, alla vista del massacro era morta per un attacco cardiaco (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/questi-assassini-vanno-fermati.html).
Allora, nel dare la notizia, avevo titolato il mio pezzo “questi assassini vanno fermati!”, e questo grido e questa invocazione sono più attuali che mai: deve essere fermato, con ogni mezzo, il massacro della popolazione civile palestinese, ed Israele deve essere bandito dal consesso delle nazioni civili e sottoposto a boicottaggio politico ed economico al pari dell’Africa dell’apartheid!
Tra l’altro Israele, che ama sempre giustificare i propri, illegali assassinii extra-giudiziari sostenendo che ne sono bersaglio solo i “terroristi” macchiatisi di vari attentati e crimini assortiti, questa volta non ha saputo accusare Mohammed Dahdouh di altro se non del lancio di qualche razzo Qassam contro Israele.
Il che significa che si è ucciso un uomo, ed insieme due donne e un bambino innocenti, a causa del lancio di alcuni razzi artigianali che non hanno causato alcuna vittima.
Il che significa che dietro quest’ennesimo e bestiale crimine di guerra sta soltanto la pura e semplice sete di sangue, il gusto dell’usare il pugno di ferro, l’assoluto disprezzo per la vita altrui, non solo di quella del “nemico” ma anche della vita di civili inermi, povere donne e bambini che nulla di male avevano fatto nella loro vita.
Chissà se il nuovo Ministro dell’Assassinio israeliano Amir Peretz si congratulerà con i vertici della Iaf per la riuscita dell’operazione di ieri, così come si era congratulato con l’esercito e i servizi segreti per la riuscita del raid di Qabatya del 14 maggio, in cui, alla fine della giornata, si erano contati 5 Palestinesi uccisi e 16 feriti, tra cui 7 bambini e un giornalista (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/05/quei-morti-dimenticati.html): ci auguriamo che abbia il pudore di tacere, questa volta almeno.
Chissà se i vari rappresentanti delle comunità ebraiche italiane, così intenti a lottare contro la nuova ondata di antisemitismo testimoniata da una nota vignetta apparsa su Liberazione, troveranno anche il tempo per condannare questo ennesimo, efferato crimine di guerra commesso dal loro amato Israele: ce lo auguriamo, ma francamente non ce lo aspettiamo.
E tuttavia, allora, almeno tacciano e la smettano di lagnarsi se qualcuno osa sostenere che Israele è un paese di banditi, di razzisti e di assassini, e si rendano finalmente conto che simili affermazioni non sono dettate da bieco antisemitismo, ma dalla semplice osservazione dei fatti che quotidianamente accadono nei Territori palestinesi.
Naturalmente, per chi vuole vedere e non gira la testa dall’altro lato.

P.S. Lo stato dell’informazione italiana su quanto avviene in Palestina e sui crimini israeliani è davvero disastroso.
Sui fatti narrati, il tg1 delle ore 20:00 del 20 maggio ha riportato la notizia dell’uccisione di Dahdouh, omettendo tuttavia di menzionare la trascurabile circostanza della morte delle due donne e del bambino palestinesi, il tg2 nemmeno questo.
Forse è il caso che la Rai pensi ad un “ridispiegamento” dei propri corrispondenti dall’estero…

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19 maggio 2006

Quei morti "dimenticati".

All’inizio della scorsa settimana si è seriamente sfiorata la guerra civile in Palestina, con scontri a fuoco che hanno visto contrapposti membri della sicurezza preventiva di Fatah (comandata di fatto dal sempiterno Mohammed Dahlan) da una parte e attivisti di Hamas e dei Comitati di Resistenza Popolare dall’altra.
Il risultato è che tra lunedì 8 e martedì 9 maggio, in varie località della Striscia di Gaza, sono stati uccisi due militanti di Fatah e uno di Hamas, e che una ventina di Palestinesi sono rimasti feriti, tra cui ben otto ragazzini all’uscita da scuola; la tensione è tutt’ora altissima, malgrado il fatto che Hamas e il partito di Abu Mazen abbiano diramato un comunicato congiunto in cui si avvisava che, d’ora in avanti, chiunque fosse stato sorpreso a circolare armato sarebbe stato dichiarato “fuorilegge”.
Prova ne è che, ancora ieri e stamattina, due attivisti di Hamas sono stati uccisi ed uno gravemente ferito nella striscia di Gaza, nel corso di due separati agguati di cui non è stata rivendicata la paternità.
Di questi sanguinosi scontri tra le diverse organizzazioni palestinesi i media italiani hanno dato una copertura giornalistica davvero notevole, ben lontana dagli usuali standard che vedono la morte di civili Palestinesi quasi sempre omessa o riportata con brevi accenni, e persino all’interno di Uno mattina, tra un errore grammaticale di Luca Giurato e una ricetta di cucina, ne è stato dato ampio resoconto.
Peccato che, complice forse il bel tempo degli ultimi due weekend, analoga copertura informativa non sia stata data alle violente e brutali azioni dell’esercito israeliano che, prima e dopo i fatti in questione, hanno reclamato l’ennesimo tributo di sangue palestinese.
Giovedì 4 maggio, un tassista palestinese di 37 anni, Zakhariah Daraghmeh, è stato ucciso a sangue freddo dai soldati israeliani nei pressi del check-point di Ba’adan, a est di Nablus.
E’ successo che Daraghmeh – come quasi tutti i tassisti della zona – si era avvicinato al check-point in cerca di clienti diretti a Nablus ed era entrato in una zona vietata al traffico veicolare; all’avvicinarsi di una jeep israeliana, il povero Daraghmeh ha cercato di allontanarsi a piedi, ma è stato colpito alla schiena da un colpo di fucile ed è morto qualche ora dopo al Rafadiya Hospital di Nablus.
Venerdì 5 maggio, l’aviazione israeliana ha ucciso 5 militanti dei Comitati di Resistenza Popolare nel corso di un raid aereo a Rafah, nel nord della Striscia di Gaza; in aggiunta, durante un’incursione dell’Idf nel campo profughi di Balata, nel West Bank, truppe israeliane con l’appoggio di una trentina di jeep e di alcuni bulldozer hanno ferito tre attivisti delle Brigate al-Aqsa e ne hanno arrestati altri due.
Sabato 6 maggio, verso sera, nel corso dei consueti, massicci bombardamenti della Striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha ucciso un anziano agricoltore palestinese, il 65enne Mousa Salim al-Sawarka, colpito in pieno dalle schegge mentre portava al pascolo i suoi cammelli; in precedenza, nel corso della mattina, altri 4 Palestinesi erano rimasti feriti nel corso dei bombardamenti, che hanno riguardato soprattutto le aree a nord e a est di Beit Lahia.
Domenica 7 maggio, nuovi bombardamenti da parte degli Israeliani che, sia detto incidentalmente, in questo e nei giorni successivi hanno sparato una media di 300 colpi di artiglieria al giorno contro obiettivi civili (cfr. la corrispondenza di Amos Harel su Ha’aretz, 9.5.2006); il risultato è stata la morte di un altro agricoltore palestinese, il 55enne Hassan Khader al-Shaf’ei, ed il ferimento della 59enne Fatema Sahweel, colpita all’occhio destro dalle schegge delle granate cadute a meno di 300 metri dalla sua casa a est di Beit Hanoun.
Tra lunedì 8 e martedì 9 maggio, infine, si sono contati “soltanto” cinque feriti a causa dei bombardamenti, tra cui un ragazzino di 15 anni e due donne, ricoverate all’ospedale di Beit Lahia, e questo nonostante l’intensità dei bombardamenti sia ulteriormente aumentata fino a giungere, in alcuni momenti, alla frequenza di un colpo d’artiglieria ogni 15 secondi, causando notevoli danni a varie infrastrutture ed a case di civile abitazione.
Questi bombardamenti indiscriminati, che vanno avanti ormai da oltre due mesi, alla data del 7 maggio, e solo in 20 giorni, hanno causato 8 vittime, inclusi due bambini e due membri delle forze di sicurezza palestinesi che cercavano di rimuovere un proiettile d’artiglieria inesploso, mentre i feriti ammontano ad almeno 60, di cui 21 minori di 18 anni (cfr. Palestinian Centre for Human Rights, press release del 7.5.2006).
Si tratta, dunque, di atti irresponsabili e disumani, che costituiscono una gigantesca punizione collettiva a danno della popolazione della Striscia di Gaza e che, per la loro gravità e sistematicità, costituiscono dei veri e propri crimini contro l’umanità (vedi, su questo punto, http://palestinanews.blogspot.com/2006/04/ma-chi-condanna-i-crimini-di-israele.html).
Complessivamente, nel periodo compreso tra il 4 ed il 10 maggio, l’esercito israeliano ha ucciso 9 Palestinesi e ne ha feriti 24 (14 a Gaza e 10 nel West Bank); tra questi ultimi, ben 7 erano bambini e 3 le donne.
Eppure, mentre da una parte si da ampio risalto alle perdite causate dagli scontri intestini tra le varie fazioni palestinesi, dall’altra si mantiene un silenzio pressoché assoluto sui Palestinesi uccisi e/o feriti dall’esercito israeliano, per quale ragione?
Un primo motivo, più evidente e banale, consiste naturalmente nel fatto che è molto più facile, per i media di regime, raccontare di Palestinesi uccisi per mano di altri Palestinesi, piuttosto che affrontare la spinosa questione delle spietate e illegali esecuzioni extra-giudiziarie commesse da Israele e, ancora di più, quella dei crimini contro l’umanità perpetrati dall’esercito israeliano ai danni degli abitanti della striscia di Gaza.
Ma un secondo, recondito motivo è rappresentato dalla strategia, condotta sia sul piano politico sia su quello mediatico-propagandistico, che tenta di accreditare l’immagine dei Territori palestinesi occupati come quella di una regione allo sbando, stretta tra una situazione economica e sanitaria disastrosa ed una guerra civile strisciante, e ciò non al fine di protestare contro l’inumano trattamento riservato alla popolazione palestinese, ma piuttosto di fornire il pretesto al Quisling palestinese di nome Abu Mazen di procedere alla rimozione del legittimo governo di Hamas, giustificandola con lo stato di emergenza e l’incapacità del movimento islamico di provvedere ai bisogni della popolazione.
Non è certo un caso se, recentemente, i servizi segreti israeliani hanno fatto trapelare la notizia di un fallito attentato alla vita del Presidente palestinese, sventato proprio grazie alle informazioni che sarebbe state fornite tempestivamente dallo Shin Bet ai più stretti collaboratori di Abu Mazen.
Tale fantomatico “attentato” – seccamente smentito dal Ministro degli esteri palestinese Mahmoud al-Zahar – sarebbe stato ordinato dalla dirigenza di Hamas all’estero, dietro pressioni dell’Iran.
E qui ci si ricollega al disegno più generale, tanto caro ad Israele e agli Usa, che cerca di inserire ogni vicenda mediorientale nell’unico calderone della lotta al terrorismo “globale”, unendo tutto e il contrario di tutto, Hamas, la Jihad islamica, al-Qaeda, l’Iran di Ahmadinejad, la Siria, il Libano degli Hezbollah, la monarchia saudita e quant’altro.
Persino la disastrosa situazione ospedaliera e sanitaria dei Territori palestinesi, soprattutto a Gaza, denunciata con sdegno e angoscia dagli editoriali del N.Y. Times o di Le Monde e dai report di organizzazioni come Gush Shalom, B’tselem, Amnesty International, Medici per i Diritti Umani ed altre ancora, viene piegata a questa diabolica macchinazione, in un duplice senso.
Da una parte, si attesta la carenza di materiale sanitario e di medicine, e la morte di alcuni bambini per mancanza di cure adeguate, ma non per denunciare l’assurda punizione collettiva e l’inumano trattamento riservato ai Palestinesi dalla comunità internazionale, che ha tagliato ogni aiuto finanziario all’Anp, e da Israele, che illegalmente rifiuta di riversare ai Palestinesi le imposte e i dazi doganali trattenuti per loro conto, ma, al contrario, proprio al fine di incolpare “l’entità terrorista” guidata da Hamas di tale disastro umanitario, giustificando a priori l’eventuale rimozione del governo democraticamente eletto.
Dall’altra si fanno circolare fantasiose analisi geopolitiche, secondo cui la prova della creazione di un nuovo “asse antisemita” in medio oriente starebbe proprio nella “catena di pronunciamenti a favore di elargizioni in denaro all’Autorità di Hamas, partita da Teheran e che ha coinvolto anche la Siria, ma soprattutto paesi … come Arabia Saudita e Qatar”, giungendo addirittura a parlare di una nuova “sindrome dell’isolamento” di Israele (cfr. sul punto “Il patto kamikaze” su L’Espresso, 27.4.2006).
Ma cosa dovrebbero fare i Palestinesi, rifiutare quei pochi aiuti finanziari promessi dagli Stati arabi per non fare pesare su Israele un fantomatico “isolamento”?
Aiuti finanziari, peraltro, che sono rimasti quasi tutti sulla carta a causa del ricatto Usa che pesa sul circuito bancario internazionale, che non osa operare transazioni finanziarie a favore dell’Anp per paura delle sanzioni conseguenti.
Analisi e ricostruzioni di tal genere sono, peraltro, assolutamente fantasiose; la questione palestinese ha sempre avuto una sua specificità, tutt’ora riaffermata con forza da Hamas, da ultimo negando con un comunicato ufficiale ogni collegamento con al-Qaeda e ripudiandone le azioni terroristiche.
Attualmente, la situazione è in una fase d’attesa, carica tuttavia di tensione e di preoccupazioni.
L’Unione europea, sull’onda emozionale sollevata dalle notizie relative alla drammatica carenza di cibo e medicinali nella Striscia di Gaza, ha deciso di ripristinare il regime di aiuti finanziari all’Anp, secondo meccanismi che, tuttavia, non sono stati ancora per nulla chiariti.
Non si tratta, infatti, solo di una emergenza sanitaria, ma di un vero e proprio collasso dell’intera struttura economico-finanziaria palestinese; basti pensare che i dipendenti dell’Anp non ricevono lo stipendio ormai da tre mesi, e che da tali entrate dipende la sussistenza di circa il 25% della popolazione palestinese.
In un recente memorandum della Banca Mondiale, pubblicato dalla Reuters, si è poi fatta presente l’urgenza di provvedere al ripristino degli aiuti finanziari da parte della comunità internazionale, sostenendo che lo scenario precedentemente prefigurato – che pure vedeva il tasso di povertà salire al 67% e quello di disoccupazione al 40% - era da considerarsi ormai “sottostimato”.
A fronte di questa catastrofe annunciata, tuttavia, l’Unione europea non è stata nemmeno in grado di fornire dettagli circa il meccanismo con cui verranno ripristinati gli aiuti e, in particolare, su come verranno pagati gli stipendi agli impiegati palestinesi.
Dovendosi purtroppo perseverare con l’ipocrita decisione di fornire gli aiuti finanziari evitando di passare per le strutture governative di Hamas, la difficoltà sta appunto nel trovare un idoneo meccanismo atto a far giungere i soldi direttamente nelle tasche dei Palestinesi, con le ovvie e intuibili difficoltà del caso.
L’idea prevalente è quella di affidare l’ingrato compito ad un fondo gestito dalla Banca Mondiale, la quale però ha già fatto sapere che il prerequisito essenziale a che tutto funzioni è che gli Stati Uniti ed Israele forniscano “esplicite assicurazioni” alle banche ed agli organismi finanziari internazionali, a vario modo coinvolti nell’operazione, “che non saranno in alcun modo soggetti a sanzioni”.
Il che non è del tutto pacifico, visto che gli Usa hanno dovuto in un certo qual modo “subire” la decisione europea, pur non essendone affatto contenti; il Segretario di Stato americano Condy Rice, ad esempio, a margine di una riunione del “Quartetto” del 9 maggio, ha avuto modo di affermare che “nessun Paese al mondo, incluse le nazioni africane più povere, fa affidamento su fonti estere per pagare i suoi impiegati”.
Si potrebbe replicare che nessuna nazione al mondo vive sotto il tallone di una occupazione militare brutale ed asfissiante, e che nessun Paese al mondo vede buona parte delle proprie entrate finanziarie illegalmente sequestrate da un Paese straniero ma, tant’è, questa è la spia della contrarietà americana al progetto di aiuti ideato dall’Unione europea, che peraltro dovrebbe avere una durata limitata nel tempo (si parla di tre mesi).
Un meccanismo del genere, peraltro, non varrebbe a sanare del tutto la disastrosa situazione dell’Anp, dato che, comunque, ad essa non verrebbe fornito direttamente alcun finanziamento, con il risultato di determinare il collasso delle strutture pubbliche palestinesi: per fare funzionare una organizzazione di tipo statuale, infatti, non basta pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, bisogna anche approntare i mezzi finanziari per l’acquisto di beni e la fornitura di servizi.
Già adesso, ad esempio, la Dor Energy, l’unica compagnia a fornire carburanti e prodotti petroliferi ai Palestinesi, ha deciso di sospendere ogni ulteriore fornitura, in conseguenza dell’enorme debito accumulato nei confronti dell’Anp, ed il capo dell’Agenzia petrolifera palestinese, Mujahed Salameh, paventa il blocco delle fabbriche e la sospensione dei servizi di trasporto pubblico e delle ambulanze.
Nel frattempo circolano nuovamente strane voci (ancora di fonte israeliana, naturalmente) circa presunti complotti per uccidere Abu Mazen: cambia, stavolta, l’organizzazione che avrebbe progettato il presunto attentato, prima era Hamas, stavolta la Jihad islamica, a mezzo di un’auto imbottita di tritolo, mentre un nuovo fronte di contrasto tra Fatah e Hamas è rappresentato ora dalla costituzione di un nuovo corpo di sicurezza agli ordini del Ministero degli Interni palestinese, giudicata “illegale” dal Presidente palestinese.
Anche di questo, oggi, i media davano ampio risalto, ivi inclusa un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica da Abu Mazen.
Le uniche notizie a non circolare continuano ad essere, inopinatamente, quelle relative al crescendo di esecuzioni extra-giudiziarie e di assassinii di Palestinesi ad opera dell’esercito israeliano.
Domenica, 14 maggio, durante un raid nel villaggio di Qabatya, nel West Bank, l’esercito israeliano ha ucciso un militante delle Brigate al-Quds, il 23enne Tha’er Sadiq Hanaisha; il fratello, il 21enne Mujahed, accorso per cercare di soccorrerlo e di portarlo al riparo, è stato anch’egli ucciso da diverse pallottole al petto e al capo, pur essendo disarmato; poco dopo, a seguito di un violentissimo scontro a fuoco e al lancio di alcuni razzi, venivano ritrovati i corpi di altri due Palestinesi, entrambi devastati dalle schegge: si trattava, in particolare, di Mo’tassem Ja’ar e di Elias al-Ashqar, quest’ultimo il vero obiettivo dell’intera operazione, in quanto ritenuto responsabile di vari attentati suicidi.
Nel corso dell’attacco a Qabatya, numerosi Palestinesi, in maggioranza ragazzini, sono scesi in strada tirando pietre ai soldati israeliani e questi, per tutta risposta, hanno sparato ad altezza d’uomo, uccidendo il 20enne Jihad Abdul Rahman e ferendone altri 16 civili, tra cui 7 bambini e un giornalista.
Sempre domenica, nella città di Jenin, una unità israeliana sotto copertura ha ucciso Jihad Kamil, un militante delle Brigate al-Aqsa ed il 21enne Ali Jabbarin; quest’ultimo è stato brutalmente assassinato a sangue freddo per la semplice circostanza di trovarsi di guardia al vicino Quartier Generale dell’intelligence palestinese.
Lunedì sera, 15 maggio, l’aviazione israeliana ha lanciato un missile contro un pick-up che si sospettava trasportasse alcuni razzi Qassam pronti ad essere lanciati, nei pressi del campo profughi di Khan Yunis, ferendo tre militanti della Jihad islamica, di cui uno in maniera grave, ma anche una donna che si trovava nei pressi.
Mercoledì pomeriggio, 17 maggio, l’esercito israeliano ha circondato una casa a Nablus, nel West Bank, uccidendo i due militanti della Jihad islamica che la occupavano e ferendone un terzo.
Nel corso dell’operazione ha trovato la morte anche un povero anziano palestinese, il 74enne Mosharraf al-Mbaslat, colto da un infarto a seguito dei colpi sparati dai soldati israeliani contro la sua casa; raccontano i vicini che, in realtà, l’anziano ha più volte chiamato aiuto durante l’attacco, ma i valorosi soldatini di Tsahal hanno impedito al personale medico di entrare nella sua casa per aiutarlo.
In soli quattro giorni, dunque, l’esercito israeliano ha causato la morte di ben 10 Palestinesi, a cui vanno aggiunti, nel solo periodo compreso tra l’11 ed il 17 maggio, altri 41 feriti (di cui 13 bambini).
Il nuovo Ministro dell’Assassinio, pardon, della Difesa israeliano Amir Peretz, secondo un comunicato ufficiale, “ha personalmente approvato” il raid di Tsahal del 14 maggio e “ha seguito da vicino la sua esecuzione”; più tardi, egli ha voluto pubblicamente elogiare l’Idf, la polizia e lo Shin Bet per la riuscita conclusione dell’operazione, affermando che si tratta di un’azione in linea con la politica israeliana, in base alla quale si continuerà a combattere il terrorismo e contemporaneamente a facilitare le condizioni di vita dei Palestinesi (cfr. “Peretz lauds killing of Islamic Jihad” su Ha’aretz, 15.5.2006): la prima parte di questa affermazione è ben chiara, la seconda un po’ meno…
Questa è la risposta a chi si aspettava un “addolcimento” di Tsahal a seguito del cambio della guardia tra Shaul Mofaz e il laburista Peretz: al peggio non c’è mai fine!
Secondo le statistiche fornite dalla Mezzaluna rossa, l’esercito israeliano ha ucciso, dall’inizio dell’anno ad oggi, ben 118 Palestinesi (di cui 17 bambini) e ne ha feriti oltre 460; considerato che nei primi cinque mesi del 2005 i Palestinesi uccisi erano stati “solamente” 90, ciò mostra di tutta evidenza la portata dell’escalation di violenza, terrore e morte scatenata da Tsahal nei Territori occupati, nonostante il “decisivo” passo verso la pace rappresentato dal ritiro dalla Striscia di Gaza.
Si tratta di un vero e proprio massacro, di cui tuttavia, misteriosamente, nessuno parla né, tanto meno, cerca di trovare rimedi.
Resta l’incredulità e la rabbia per il solito doppio standard utilizzato sulla questione palestinese dalla comunità internazionale, che da una parte taglia gli aiuti finanziari ad Hamas se non rinuncia “ufficialmente” alla violenza (causando una gravissima crisi umanitaria) e dall’altra non adotta alcuna sanzione, sia pur minima, a carico di un Paese come Israele che quella violenza feroce e bestiale la pratica sul campo, quotidianamente.
Resta lo sconcerto per le posizioni assunte dalla sinistra italiana, transitata a quanto pare armi e bagagli, salva qualche lodevole eccezione, su posizioni degne del sionismo militante; persino il neo Presidente della Repubblica Napolitano, nel primo discorso alla nazione, ha parlato di mettere al bando l’arma del terrorismo suicida e di contrastare con fermezza ogni rigurgito di antisemitismo, ma non ha fatto alcun cenno all’assassinio dei civili Palestinesi ed ai crimini di guerra commessi da Israele.
Resta l’amarezza per questi poveri morti “dimenticati”, di cui non fa comodo parlare e di cui non importa a nessuno, ritenendosi più urgente e rilevante, piuttosto, la notizia di qualche decina di tombe danneggiate (e non si sa nemmeno da chi) nel cimitero ebraico di Milano.
Ma a noi importano questi morti, e non smetteremo mai di denunciare la politica dell’assassinio praticata da Israele, la sua brutalità, la sua spietatezza, la sua disumanità.
Senza lasciarci intimidire dallo spauracchio dell’antisemitismo, brandito come un’arma da quanti vorrebbero che il massacro della popolazione palestinese e la pulizia etnica in atto a Gerusalemme ed in varie parti del West Bank continuino indisturbati.
Non può essere certo addebitato a colpa nostra se i macellai e i massacratori del popolo palestinese sono ebrei che vestono (ma non sempre…) la divisa di Tsahal, e se il vessillo di morte che sbandierano con orgoglio reca al suo interno la stella di Davide.

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3 maggio 2006

Una classica operazione di arresto.

Pochi lo sanno, e ancora di meno sono quelli che lo dicono, ma il mese di aprile che si è appena concluso è stato un mese da sballo per quella banda di vili assassini in cui si è trasformato il valoroso esercito israeliano, il mese più cruento dall’inizio del 2006, in cui sono stati uccisi 33 Palestinesi (di cui 8 minori di 18 anni) e ne sono stati feriti 142.
Ed il mese di maggio non si apre certo con delle prospettive più rosee.
Lunedì 1° maggio, infatti, di buon mattino, nel corso di un’operazione di arresto nella città di Tul Karm, nel West Bank, l’esercito israeliano ha ucciso ‘Itaf Zalat, una povera donna palestinese di 44 anni.
E’ successo che, entrati in città, soldati israeliani dell’unità di élite Duvdevan hanno circondato la casa in cui si sospettava si nascondesse un importante esponente della Jihad islamica, Iyad Abdullah, ed hanno intimato agli occupanti di uscire fuori.
Senonché questi “specialisti” (in assassinii), senza dar tempo ai Palestinesi di ottemperare ai loro ordini e, soprattutto, senza che dall’interno fosse stato sparato alcun colpo, hanno notato all’interno della casa dei movimenti “sospetti” ed hanno aperto il fuoco senza esitazione.
Il risultato è che una povera donna assolutamente incolpevole è stata uccisa da un colpo di fucile alla testa, e che due delle sue figlie sono rimaste lievemente ferite; ‘Itaf Zalat ed il militante palestinese, peraltro, non erano nemmeno parenti, ma quest’ultimo viveva in affitto in un appartamento dell’edificio.
L’ennesimo raid illegale dell’esercito israeliano nei Territori occupati, l’ennesimo crimine di guerra addebitabile ad Israele ed alla sua politica brutale e spietata, non il primo e quasi certamente, purtroppo, nemmeno l’ultimo.
In proposito basterà riportare il commento dell’ong israeliana B’tselem sull’accaduto:
“Le circostanze in cui ‘Itaf Zalat … è stata uccisa … fanno sorgere il grave sospetto che le forze di sicurezza israeliane abbiano agito come se stessero conducendo un assassinio piuttosto che un’operazione di arresto. Tale comportamento costituisce una palese violazione dei principi del diritto umanitario internazionale”.
B’tselem, peraltro, non è nuova a denunce di tal genere.
In un report del maggio 2005 dal titolo molto significativo, a cui rimando per la sua completezza (Take No Prisoners Eng.pdf), l'ong israeliana aveva già testimoniato numerosi casi in cui operazioni di arresto si erano concluse con l’uccisione di civili innocenti o con l’assassinio dei ricercati, pur se disarmati o se non avevano opposto alcuna resistenza; in taluni altri casi, inoltre, era stata addirittura provata l’esecuzione sommaria dei militanti, in grave e palese violazione delle norme del diritto umanitario.
Aggiornando le statistiche, possiamo notare che – nel periodo compreso tra il gennaio del 2004 ed il 1° maggio di quest’anno – ben 157 Palestinesi sono stati uccisi durante questi raid assassini eufemisticamente definiti come “operazioni di arresto”; tra questi, secondo quanto ammesso dallo stesso esercito israeliano, ben 35 erano civili che solo per caso si erano trovati sul luogo delle operazioni, mentre 54 erano quelli che, definiti come “ricercati” dall’Idf, sono stati uccisi a sangue freddo, pur essendo disarmati e/o non avendo opposto alcuna resistenza.
Possiamo tranquillamente affermare, dunque, che la “classica” operazione di arresto israeliana prevede, nella maggioranza dei casi almeno, l’uccisione del ricercato, e pazienza se talvolta ci vanno di mezzo anche civili completamente estranei ed incolpevoli: detta in parole povere, se non ci scappa il morto i soldati israeliani non tornano in caserma contenti!
Ed ancora più penosi sono i casi in cui a cadere vittima della furia di Tsahal sono povere donne come ‘Itaf , oppure dei poveri bambini ignari ed indifesi.
Il 18 marzo, durante un’altra operazione di arresto nel villaggio di Al-Yaamoun, vicino a Jenin, alcuni poliziotti di frontiera israeliani hanno ucciso una bambina palestinese di soli 10 anni, Akbar Zaid, che stava andando in ospedale, accompagnata da alcuni familiari, per togliere dei punti di sutura (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/ennesimo-tributo-di-sangue-innocente.html).
In totale, secondo i calcoli di B’tselem, dall’inizio della seconda Intifada al 15 febbraio del 2006, su 3.318 Palestinesi uccisi nei Territori occupati, almeno 1.806 erano disarmati e/o non stavano partecipando in alcun modo a scontri a fuoco o ad azioni violente, il che val quanto dire che più di un Palestinese su due è stato brutalmente assassinato a sangue freddo e senza alcuna giustificazione.
Ciò è in primo luogo addebitabile alle norme che regolano, o dovrebbero farlo, l’uso delle armi da fuoco da parte dell’esercito israeliano, che sono ben al di sotto dagli standard richiesti a livello internazionale.
Così, oggi, i soldati israeliani sono autorizzati a sparare anche in situazioni in cui non vi è immediato pericolo per la loro vita (ad es. nel caso di lancio di pietre), a sparare senza preavviso, ad aprire il fuoco contro chiunque entri in una determinata area (in primo luogo, la striscia di confine tra Gaza e Israele), ad assassinare i Palestinesi sospettati di aver commesso attacchi contro civili israeliani.
Ma, in secondo luogo, l’uccisione di civili innocenti da parte dei soldati israeliani è favorita, se non palesemente incoraggiata, dalla mancanza di serie investigazioni su tali “incidenti” da parte delle autorità israeliane, che crea un clima di sostanziale impunità e fa passare il chiaro messaggio secondo cui i membri delle forze di sicurezza non verranno mai chiamati a rispondere del loro operato.
Su quest’ultimo punto Human Rights Watch ha pubblicato nel giugno del 2005 un circostanziato report (“Promoting Impunity: The Israeli Military’s Failure to Investigate Wrongdoing”, disponibile su http://hrw.org/reports/2005/iopt0605), da cui si può rilevare che, a fronte degli oltre 1.722 civili palestinesi innocenti uccisi da Tsahal a quella data (e delle altre diverse migliaia feriti più o meno gravemente), si sono avute soltanto 198 investigazioni, e che da queste sono scaturite 19 incriminazioni e “ben” 6 (sei!) condanne: di queste la più grave è stata una condanna alla detenzione per 20 mesi, ma in tutti gli altri casi – come ha notato Hrw – le pene sono state meno severe di quelle, per fare un esempio, comminate agli obiettori di coscienza.
Ora, dopo l’assassinio della povera ‘Itaf Zalat, l’esercito israeliano ha espresso il proprio “rammarico” (rammarico eh, nemmeno le scuse!), ed ha promesso che lancerà un’indagine sull’accaduto: visti i numeri di cui sopra, più che una promessa pare proprio una barzelletta!
‘Itaf Zalat è il morto numero 100 dall’inizio del 2006, mentre il numero dei feriti ammonta a ben 419; dall’inizio della seconda Intifada i morti Palestinesi salgono così a 3.871 ed i feriti a 29.786 (fonte: sito web della Mezzaluna rossa).
Cifre impressionanti e che dovrebbero far riflettere, ma qui in Italia sappiamo indignarci soltanto quando si brucia una bandiera; e sia pure anche se quella bandiera, per molti, è solo un simbolo di oppressione e di morte.

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