31 luglio 2013

L'intollerabile arroganza dell'ambasciatore israeliano


Quello che segue è l'articolo di Repubblica del 30 luglio dal titolo "L'ira di Gerusalemme contro i grillini 'nella loro missione ci hanno snobbati', in cui Tommaso Ciriaco da conto della protesta dell'Ambasciatore di Israele Naor Gilon per un viaggio conoscitivo di alcuni deputati del M5S in Palestina, protesta che si sostanzia in due principali accuse:
a) non aver incontrato parlamentari o altri esponenti israeliani;
b) essersi fatti guidare da Luisa Morgantini.

Ora, che un diplomatico invii una nota (anche) al Presidente della Camera per censurare il comportamento di alcuni deputati - che fino a prova contraria sono liberi di scegliere chi incontrare, i luoghi da visitare, le persone con cui parlare - è francamente irrituale (e irritante).

Quello che è del tutto intollerabile è che l'ambasciatore israeliano si permetta di insolentire volgarmente e di diffamare una cittadina italiana, una stimata pacifista ed ex Vice Presidente del Parlamento europeo come Luisa Morgantini. 

Si spera (ma non molto) che il nostro Ministro degli esteri abbia voglia di replicare a questa intollerabile protervia ed arroganza.

E spiace che, dall'articolo di Repubblica, traspaia una certa soddisfazione per lo "schiaffo" assestato ai deputati del M5S piuttosto che la dovuta indignazione per un comportamento inaccettabile come quello di Gilon.

Cara Repubblica, se un caso diplomatico esiste, riguarda il comportamento poco rispettoso e denigratorio, come tale inaccettabile, di un ambasciatore a cui dovrebbero bacchettare le manine...


ROMA— Poco diplomatico e ben assestato, lo schiaffo ai grillini è annunciato su carta intestata dell’ambasciatore israeliano Naor Gilon. Ed è diretto ai sei deputati del Movimento cinque stelle volati solo pochi giorni fa in Israele e nei territori dell’Anp. «Quando si vuole affrontare una situazione complessa è sempre opportuno ascoltare le posizioni di entrambe le parti. Purtroppo — è il rimprovero rivolto agli uomini di Grillo dall’ambasciatore — così non è stato in questo caso». L’accusa, pesante, è di aver dato retta solo alle ragioni dei palestinesi. Di non aver neanche tentato di incontrare i parlamentari israeliani. E di avere per di più viaggiato al fianco di un’attivista che nega «lo stesso diritto all’esistenza dello Stato d’Israele».

La missiva che certifica il caso diplomatico è diretta al capogruppo del M5S Riccardo Nuti. E, per conoscenza, anche alla Presidenza della Camera. Nel testo, l’ambasciatore Gilon ricorda di aver appreso dai media della missione dei sei grillini. Li elenca uno ad uno: Carlo Sibilia, Alessandro Di Battista, Manlio Di Stefano, Stefano Vignaroli, Paola Carinelli e Maria Edera Spadoni. Poi parte l’affondo: se si è trattato di «un viaggio di lavoro, al fine di conoscere la realtà sul campo, non mi resta che esprimere rammarico per l’occasione sprecata».

Ma il passaggio più duro arriva qualche riga dopo: «Il viaggio è stato organizzato dalla signora Luisa Morgantini, attivista ben nota per le sue posizioni estremiste », che negano allo Stato d’Israele il diritto ad esistere. «È superfluo dire — aggiunge con ironico rammarico l’ambasciatore — che il viaggio da lei organizzato non prevedeva alcun incontro con alcun esponente ufficiale o non ufficiale» israeliano. Neanche l’ombra di un summit con i parlamentari israeliani della Knesset, rimprovera Gilon.

Un focus è dedicato al deputato Paolo Bernini. Il cinquestelle — che però della delegazione non ha fatto parte — è messo sul banco degli imputati a causa di alcune dichiarazioni pubblicate sabato scorso, nelle quali si indica il sionismo come «una piaga».

«Una simile affermazione, che nasce probabilmente dalla mancanza delle minime nozioni di storia — si infuria l’esponente della diplomazia israeliana — supera la linea rossa che costituisce il
discrimen tra una critica costruttiva e una vera e propria istigazione e negazione della legittimità di esistenza dello Stato d’Israele ».

Difficile che la frattura possa ricomporsi. Gilon, comunque, ricorda l’incontro avuto con i grillini di palazzo Madama, poi invita i deputati a un «viaggio conoscitivo in Israele». Ma l’ultimo monito suona definitivo. E senza appello: «In questo momento storico è importante incoraggiare proprio le forze che sostengono la pace e il dialogo, evitando invece di fiancheggiare esponenti estremisti, aventi come obiettivo quello di infiammare l’odio e la violenza».

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I bambini nella prigione di Gaza




Gaza, bambini nella grande prigione a cielo aperto

Una ricerca dell'Unicef documenta gli incubi e i traumi profondi di una generazione che rischia di non avere un futuro.

di Luisa Betti

Mentre riprendono i negoziati israelo-palestinesi, la Striscia di Gaza continua a essere una prigione a cielo aperto: chiusa tra il mare, l'embargo di Israele e da giugno anche dall'Egitto. Una striscia di terra lunga 41 km e larga tra i 6 e i 12 km, dove vivono allo stremo un milione e 700 mila abitanti, di cui un terzo sotto la soglia di povertà. Un inferno dove circa la metà degli abitanti è minorenne e in cui rimane difficile pensare a un vero processo di pace senza domandarsi come le generazioni del futuro possano sostenere e costruire questa pace. Un pensiero che volge al peggio dopo il rapporto dell'Onu che ha accusato Israele di violenze sistematiche nei confronti dei minori detenuti, esprimendo «profonda preoccupazione circa i maltrattamenti e le torture ai bambini palestinesi arrestati».

Ma come crescono i bambini in un lembo di terra dove regna il terrore che tutto possa svanire insieme alla propria vita? Perché se è vero che un bambino può subire ferite profonde a seguito di esperienze violente, è anche vero che gli effetti invisibili di uno stato di pericolo costante durante la crescita possono essere indelebili. Lo stress emotivo della permanenza prolungata in un territorio che somiglia a una grande prigione, dove in ogni momento puoi essere colpito senza possibilità di fuga, può far sviluppare ai bambini problemi comportamentali che rendono difficoltoso, o impossibile, il recupero a una vita normale dal punto di vista psicologico, oltre che materiale. E quando i conflitti si protraggono nel tempo, come nel caso della Striscia di Gaza, i bambini possono sviluppare anche il desiderio di vendetta.

Dopo l'operazione «Piombo Fuso», che nel 2008-2009 ha provocato la morte di 1.380 palestinesi (tra cui 313 bambini), e a seguito dei bombardamenti nel novembre 2012 (con 174 morti, 1.399 feriti, 450 case distrutte e 105 scuole danneggiate nella Striscia), l'Unicef ha condotto uno studio per la valutazione dell'esposizione alla violenza nei conflitti in fase di crescita a Gaza, rendendo noto che il 97% dei minori presi in esame aveva visto corpi morti o feriti, e che il 47 % aveva assistito direttamente all'uccisione di persone. «Per i bambini un evento così mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia», dice Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori occupati.

Nei sintomi dell'esposizione al conflitto ci possono essere flashback, incubi, paura di uscire in pubblico e di stare soli. In particolare tra questi bambini sono stati osservati sintomi fisici come disturbi del sonno, digrigno dei denti, pianto ininterrotto, dolori corporei, alterazioni dell'appetito, anoressia, stordimento e stati confusionali; mentre tra i sintomi emotivi sono stati notati nervosismo eccessivo, rabbia, difficoltà di concentrazione, affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, a cui si aggiungono le dimensioni della paura come la paura della morte, della solitudine, di suoni forti. Conseguenze che ogni minore sottoposto allo stress da guerra può avere, anche se per Gaza il problema è differente.

Andrea Iacomini, portavoce Unicef Italia, dice che «a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire». Dopo le incursioni dell'anno scorso ci sono stati casi con bambini terrorizzati che non volevano dormire con le finestre chiuse, malgrado il freddo, per paura che un passaggio aereo mandasse in frantumi i vetri. Ma le conseguenze possono essere anche principi di sdoppiamento di personalità. «Il piccolo Udai - spiega Iacomini - ha detto agli operatori quello che ha visto prima di perdere la famiglia, in maniera priva di ogni emozione, raccontando che mentre era nella sua casa ha sentito un boato e ha visto dalla finestra una luce rossa e subito dopo la casa di fronte era sparita, riferendo di aver capito di aver perso i suoi vicini di casa; e poi ha detto di aver visto un nuovo lampo rosso ma senza boato, ritrovandosi tra le macerie di casa sua, ed è lì che ha compreso che la sua famiglia era stata colpita ma che lui era vivo. Un racconto che Udai ha fatto, mostrando una grave dissociazione da ciò stava descrivendo come se non fosse stato lui a viverla».

Dai disegni di questi bambini si può capire molto, perché anche se si tratta di disegni a tema libero fanno solo carri armati, aerei, bombe, sangue, pistole, mitragliatrici, morti: immagini di cui questi minori non riescono a liberarsi e che sanno di poter rivivere.

Nell'operazione «Piombo Fuso», la famiglia Olaiwa era in cucina e un proiettile d'artiglieria è entrato dalla finestra ferendo una delle figlie (Ghadir, 15 anni), decapitando la madre Amal (40), ammazzando sul colpo 4 dei suoi figli (Mo'tassem di 14 anni, Mo'men di 13, Lana di 9 e Isma'il di 7): un attacco a cui sono sopravvissuti il padre e il ragazzo di 16 anni che oltre ad aver riportato gravi ferite ha assistito alla mattanza dei suoi familiari. Mohammed Abu Eita (12 anni) ha visto colpire casa sua e ha visto morire sotto i suoi occhi il fratello Ahmed (16), la sorella Malak (2), il cuginetto Anwar (7), e ha visto il corpo della zia Zakia esplodere e le sue interiora sparse ovunque. Tahreer (18 anni), Ikram (15), Samar (13), Dina (8), Jawaher (4) sono le 5 sorelle che componevano la famiglia Balousha, e sono morte in seguito a una bomba lanciata a tre metri da casa loro: solo i fratelli di 17 e 11 anni sono sopravvissuti, ma hanno ancora negli occhi la loro famiglia sterminata. Eppure, in base all'articolo 38 della Convenzione sui diritti dell'infanzia ratificata da 193 nazioni, tra cui Israele, i Paesi firmatari devono prendere misure tali da assicurare protezione ai minori. L'avvocata Micòl Savia - rappresentante permanente dell'Associazione internazionale Giuristi democratici alle Nazioni Unite di Ginevra - spiega che «il diritto internazionale umanitario regola i conflitti in modo da limitarne gli effetti devastanti anche sui minori. I testi fondamentali sono le quattro Convenzioni di Ginevra adottate il 12 agosto del '49, e i successivi Protocolli Addizionali.

Durante i conflitti i bambini godono di tutte le protezioni generali previste dal diritto internazionale umanitario, e in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra, a cui si aggiunge anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell'Infanzia e il suo Protocollo Opzionale in vigore dal 12 febbraio 2002. Le violazioni di queste Convenzioni rappresentano un crimine di guerra in base all'articolo 8 dello Statuto di Roma sulla Corte Penale Internazionale, e possono essere perseguite da tutti i tribunali del mondo».

Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza. Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto «il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi». I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d'animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. E da questi bambini così feriti e vulnerabili che dipende l'instaurazione futura di una pace vera e duratura. Nena News

*Articolo pubblicato il 30 luglio 2013 dal quotidiano Il Manifesto


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