29 novembre 2011

I costi dell'occupazione israeliana

Uno dei “must” della propaganda filoisraeliana – oltre alla lista perennemente riproposta e aggiornata dei Premi Nobel vinti negli anni da Ebrei di tutto il mondo – è l’argomento più o meno formulato come segue: “vedete, gli Israeliani hanno fatto fiorire il deserto e creato una economia florida e in costante espansione, i Palestinesi invece sono solo dei buoni a nulla e dei piagnoni, e campano solo grazie agli aiuti internazionali”.

Tale tipo di argomentazione, tuttavia, omette di ricordare alcuni fattori che giocano a favore dell’economia dello stato israeliano, quali ad esempio i generosi aiuti finanziari dell’alleato Usa (circa 3 miliardi di dollari l’anno), ovvero la stretta partnership economica e culturale e le generose agevolazioni fiscali concesse ad Israele dall’Unione europea.

E, soprattutto, questa argomentazione evita accuratamente di ricordare come i successi dell’economia israeliana si basino in buona parte sul dominio coloniale imposto sui Territori palestinesi occupati, nella duplice forma dello sfruttamento delle risorse naturali delle popolazioni native e dei molteplici ostacoli frapposti all’attività e al normale funzionamento delle aziende palestinesi, che potrebbero costituire una temibile concorrenza per le imprese israeliane.

Sarebbe davvero interessante poter osservare come se la caverebbe l’economia israeliana alle prese con il blocco di un’intera e vasta porzione di territorio, con gli ostacoli alla circolazione di beni e persone, con la diseguale distribuzione delle risorse idriche, con il divieto all’importazione e all’esportazione di una serie infinita di materie prime e manufatti.

L’occupazione israeliana, peraltro, ha un costo indiretto anche per i contribuenti italiani ed europei, chiamati a contribuire con la fiscalità generale alle donazioni e agli aiuti finanziari, solo grazie ai quali l’intero apparato burocratico ed amministrativo dell’Anp riesce a funzionare.

Aiuti finanziari che, in realtà, costituiscono anch’essi un sostegno ad Israele e al regime di occupazione, in primo luogo perché mantengono in piedi, tra le altre cose, l’apparato repressivo dell’Autorità palestinese oramai divenuto, nelle zone a controllo palestinese, un vero e proprio braccio armato dell’occupante, in secondo luogo perché – in caso di eventuale dissolvimento delle strutture dell’Anp – dovrebbe essere Israele, quale potenza occupante, a farsi carico delle spese per il benessere ed il mantenimento della popolazione occupata.

Nell’articolo che segue, i costi dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi vengono quantificati in quasi 7 miliardi di dollari l’anno (circa l’85% dell’intero Pil palestinese!). Se i Paesi europei finalmente si impegnassero a premere su Israele per porre fine a questa immorale e illegale occupazione militare in stile apartheid della Cisgiordania e di Gaza, non solo i Palestinesi potrebbero godere di un’economia sufficiente a garantire un dignitoso tenore di vita alla popolazione, ma i contribuenti europei potrebbero pure evitare che parte dei loro soldi vada a finire – in maniera certamente indesiderata – nelle immeritevoli tasche del laborioso popolo di Israele.

L’occupazione israeliana esige un alto prezzo dall’economia palestinese, secondo un rapporto del Ministero dell’Economia nazionale palestinese e dell’Applied Research Institute di Gerusalemme – che valuta i danni in 6,9 miliardi di dollari l’anno – definita questa una stima prudente. Il dato corrisponde a circa l’85% del Pil palestinese per il 2010, pari a 8,124 miliardi di dollari.

Il calcolo include l’interruzione delle attività economiche nella Striscia di Gaza a causa del blocco israeliano, i mancati proventi derivanti dalle risorse naturali che Israele sfrutta in ragione del suo diretto controllo sulla maggior parte del territorio e i costi aggiuntivi che gravano sulle uscite palestinesi a causa delle restrizioni imposte da Israele alla circolazione, all’utilizzo della terra e alla produzione.

L’introduzione al rapporto afferma che il blocco dello sviluppo economico palestinese deriva dalla tendenza colonialista dell’occupazione israeliana dal 1967 in poi: lo sfruttamento delle risorse naturali accoppiato con la volontà di impedire all’economia palestinese di competere con quella israeliana.

Il rapporto è stato pubblicato alla fine di settembre, pochi giorni dopo che il Presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva avanzato richiesta di adesione a pieno titolo alle Nazioni Unite.

La sua pubblicazione durante il periodo delle High Holidays ha comportato che esso difficilmente è stato menzionato dai media israeliani.

Quantificando le perdite causate dall’occupazione israeliana, gli autori del rapporto hanno voluto dissipare l’erronea impressione che si è sviluppata negli ultimi due o tre anni che l’economia palestinese stia prosperando spontaneamente, mentre in realtà è sostenuta dalle donazioni che compensano i costi dell’occupazione.

La maggior parte delle perdite per l’economia palestinese è dovuta alla politica del blocco di Gaza, che impedisce ogni produzione ed esportazione. Il calcolo è stato fatto sulla base della comparazione con il tasso di crescita del Pil in Cisgiordania, che negli anni precedenti al blocco era simile al tasso di crescita a Gaza. Così, gli autori del rapporto stimano che nel 2010 il divario tra il Pil potenziale di Gaza (circa 3 miliardi di dollari) ed il Pil reale sia stato di oltre 1,9 miliardi di dollari. L’economia palestinese, e specialmente il settore agricolo, perde una somma equivalente a causa della discriminatoria ripartizione dell’acqua tra Palestinesi ed Israeliani operata da Israele. Basandosi su un rapporto del 2009 della Banca Mondiale, gli autori dello studio trovano non solo che gli accordi di Oslo hanno congelato una situazione di diseguale distribuzione dell’acqua pompata dalla Cisgiordania (un rapporto di 80 a 20), ma anche che Israele sta pompando più acqua dalla falda acquifera occidentale di quanto fosse consentito dall’accordo.

Allo stesso tempo Israele vende acqua ai Palestinesi per compensare la parte di cui essi abbisognano. Il controllo israeliano sulle risorse idriche e sull’accesso alla terra nell’Area C impedisce ai Palestinesi di sviluppare l’agricoltura irrigua, che oggi rappresenta solo il 9% della superficie coltivata.

Gli autori stimano che se non fosse per le restrizioni israeliane sarebbe certamente possibile sviluppare considerevolmente il settore agricolo, fino a quasi un quarto del Pil del 2010.

La politica israeliana di limitare l’accesso all’acqua provoca anche vari problemi sanitari. Gli autori dello studio hanno sommato i costi derivanti dal trattamento di questi problemi sanitari – 20 milioni di dollari – e li hanno aggiunti alle perdite totali.

L’economia palestinese perde anche i potenziali profitti che deriverebbero da altre risorse naturali, che oggi Israele sfrutta o impedisce ai Palestinesi di valorizzare: minerali dal Mar Morto, pietre e ghiaia nelle cave, gas naturale al largo delle coste di Gaza. Questi profitti negati sono stimati in circa 1,83 miliardi di dollari.

I siti naturali ed archeologici, quali risorse per il turismo, sono bloccati dal controllo israeliano sull’Area C e dalle restrizioni alla circolazione che esso impone all’interno dell’intera Cisgiordania. Ad esempio, solamente le perdite causate dal controllo israeliano del Mar Morto ammontano annualmente a 144 milioni di dollari.

Il rapporto quantifica anche i danni causati dallo sradicamento di 2,5 milioni di alberi di ulivo e di altri alberi da frutto dall’inizio dell’occupazione nel 1967 – una perdita annua di 138 milioni di dollari.

Il settore industriale soffre di restrizioni non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Ciò, in parte, è dovuto alle severe restrizioni all’importazione che Israele impone su una lista di 56 voci di materie prime e macchinari in quanto definiti a “duplice uso” – per la produzione industriale e per l’uso bellico.

L’elenco è stato redatto nel 2008 e include, tra le altre cose, fertilizzanti, varie materie prime, torni, levigatrici, tubi metallici, apparecchiature ottiche e strumenti per la navigazione. Il rapporto afferma che questi beni sono ancora fortemente limitati nonostante il miglioramento nella situazione della sicurezza e la cooperazione tra le forze di sicurezza palestinesi, l’esercito israeliano e il servizio di sicurezza Shin Bet.

Tali restrizioni danneggiano in maniera diretta una molteplicità di industrie quali quelle alimentari, delle bevande, metallurgiche, tessili, farmaceutiche, dell’abbigliamento e cosmetiche.

Il rapporto si basa sui risultati di uno studio presentato al Ministero dell’Economia nel 2010 riguardante le opportunità per il commercio palestinese. Esso afferma, ad esempio, che dopo che Israele nel 2007 ha vietato l’importazione della glicerina in Cisgiordania, un’azienda di cosmetici di Nablus non è più stata in grado di esportare in Israele. Secondo gli standard israeliani, i prodotti per la cura della pelle devono contenere glicerina.

A causa del controllo israeliano dei valichi e dell’Area C, il Tesoro palestinese non è in grado di riscuotere interamente le tasse e i dazi doganali su ogni prodotto venduto in Cisgiordania.

Il rapporto stima che i mancati introiti fiscali per le casse palestinesi ammontino annualmente a circa 400 milioni di dollari.

Il rapporto, inoltre, calcola una perdita fiscale indiretta; un Pil ridotto rispetto a quello potenziale significa meno entrate derivanti dalle imposte. “Secondo i nostri calcoli, senza l’occupazione l’economia sarebbe più grande dell’84,9%, quindi genererebbe 1,389 miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive. Aggiungendo questa cifra ai costi fiscali diretti si ottiene un totale dei costi fiscali derivanti dall’occupazione di 1,796 miliardi di dollari”.

Gli autori mettono in rilievo che si tratta di una stima delle perdite prudente. Essa non include vari calcoli congetturali come le perdite derivanti dal divieto di costruire nell’Area C, o le perdite economiche causate dalla barriera di separazione e dalle restrizioni ai commerci verso Gerusalemme est. “Considerato il deficit fiscale complessivo di Cisgiordania e Gaza pari a 1,358 miliardi di dollari nel 2010,” afferma il rapporto, “senza i costi fiscali diretti e indiretti imposti dall’occupazione, l’economia palestinese sarebbe in grado di mantenere un sano equilibrio di bilancio con un avanzo di 438 milioni di dollari. Essa non dovrebbe dipendere dagli aiuti dei donatori per mantenere l’equilibrio di bilancio e sarebbe in grado di ampliare in misura sostanziale la spesa finanziaria per stimolare il necessario sviluppo sociale ed economico”.

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23 novembre 2011

In Israele clima adatto per un nuovo assassinio politico

In Israele si sta creando una miscela esplosiva, formata dalla pressoché totale impunità per ogni violazione di legge che imbaldanzisce i coloni israeliani e dagli attacchi alle ong israeliane, anche da parte del governo e di membri della Knesset, che dipingono le organizzazioni per i diritti umani come una sorta di “quinta colonna” che agisce per indebolire e recar danno allo stato ebraico.

Si spiega così l’allarme lanciato dal ministro Yitzhak Aharonovitch, che denuncia la possibilità che in Israele possa avvenire un nuovo assassinio politico.

Ministro per la Pubblica Sicurezza: esiste la minaccia di un altro assassinio politico in Israele.

In Israele esiste la minaccia di un altro assassinio politico, ha riferito oggi alla Knesset il Ministro per la Pubblica Sicurezza Yitzhak Aharonovitch.

La dichiarazione di Aharonovitch è arrivata in risposta ad una interrogazione del deputato Isaac Herzog (Labor) a seguito delle ripetute aggressioni ai danni dell’attivista Hagit Ofran e dell’organizzazione Peace Now.

Di recente, minacce di morte sono state scritte con lo spray nel condominio dove abita la Ofran, un’attivista di Peace Now, e gli uffici di Peace Now a Gerusalemme sono stati vandalizzati nel corso di sospetti attacchi di “price tag”.

“Price tag” è la definizione data dagli estremisti alle attività contro i Palestinesi, gli attivisti per la pace o le forze di sicurezza in risposta a quelle che vengono considerate azioni rivolte contro le colonie o gli avamposti illegali in Cisgiordania.

“La polizia sta conducendo un’efficace indagine e ha arrestato un sospetto che si trova ancora in stato d’arresto”, ha detto ai deputati Aharonovitch. “Sul caso si sta ancora indagando. L’ufficio investigativo sta facendo tutto il possibile per prevenire tali atti e per indagare a fondo su ciò che è successo”.

“Per quanto riguarda la minaccia di un altro assassinio politico, si tratta davvero di un problema”, ha affermato Aharonovitch. “E’ il mio lavoro essere preoccupato. La minaccia esiste. Sia per noi che per il servizio di sicurezza Shin Bet, è nostro compito essere vigili e svolgere ogni attività. Stiamo parlando di una minaccia che copre l’intero spettro politico”.

Il più infame assassinio politico nella storia israeliana avvenne il 4 novembre del 1995, quando l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin venne assassinato da un estremista ebraico di destra dopo una manifestazione per la pace a Tel Aviv.

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22 novembre 2011

Assemblea nazionale di Freedom Flotilla Italia

Domenica 27 novembre · 10.00 - 16.00
Roma, Cantiere Sociale Via Gustavo Modena, 42 (zona Trastevere, angolo Piazza Belli)

La Freedom Flotilla Italia invita tutti a partecipare all'Assemblea nazionale, durante la quale verranno presentati i progetti futuri. Di seguito, il comunicato di Freedom Flotilla Italia.

ROMPIAMO L’ASSEDIO DELLA PALESTINA!

Posted on 7 novembre 2011

DOMENICA 27 NOVEMBRE, ALLE 10.00, ASSEMBLEA NAZIONALE A ROMA,PRESSO IL CANTIERE SOCIALE IN VIA GUSTAVO MODENA, 42 (zona Trastevere, angolo Piazza Belli)

La situazione nella Palestina occupata diventa ogni giorno più tragica, in un quadro in cui le minacce di guerra israeliana all’Iran si fanno sempre più insistenti.

Negli ultimi anni, numerose iniziative della società civile internazionale hanno impedito che le sofferenze del popolo palestinese, grazie anche alla colpevole complicità dei governi e delle maggiori istituzioni internazionali, passassero sotto silenzio ed hanno contrastato con forza le politiche criminali dello Stato di Israele e dei suoi complici. In particolare, si sono moltiplicate le iniziative contro l’assedio della Striscia di Gaza e gli impedimenti alla libertà di movimento negli altri territori palestinesi occupati, attraverso l’organizzazione di convogli navali, manifestazioni internazionali, convogli di terra e missioni di pace di ogni tipo. Parallelamente, è cresciuta nel mondo la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro le attività economiche, commerciali ed accademiche israeliane.

Il movimento di solidarietà in Italia contribuisce a tutte queste iniziative ed è presente in diversi network internazionali di solidarietà con la resistenza palestinese. Come Coordinamento della Freedom Flotilla Italia, ci stiamo impegnando affinché si realizzi la maggiore unità di azione fra le diverse iniziative internazionali e vogliamo proporre a tutti coloro che sono impegnati a fianco della resistenza palestinese e per la pace e la giustizia in tutto il Medio Oriente un percorso di lavoro su questi terreni.

Invitiamo tutte le realtà impegnate nella solidarietà con il popolo palestinese ad un momento di confronto, nel quale presenteremo le nostre proposte di lavoro, a partire dalla partecipazione alla prossima missione internazionale “Benvenuti in Palestina 2012”, che porterà centinaia di persone da tutto il mondo in Palestina, per affermare il diritto alla libertà di circolazione e prendere parte alla realizzazione di un progetto della società civile palestinese: la realizzazione di un complesso scolastico nei pressi di Betlemme.

Nel corso dell’assemblea, verrà presentato anche il progetto per la costruzione di un asilo nella Striscia di Gaza, in collaborazione con l’associazione palestinese “Ghassan Kanafani” ed intitolato a Vittorio Arrigoni.

Per comunicare le adesioni e/o prenotare interventi: roma@freedomflotilla.it

http://www.freedomflotilla.it/2011/11/07/rompiamo-l%E2%80%99assedio-della-palestina/

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17 novembre 2011

Denuncia dell’Onu: preoccupante l’aumento della violenza dei coloni israeliani

Su un totale di circa 500.000 coloni israeliani che vivono nei Territori palestinesi occupati, oltre 311.000 (dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano al 31.12.2010) vivono in Cisgiordania, all’interno di 124 colonie autorizzate e di oltre un centinaio di “avamposti” illegali, dove illegali sta per sorti in contrasto con la stessa legge israeliana.

In realtà, infatti, tutti gli insediamenti colonici sono contrari al diritto internazionale, alla luce di quanto previsto dall’art.49.6 della IV Convenzione di Ginevra, secondo cui “La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”. Va aggiunto, peraltro, che lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale qualifica tale trasferimento, diretto o indiretto, come un crimine di guerra.

Eppure la comunità internazionale non solo tollera tranquillamente tale crimine – che porta come conseguenza la deprivazione del popolo palestinese delle sue risorse naturali, la sottrazione delle terre, gli infiniti disagi e ostacoli alla circolazione e allo sviluppo economico derivanti dal sistema dei checkpoint – ma consente peraltro che questa vera e propria teppaglia compia vessazioni e atti di violenza quotidiani ai danni della popolazione indigena, al riparo della totale impunità garantita dalle autorità israeliane.

Solo per restare agli ultimi giorni, la scorsa settimana alcuni coloni israeliani a bordo di un auto hanno
investito e ucciso a Salfit un contadino palestinese 46enne, ‘Abdel Mutaleb Mohammed Hakim, altri a Betlemme hanno aggredito una famiglia palestinese costringendo un bambino di dieci anni al ricovero in ospedale, altri ancora hanno incendiato tre auto a Beit Ummar, il tutto in una sola giornata!

Alla fine di ottobre di quest’anno, lo United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UN-OCHA) ha fatto il punto della situazione con una scheda informativa che segnala il progressivo e preoccupante aumento della violenza dei coloni israeliani.

Almeno nessuno potrà dire di ignorare la questione.

La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania.
OCHA _ Novembre 2011

In breve

- La media settimanale degli attacchi da parte dei coloni aventi come conseguenza l’uccisione o il ferimento di Palestinesi e danni alle proprietà nel 2011 è aumentata del 40% rispetto al 2010 e di oltre il 165% rispetto al 2009.

- Nel 2011, tre Palestinesi sono stati uccisi e 167 sono stati feriti dai coloni israeliani. Inoltre, un Palestinese è stato ucciso, e altri 101 sono stati feriti, dai soldati israeliani nel corso di scontri tra coloni israeliani e Palestinesi.

- Otto coloni israeliani sono stati uccisi e altri 30 sono stati feriti dai Palestinesi nel corso del 2011, in confronto a cinque uccisi e 43 feriti durante lo stesso periodo del 2010.

- nel 2011, circa 10.000 alberi di proprietà di Palestinesi, essenzialmente alberi di ulivo, sono stati danneggiati o distrutti dai coloni israeliani, compromettendo in modo significativo i mezzi di sostentamento di centinaia di famiglie.

- Nel luglio del 2011, una comunità di 127 persone è stata fatta spostare in massa a causa dei ripetuti attacchi dei coloni, con alcune delle famiglie colpite trasferite nelle Aree A e B.

- Oltre il 90% delle denunce monitorate presentate dai Palestinesi alla polizia israeliana negli ultimi anni e riguardanti violenze da parte dei coloni si è chiuso senza alcuna incriminazione.

- L’OCHA ha individuato oltre 80 comunità con una popolazione complessiva di circa 250.000 Palestinesi esposti alla violenza dei coloni, compresi 76.000 che sono ad alto rischio.

1) La violenza da parte dei coloni israeliani compromette la sicurezza fisica e le fonti di sostentamento dei Palestinesi che vivono sotto la prolungata occupazione militare israeliana. Questa violenza include aggressioni fisiche, vessazioni, la presa del controllo e il danneggiamento di proprietà private, l’impedimento dell’accesso ai pascoli e ai terreni agricoli, e gli attacchi al bestiame e ai terreni agricoli, tra gli altri.

2) Negli ultimi anni, molti attacchi sono stati condotti da coloni che vivono negli “avamposti” colonici, piccoli insediamenti satellite costruiti senza autorizzazione ufficiale, molti su terreni di proprietà privata di Palestinesi. A partire dal 2008, i coloni hanno attaccato i Palestinesi e le loro proprietà come mezzo per scoraggiare le autorità israeliane dallo smantellare questi avamposti (la cd. strategia del “price tag”).

3) La causa principale del fenomeno della violenza dei coloni risiede nella decennale politica israeliana di facilitare illegalmente l’insediamento dei propri cittadini all’interno dei territori palestinesi occupati. Questa attività ha portato alla progressiva acquisizione della terra, delle risorse e delle vie di trasporto palestinesi ed ha creato due sistemi separati di diritti e prerogative, favorendo i cittadini israeliani a scapito degli oltre due milioni e mezzo di Palestinesi che risiedono in Cisgiordania. I recenti sforzi delle autorità per legalizzare retroattivamente l’acquisizione da parte dei coloni di terreni di proprietà privata di Palestinesi incoraggia fattivamente una cultura dell’impunità che contribuisce al perdurare della violenza.

4) Le autorità israeliane hanno ripetutamente mancato di far rispettare il principio di legalità in risposta agli atti di violenza contro i Palestinesi da parte dei coloni israeliani. Le forze israeliane spesso non fermano gli attacchi e le indagini successive sono inadeguate o mal condotte. Le misure previste dal sistema corrente, incluso il richiedere ai Palestinesi di presentare denuncia presso le stazioni di polizia situate all’interno degli insediamenti israeliani, lavorano fattivamente contro il principio di legalità, scoraggiando i Palestinesi dal presentare denuncia.

5) Il rischio del trasferimento dei gruppi familiari vulnerabili come conseguenza della violenza dei coloni è una questione che desta crescente preoccupazione. La violenza dei coloni crea pressione e costante disagio su alcune comunità palestinesi, in particolare se combinata con altre difficoltà, quali le restrizioni agli accessi e alla circolazione e la demolizione delle case. Diventare profughi ha gravi conseguenze fisiche, socio-economiche ed emotive sulle famiglie e sulle comunità palestinesi, immediate e a lungo termine.

6) Secondo il diritto umanitario internazionale e la legislazione internazionale sui diritti umani, Israele ha l’obbligo di impedire gli attacchi contro i civili o le loro proprietà e di assicurare che tutti gli episodi di violenza da parte dei coloni siano indagati in maniera approfondita, imparziale e indipendente.

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15 novembre 2011

Un nuovo Israele in via di formazione

Dove va Israele? Se lo chiede, con sguardo angosciato e pessimista, il giornalista di Ha’aretz Gideon Levy, e non a torto.

Il suo Israele in divenire, infatti, non è così immaginario e paradossale come sembrerebbe a prima vista, laddove si considerino le proposte di modifica dei
criteri di nomina alla Corte Suprema attualmente in esame, i sette anni di galera che rischia Uri Blau solo per aver praticato il suo mestiere – quello del giornalismo investigativo – le proposte di legge che mirano a penalizzare il finanziamento delle ong per la tutela dei diritti umani, il divieto di usare immagini femminili nella pubblicità o la separazione tra uomini e donne nei tram, la lotta in corso per trasformare Israele in una ”teocrazia militare”.

Davvero Israele tende ad allontanarsi sempre più dall’immagine spacciata da molti di uno stato democratico di tipo occidentale.

A new Israel in the making
di Gideon Levy – 13.11.2011

Un giorno non lontano da oggi ci sveglieremo in un diverso tipo di paese, il paese che ora è in via di formazione. Non sarà come il paese che conosciamo, che ha già la sua quota di difetti, storture e mali. E quando ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi. A quel punto, il vecchio Israele verrà descritto in termini entusiastici, un modello di democrazia e di giustizia, paragonato alla nuova versione che sta prendendo forma mentre noi chiudiamo gli occhi davanti ad essa, giorno dopo giorno, legge dopo legge.

Il modo di vita nel nuovo Israele in cui vivremo e moriremo non ci ricorderà affatto il paese a cui eravamo abituati. Anche questo articolo non sarà pubblicabile. Soltanto le opinioni corrette verranno mandate in stampa, quelle approvate dall’associazione dei giornalisti sponsorizzata dal nuovo governo, le cui persone siederanno in ogni redazione in modo che non vi sia divergenza dal coro delle opinioni accettato.

Leggi e regolamenti (chiaramente verranno approvati come norme “di emergenza”) proibiranno la pubblicazione di qualsiasi cosa possa, agli occhi delle autorità, danneggiare lo stato. Una nuova legge proibirà la diffamazione dello stato, ed il giornale che terrete in mano sarà diverso. Riporterà solamente buone notizie.

I programmi radiofonici e televisivi non saranno quelli con cui avete familiarità. Nessun mezzo di informazione sarà in grado di superare i limiti della legge a causa delle sanzioni draconiane per essere entrati in conflitto con essa. La parola "occupazione" sarà illegale, al pari dell'espressione "stato palestinese". I giornalisti traditori saranno messi alla gogna o arrestati, o almeno licenziati. Quel giorno non tarderà ad arrivare.

In un futuro non troppo lontano, il paesaggio urbano avrà un aspetto differente. Quello che oggi accade a Gerusalemme domani si inscenerà in tutto il paese, quando l’immagine delle donne verrà bandita dalla pubblica visione. Oggi Gerusalemme, domani l’intero paese. Bus separati e strade per uomini e per donne. Radio e televisioni manderanno in onda soltanto cantanti uomini. Ad un certo punto, alle donne verrà richiesto di coprirsi il capo. Poi sarà il turno degli uomini. Ad essi sarà vietato mostrarsi interamente rasati o senza un copricapo. Quel giorno non tarderà ad arrivare.

Le città saranno chiuse durante lo Shabbat. Né un negozio né un cinema saranno aperti. Poi arriverà il divieto di guidare durante lo Shabbat. I ristoranti non-kosher diventeranno illegali. Saranno obbligatorie le Mezuzahs (oggetto rituale ebraico da porre sullo stipite della porta, a destra di chi entra, n.d.t.) sullo stipite di ogni stanza in ogni casa. Alle coppie non registrate presso il rabbinato non sarà permesso di vivere insieme, e le coppie in cui solo uno dei due è Ebreo saranno immediatamente deportate. Alle coppie non sposate sarà vietato camminare a braccetto in pubblico.

Una volta al mese tutti gli scolari del paese faranno visite di solidarietà alle colonie in Cisgiordania. Ogni lezione avrà inizio con il canto dell’inno nazionale ed un saluto alla bandiera. Quelli che non presteranno servizio militare perderanno la cittadinanza e saranno deportati.

E lo stato ebraico avrà una Knesset ebraica. Agli Arabi prima sarà proibito di correre per il parlamento con propri partiti. Poi ad essi non sarà permesso del tutto di essere eletti. Fino ad allora, i parlamentari che all’inizio di ogni sessione della Knesset non canteranno le parole dell’inno nazionale sullo “struggimento dell’anima ebraica” saranno definitivamente rimossi.

Agli Arabi verrà negato il diritto all’istruzione universitaria, con l’eccezione di una quota simbolica approvata dal servizio di sicurezza Shin Bet. Sarà illegale affittare agli Arabi, altrimenti che nelle loro città e villaggi, e la lingua araba sarà bandita. Verranno messe al bando anche le poesie del poeta arabo Mahmoud Darwish e dei suoi compatrioti ebrei Aharon Shabtai e Yitzhak Laor. Amos Oz, A. B. Yehoshua e David Grossman dovranno decidere. Loro, e tutti i cittadini del paese, dovranno dichiararsi sionisti per essere pubblicati.

La Cisgiordania verrà annessa, ma non i Palestinesi che ci vivono. Le organizzazioni di sinistra verranno rese illegali e i loro leader arrestati. Il governo pubblicherà una lista nera di quelli con opinioni dannose a cui non sarà permesso di lasciare il paese o di parlare con i media stranieri. Solo chi ha ucciso Ebrei sarà considerato un vero assassino, e le raccolte delle leggi saranno divise in due parti, una per gli Ebrei e una per i non Ebrei. La pena di morte sarà applicata soltanto agli Arabi.

Una legislazione speciale darà ai coloni il diritto di prendere il controllo di qualunque territorio della Cisgiordania, e la censura militare vieterà qualsiasi notizia che possa “nuocere alla solidità delle Forze di Difesa israeliane”. La Corte Suprema servirà soltanto da corte di appello e non esaminerà petizioni dirette riguardanti violazioni dei diritti civili. I giudici della Corte Suprema saranno selezionati dalla Knesset e i seggi saranno riservati ai coloni della Cisgiordania, ai rabbini e ai membri dei partiti al potere. Solo giudici religiosi potranno ricoprire la carica di Presidente della Corte. I rabbini avranno l’immunità legale simile a quella di cui godono i parlamentari. Ogni dichiarazione di guerra o accordo di pace necessiterà dell’approvazione del Consiglio dei Saggi della Torah.

In realtà, non c’è bisogno di molta immaginazione per arrivare a tutto questo. Il futuro è adesso. La rivoluzione è in corso, basta aspettare ciò che verrà.

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11 novembre 2011

Deputato israeliano: per ogni Qassam che cade su Israele cancelliamo un quartiere di Gaza!


Gli Israeliani - lo hanno imparato sulla loro pelle i Palestinesi di Gaza - sono dei veri specialisti in rappresaglie e ritorsioni.

Si, perché naturalmente – secondo la propaganda ebraica – nella Striscia di Gaza ci sono i “terroristi”, in Israele c’è invece solo gente laboriosa e pacifica, costretta purtroppo, quasi suo malgrado, a “difendersi” e a organizzare saltuari raid di “risposta”. Persino Obama, in uno dei suoi tanti, retorici discorsi, ebbe a dire nel 2008 di comprendere gli Israeliani, perché “se qualcuno sparasse dei razzi contro la mia casa, dove dormono le mie due figlie, farei qualsiasi cosa in mio potere per fermarli, e mi aspetterei che gli Israeliani facessero altrettanto”.

Quando però si scende nel dettaglio e si vanno a vedere i numeri, si scopre – oh meraviglia – che la “pioggia” di razzi Qassam nel sud di Israele, a partire dalla fine dell’operazione “Piombo Fuso” (19.1.2009) e fino al 30 settembre di quest’anno, ha causato ben … 1 (UNA) vittima su un totale di 4 civili uccisi dai Palestinesi in territorio israeliano nel periodo considerato (fonte: B’Tselem).

Di contro, nello stesso periodo, i Palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 192 (CENTONOVANTADUE), di cui 24 minori di 18 anni: le “rappresaglie” israeliane, dunque, si rivelano nella realtà un vero e proprio massacro, ingiustificato e ingiustificabile.

Ma poiché nella vita non si è mai contenti, arriva adesso la proposta scioccante di un deputato israeliano del Likud, Danny Danon, il quale – sulla sua pagina Facebook – ha candidamente proposto di alzare l’asticella: “per ogni missile che cade sulle nostre città del sud, noi (dobbiamo) per rappresaglia cancellare un quartiere di Gaza”.

Cioè, davvero uno fa fatica a credere ai propri occhi, radere al suolo un quartiere del luogo con la più alta densità abitativa al mondo, peraltro neanche per ogni Israeliano ucciso, ma “per ogni razzo che cade” sulle città israeliane, roba che neanche il delirio nazista aveva saputo ipotizzare!

Una voce isolata quella del deputato del Likud? Non proprio, considerando che l’ultimo sondaggio svolto in materia dall’Israel Democracy Institute mostra che due terzi dell’opinione pubblica ebraica in Israele si mostra favorevole ad una “dura risposta” ai recenti attacchi “terroristici” provenienti dalla Striscia di Gaza.

Chissà che cosa ne penserebbe Obama, se le sue due figlie dormissero in un quartiere di Gaza…

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9 novembre 2011

Reporter Senza Frontiere condanna l’arresto di 5 giornalisti a bordo delle navi della Freedom Waves to Gaza

Reporter Senza Frontiere condanna con fermezza l’arresto di cinque giornalisti che erano a bordo delle due imbarcazioni di solidarietà dirette a Gaza che la marina israeliana ha intercettato il 4 novembre per impedire che rompessero il blocco navale israeliano della Striscia di Gaza. Due dei giornalisti sono ancora detenuti. Il blocco è in vigore sin da quando Hamas ha preso il potere a Gaza.

Noleggiate in Turchia e battenti bandiera irlandese e canadese, le due imbarcazioni trasportavano forniture mediche destinate a Gaza. La marina israeliana le ha abbordate quando erano a 45 miglia nautiche dalle coste della Striscia di Gaza, ha arrestato tutte e 27 le persone a bordo, compresi i cinque giornalisti, e le ha condotte al centro di detenzione di Givon.

I cinque giornalisti sono Lina Attalah dell’edizione inglese del quotidiano egiziano Al-Masry Al-Youm, Casey Kauffman di Al-Jazeera English, Ayman Al-Zubair di Al-Jazeera, Jihan Hafiz del newyorchese Democracy Now! e Hassan Ghani di Press Tv, la stazione televisiva di news in lingua inglese del governo iraniano.

Tre dei giornalisti, Attalah, Kauffman e Al-Zubair, sono stati espulsi da Israele il giorno successivo. Nessuna delle attrezzature della Attalah, che erano state sequestrate dalla marina israeliana, le è stata restituita. Hafiz, cittadina americana, e Ghani, inglese, sono ancora detenuti.

Le autorità israeliane hanno chiesto ai giornalisti di firmare un documento in ebraico in cui riconoscevano di essere entrati in Israele illegalmente e veniva proibito loro di ritornare per i prossimi dieci anni. Reporter Senza Frontiere ha appreso che i funzionari militari hanno fatto pressione sui giornalisti affinché firmassero il documento. La Hafiz, a quanto si riferisce, ha rifiutato di firmare, affermando di aver bisogno di una traduzione in arabo o in inglese, che non è stata fornita.

Reporter Senza Frontiere è particolarmente preoccupata per la sorte di Ghani dell’iraniana Press Tv. Secondo gli altri giornalisti, è stato subito separato dagli altri detenuti e non è disponibile nessuna informazione sul luogo in cui attualmente è detenuto né sul suo stato. Egli era già stato arrestato nel maggio del 2010 mentre seguiva un precedente tentativo di raggiungere Gaza da parte di una flottiglia di solidarietà.

Reporter Senza Frontiere chiede alle autorità israeliane di rilasciare immediatamente la Hafiz e Ghani e di restituire tutte le attrezzature confiscate ai cinque giornalisti, che stavano soltanto seguendo un’operazione umanitaria nella loro qualità di reporter.

Lo scorso agosto, le autorità israeliane riuscirono ad impedire ad una flottiglia di solidarietà, che avrebbe dovuto avere dei giornalisti a bordo, di imbarcarli. Il capo dell’ufficio stampa del governo israeliano il 26 giugno aveva dichiarato che tutti i giornalisti in viaggio sulle imbarcazioni dirette a Gaza sarebbero stati trattati come se avessero deliberatamente violato la legge israeliana e ad essi sarebbe stato vietato l’ingresso in Israele per dieci anni. Questo annuncio causò tali proteste che il primo ministro israeliano, il giorno successivo, dichiarò che sarebbe stato riesaminato.

L’uso della forza da parte dell’esercito israeliano per intercettare nel maggio del 2010 una grande “Freedom Flotilla” diretta a Gaza causò l’uccisione di 9 passeggeri e il ferimento di altri 36. Le autorità israeliane imposero un blackout temporaneo delle informazioni sulle vittime e sul loro trasferimento negli ospedali israeliani. Più di 60 giornalisti a bordo della flottiglia furono arrestati, portati in Israele e infine espulsi. Le loro attrezzature vennero confiscate e molti di essi ancora aspettano che gli vengano restituite.

Due giornalisti di Al-Jazeera a bordo della “Spirit of Humanity”, un’imbarcazione noleggiata dall’organizzazione per i diritti umani Free Gaza nel giugno del 2009 per portare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, furono arrestati quando l’imbarcazione venne intercettata dalla marina israeliana. Essi vennero espulsi da Israele pochi giorni dopo.

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8 novembre 2011

"Non lo posso sopportare". "Figurati io!"

Gustoso "fuorionda" durante una conversazione tra il Presidente francese Nicolas Sarkozy e quello Usa Barack Obama.

La scorsa settimana, a margine del summit del G20 a Cannes, i due sono rimasti a colloquio pensando di parlare riservatamente, ma per un errore tecnico i loro discorsi sono stati ascoltati da alcuni giornalisti, e riportati ieri dal sito web francese Arret sur images.

Parlando di un capo di governo, Sarkozy dapprima lo ha definito un "bugiardo" e poi ha affermato "non posso sopportarlo", al che Obama avrebbe replicato "tu non ne puoi più di lui, ma io devo averci a che fare ogni giorno"!

Al che uno si sarebbe aspettato che stessero parlando di Silvio Berlusconi, ma - sorpresa - i due Presidenti stavano invece discutendo del capo del governo israeliano Bibi Netanyahu.

Ma mentre la scarsa considerazione del Presidente del Consiglio italiano ha portato il nostro Paese ad una sorta di commissariamento di fatto in campo economico, la scarsa considerazione che di Netanyahu hanno Obama e Sarkozy, ma molto probabilmente anche vari altri capi di stato occidentali, non sembra avere alcuna conseguenza per Israele, che può tranquillamente espandere i propri sobborghi colonici a Gerusalemme o trattenere illegalmente le entrate fiscali dell'Anp nonostante l'avviso contrario della Germania e degli Usa.

Ma è mai possibile che nessuno riesca a ricondurre alla ragione e al rispetto della legalità i piromani israeliani, che con le loro azioni scriteriate - poste in essere o ancora solo minacciate (vedi guerra all'Iran) - rischiano di incendiare il medio oriente e di portare il mondo intero sull'orlo dell'abisso?

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2 novembre 2011

Di nuovo in rotta verso Gaza

A quattro mesi dal blocco delle navi della Freedom Flotilla 2 nei porti greci, altre due navi tentano di rompere il blocco criminale della Striscia di Gaza, nell’ambito della campagna non violenta Freedom Waves to Gaza.

Qui intendo rilanciare l’appello all’azione e al sostegno di questa iniziativa lanciato da Jewish Voice for Peace. E’ un appello rivolto, in prima battuta, ai cittadini Usa, ciò non toglie che anche per noi può essere un esercizio interessante inviare una email al Presidente Obama o telefonare all’ufficio di Hillary Clinton per chiedere, una buona volta, che si ponga fine alla punizione collettiva che, per i soliti motivi di “sicurezza”, umilia e punisce in modo immorale una popolazione di 1,6 milioni di persone.

Imbarcazioni in navigazione per rompere il blocco di Gaza, adesso

Questa notizia si sta diffondendo: in questo momento, due imbarcazioni si trovano in acque internazionali nel Mediterraneo dirette verso Gaza. Una barca, l’irlandese Saoirse, comprende tra i suoi passeggeri alcuni parlamentari. L'altra, il Tahrir, trasporta rappresentanti di Canada, Stati Uniti, Australia e Palestina.

Il rappresentante degli Stati Uniti sul Tahrir, Kit Kittredge, è stata un passeggero sull’imbarcazione Usa diretta a Gaza, la Audacity of Hope. Sul Tahrir è presente anche un giornalista di Democracy Now. Le organizzazioni della società civile a Gaza aspettano il loro arrivo, e attendono con impazienza la consegna delle lettere raccolte da migliaia di sostenitori negli Stati Uniti nella campagna To Gaza with Love.

Ci sono stati tre tentativi soltanto nell'ultimo anno e mezzo per rompere l'assedio di Gaza. Il mondo conosce l'esito terribile di quello del maggio 2010. All'inizio di questa estate, Jewish Voice for Peace ha atteso insieme a tutti gli altri che la barca Usa per Gaza iniziasse la navigazione, con molti dei nostri membri a bordo. E siamo rimasti costernati come tutti gli altri quando le imbarcazioni sono state fatte tornare indietro dalla Grecia su ordine di Israele e degli Stati Uniti. Ma sapevamo che il movimento avrebbe continuato, e oggi lo ha fatto!

Per favore, restate collegati in attesa del risultato di questa importante missione per i diritti umani.

Abbiamo bisogno del vostro aiuto per rendere questa missione un successo. Per favore mettete in atto immediatamente queste azioni.

Verificate gli aggiornamenti: http://www.ustogaza.org/, http://www.tahrir.ca/ e guardate o ascoltate Democracy Now per la copertura dal Tahrir.

Chiamate il Dipartimento di Stato:
Segretario di Stato Hillary Clinton 202-647-5291
Ambasciatore USA in Israele Daniel Shapiro 011-972-3-519-7575
Ufficio per gli Affari Israeliani / Palestinesi Paul Sutphin 202-647-3672
Ufficio per gli Affari consolari Kim Richter 202-647-8308

e il Presidente Obama: 202-456-1414 oppure inviategli una email da qui

Argomenti per telefonate / email:
Gaza è sotto assedio dalla metà del 2006, privando della libertà e dei diritti umani fondamentali 1,6 milioni di persone. Sebbene l'assedio sia stato condannato dalle Nazioni Unite, dalla Croce Rossa, e da molti governi nazionali, poco è stato fatto per alleviare le sofferenze di questi civili. La società civile ha dovuto agire laddove i governi non hanno voluto. Due navi con 27 passeggeri provenienti da 5 paesi sono in navigazione verso Gaza per affrontare il blocco navale israeliano, e per portare forniture mediche e lettere di sostegno.

Come Americani, che danno 3 miliardi di dollari in aiuti militari ad Israele ogni anno, chiediamo che il nostro governo richieda con fermezza ad Israele di consentire il passaggio sicuro delle navi e di porre fine al blocco illegale di Gaza. Vi sono molte alternative per Israele per garantire la sua sicurezza senza sottoporre 1,6 milioni di persone a una punizione collettiva.

Per favore diffondete il più possibile queste notizie.

Per la Libertà,

Rebecca Vilkomerson, Direttore esecutivo di Jewish Voice for Peace


P.S.

FREEDOM WAVES TO GAZA - COMUNICATO STAMPA

International Flotilla Naviga verso Gaza http://t.co/LAIBLqRn""

International Flotilla naviga verso Gaza http://t.co/cZNfR9zl""




“follow the boats live here”(sotto il titolo) password “a” > mappa interattiva con la posizione della nave.Qui un'altra mappa che indica la posizione delle navi:http://electronicintifada.net/blog/benjamin-doherty/track-location-freedomwaves-flotilla#.TrGMBkDWTrc

video con 3 interviste a chi partecipa alla barca canadese:
http://www.democracynow.org/blog/2011/11/2/exclusive_video_voices_from_the_secret_international_flotilla_now_sailing_to_gaza#.TrGDlVxaQyY.twitter
1 Nov 2011 COMUNICATO STAMPA – PER DIFFUSIONE IMMEDIATA

Palestinesi si uniscono alle barche per sfidare assieme l'assedio imposto da Israele su Gaza.

Barche irlandesi e canadesi si trovano ora in acque internazionali verso Gaza per sfidare l'assedio illegale imposto da Israele.

Attivisti palestinesi lanciano un appello per la fine della complicità internazionale ai crimini israeliani. Si svolgeranno azioni di solidarietà in tutta la Cisgiordania e in Israele

[Ramallah] Due barche civili, la canadese Tahrir (Liberazione) e l'irlandese Saoirse (Libertà), con a bordo 27 passeggeri provenienti da 9 paesi (inclusi giornalisti), stanno viaggiando in acque internazionali verso la Striscia di Gaza per sfidare l'assedio criminale e illegale imposto da Israele. Un palestinese di Haifa ha aderito a questa nuova missione internazionale che vuole sfidare via mare la morsa implacabile di Israele su Gaza. Il messaggio che portano è di unità, di sfida, di speranza, nonostante Israele separi fisicamente i palestinesi gli uni dagli altri.

Gli organizzatori del “Freedom Waves to Gaza” hanno scelto di non pubblicizzare l'impresa in anticipo viste le azioni israeliane per bloccare e sabotare la Freedom Flotilla II lo scorso luglio. Le barche, che sono salpate da Fethiye, Turchia, sono attese a Gaza venerdì pomeriggio; navigheranno in acque internazionali ed entreranno direttamente nelle acque territoriali di Gaza, senza attraversare le acque territoriali di Israele.

Le barche porteranno un carico simbolico - $ 30.000 in medicine, insieme ad un gruppo eterogeneo di passeggeri, tutti impegnati nella difesa non violenta della flottiglia e dei diritti umani del popolo palestinese.

"Israele ha ingabbiato i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, e ci proibisce di incontrarci fisicamente. Vogliamo rompere l'assedio che Israele ha imposto al nostro popolo", ha affermato Majd Kayyal, uno studente di filosofia palestinese di Haifa, a bordo della Tahrir. Kayyal ha aggiunto: "Il fatto che siamo in acque internazionali è già una vittoria per il movimento. L'assedio israeliano imposto su Gaza è insostenibile e porre fine a questa ingiustizia è una responsabilità morale".

Nel frattempo, i giovani palestinesi hanno firmato una dichiarazione che esorta la comunità internazionale e le Nazioni Unite in particolare, "ad adottare misure urgenti per proteggere questa missione e porre fine alla loro complicità con il blocco criminale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza." Essi hanno condannato le precedenti dichiarazioni del segretario generale dell'ONU, che richiedeva che gli aiuti a Gaza passassero attraverso "valichi legittimi e canali prestabiliti", nonostante l'ONU stessa abbia ammesso che il fallimento di Israele nell'adempiere alle sue responsabilità ha creato una crisi senza precedenti della dignità umana.

Durante questa settimana attivisti palestinesi in Cisgiordania e in Israele stanno organizzando azioni di solidarietà con la missione Freedom Waves, tra cui un sit in presso il complesso delle Nazioni Unite (Tokyo Street, Ramallah) e raduni in altre città della Cisgiordania.Questa missione rappresenta l'undicesimo tentativo di rompere l'assedio di Gaza via mare. Delle precedenti, cinque sono riuscite a raggiungere Gaza tra agosto e dicembre 2008, mentre le altre sono state intercettate e violentemente bloccate da Israele. Nel maggio 2010, Israele ha attaccato i passeggeri della Freedom Flotilla in acque internazionali, uccidendo nove civili e ferendone oltre 50. Le azioni di Israele sono state ampiamente e ripetutamente denunciate e condannate in tutto il mondo. I tentativi di portare una seconda flottiglia a Gaza sono stati vanificati lo scorso luglio dal governo greco sotto pressione di Israele e dei governi occidentali, e da atti di sabotaggio israeliano.Israele ha intensificato nei giorni scorsi i bombardamenti aerei su Gaza, sottolineando la necessità di iniziative internazionali simili a questa che possano fungere da detterente per Israele.

Per maggiori informazioni contattare:



Nota: Per informazioni dettagliate sulla flottiglia Freedom Waves: http://witnessgaza.com/

Twitter: @PalWaves #FreedomWaves

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