25 settembre 2007

Una terra solo per giudei.

La Suprema Corte israeliana ha tenuto ieri una seduta per deliberare su una petizione presentata da Adalah, una associazione per la tutela delle minoranze arabe in Israele, mirante a rimuovere il divieto vigente per gli Arabi israeliani di acquistare o prendere in affitto la terra controllata dal Jewish National Fund (JNF).

Il JNF attualmente detiene circa 2,5 milioni di dunam di terra (pari a 250.000 ettari), ovvero circa il 13% dell’intera superficie di Israele, che, attualmente, per il tramite della Israel Land Association (ILA) - un’agenzia governativa israeliana - può essere venduta o affittata soltanto ai cittadini di religione ebraica.

Con una decisione salomonica, la Corte ha adottato la proposta del Procuratore Generale e dello stesso JNF (!) di rendere disponibile per i prossimi tre mesi la terra controllata dal Fondo anche ai cittadini arabi, prevedendo però, nel contempo, che per ogni singolo appezzamento di terra venduto e/o affittato ad Arabi israeliani, lo Stato compensi il JNF con una analoga estensione di terreno in altre aree; la Suprema Corte ha, altresì, stabilito di posporre ogni ulteriore decisione sull’argomento allo scadere del sopraccitato periodo di tre mesi.

Ora, va premesso che tale ennesimo rinvio è assolutamente immotivato, in quanto la petizione di Adalah è stata presentata ben tre anni addietro, un tempo che avrebbe dovuto essere ben sufficiente alla Suprema Corte per assumere una qualsivoglia decisione.

Ma, soprattutto, in tal modo la giustizia israeliana non fa altro che perpetuare la politica discriminatoria nell’accesso alla terra nei confronti degli Arabi israeliani e consente al JNF di tenersi ben stretto quel 13% di territorio israeliano su cui possono stabilirsi soltanto comunità ebraiche al 100%.

Questa decisione, peraltro, segue da presso la legge adottata in prima lettura nel luglio di quest’anno dal Parlamento israeliano (The Jewish National Fund Law), che consente al JNF di continuare a distribuire la terra da esso posseduta soltanto agli ebrei, e che persino in Israele è stata definita una legge razzista (vedi l’editoriale di Ha’aretz del 20 luglio 2007 dal significativo titolo “A racist jewish State”).

I sostenitori del sionismo – tenacemente ancorati al passato – giustificano questo stato di cose sottolineando come la mission del JNF sia proprio quella di distribuire la terra agli Ebrei della diaspora, e che i 250.000 ettari di proprietà del JNF – nelle parole di Israel Harel - sono stati comprati “dunam by dunam, clod by clod” con le tante piccole donazioni nella “blue-box” del JNF, per farli diventare “eterna proprietà del popolo ebraico, in accordo con il principio stabilito dal fondatore del moderno sionismo, Theodor Herzl, nel quinto Congresso sionista del 1901”.

Si tratta, naturalmente, dell’ennesima menzogna storica, specialità in cui gli ebrei sono dei veri specialisti.

Dei circa 250.000 ettari di terra del JNF, infatti, oltre 200.000 non sono stati comprati con le monetine nelle “blue-boxes”, ma erano terre abbandonate dagli Arabi che David Ben-Gurion vendette al JNF, nel periodo 1949-50, a prezzi irrisori.

Una decisione, questa, assolutamente immorale ed illegale, in quanto non si trattava di terra di proprietà del governo israeliano, ma di quella conquistata durante la guerra; decisione che, peraltro, aveva come pressoché unico scopo quello di porre in essere una realtà di fatto che inibisse per sempre ogni velleità al ritorno dei profughi arabi cacciati dalle loro terre (e negasse loro alcun risarcimento), alla faccia della risoluzione Onu n.194.

Ancora oggi, dunque, ILA e JNF rappresentano la punta di diamante del persistere, in Israele, di una pratica discriminatoria nei confronti della minoranza araba per quanto riguarda l’accesso alla terra e l’edilizia abitativa, ed il governo israeliano destina vaste aree all’insediamento di comunità per soli ebrei, spesso ai danni delle comunità arabe, con una pratica indegna di uno Stato civile e democratico.

Ma già altri hanno osservato che uno Stato che voglia essere contemporaneamente “ebraico” e “democratico” rappresenta una contraddizione in termini.

E uno Stato e un Parlamento che autorizzino un ente governativo a vendere la terra solo agli Ebrei non fanno altro che praticare una palese ed immorale discriminazione razziale.

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11 settembre 2007

I bulldozer israeliani in azione.

Alle 4 di mattina dello scorso 29 agosto, i valorosi soldatini di Tsahal, accompagnati da alcuni bulldozer, sono entrati in forze nel quartiere Naqar di Qalqiliya, una cittadina della West Bank, alla ricerca di alcuni militanti di Hamas che l’intelligence israeliana riteneva si trovassero nell’area.

Intorno alle sette, circondato il quartiere, i soldati hanno intimato ai residenti nella zona di uscire dalle case, costringendo gli uomini a spogliarsi completamente (inclusi gli indumenti intimi) in mezzo alla strada, davanti alle donne ed ai bambini; due Palestinesi che si erano rifiutati sono stati picchiati selvaggiamente.

Successivamente, alcuni degli stessi abitanti sono stati interrogati dagli uomini della Israel Security Agency, senza che fosse loro concesso di indossare altro che la biancheria intima, e questo fino a sera, quando le truppe dell’Idf finalmente hanno deciso di abbandonare la città.

Non avendo ancora trovato i militanti ricercati, i bulldozer israeliani hanno iniziato a distruggere alcune case, demolendone interamente cinque e parzialmente due (ma in misura tale da renderle inabitabili), lasciando così senza un tetto ben 48 persone, tra cui 17 bambini; a nessuno dei residenti è stato consentito di entrare in casa, prima che venisse demolita, per raccogliere almeno gli effetti personali.

Si tratta dell’ennesimo crimine degli ebrei di Israele ai danni di Palestinesi inermi ed innocenti, l’ennesima brutale aggressione, l’ennesima violazione del diritto umanitario internazionale, in particolare dell’articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra, secondo cui la popolazione civile dei territori occupati deve essere trattata “umanamente” e deve veder garantiti, in ogni caso, il proprio onore e la propria dignità, e soprattutto del successivo articolo 53, che proibisce in maniera assoluta la distruzione delle proprietà dei residenti, salvo il caso in cui tali distruzioni siano rese “assolutamente necessarie” ai fini di una operazione militare.

Anche ammesso che l’operazione di arresto di Qalqiliya possa essere considerata una “operazione militare”, appare di tutta evidenza come gli eventuali arresti si sarebbero potuti tranquillamente effettuare senza demolire le abitazioni di civili innocenti.

Ma tant’è, meglio non rischiare!

Secondo le statistiche combinate fornite dall’UNRWA e da B’tselem, dal settembre del 2000 all’agosto del 2007, Israele ha distrutto – solo per presunti scopi militari – ben 3.019 unità abitative, lasciando senza casa oltre 27.260 Palestinesi; e questo, va precisato, senza considerare le demolizioni di carattere amministrativo.

Naturalmente le cancellerie occidentali voltano la testa dall’altra parte, il governo del fervente cattolico Prodi tace, l’informazione cialtrona ed asservita figuriamoci se divulga notizie che possano in qualche modo nuocere alla “immagine” di quel Paese civile e pacifico che è Israele.

Ah dimenticavo, l’operazione di Qalqiliya si è conclusa senza alcun arresto: l’intelligence israeliana si era sbagliata.

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