4 gennaio 2016

La terza generazione, ancora sotto occupazione



A third generation has been born into the occupation by now. A third generation of children who know only the reality of daily human rights violations. It’s hard to find hope when the occupation infiltrates every aspect of your life; it’s hard to grow up when you don’t feel safe even in your own home, with soldiers waking you in the dead of night; it’s hard to feel free when soldiers and police officers detain you on your way to school; it’s hard to breathe when you live, whether as child or adult, with your most basic rights as a person denied – the right to freedom and to dignity.While Israeli authorities and their various emissaries are doing everything in their power to silence dissent over the occupation’s chokehold on Palestinians, we are here to ensure that you know what is being done in the occupied territories and to work towards a better reality.Join us. Share this video and support B’Tselem:https://www.btselem.org/donate*All the footage was filmed by our Camera Project volunteers in 2015.
Posted by ‎B'Tselem בצלם‎ on Giovedì 31 dicembre 2015

Una terza generazione di palestinesi è nata sotto occupazione, una generazione che conosce soltanto una realtà fatta di quotidiane violazioni dei diritti umani.
E' difficile nutrire speranza se l'occupazione devasta ogni aspetto della tua vita, è difficile crescere se non ti senti al sicuro neppure al riparo della tua casa, dove i soldati israeliani possono venire a interrogarti nel cuore della notte.
E' difficile sentirsi liberi se i soldati possono rapirti mentre vai a scuola, è difficile persino respirare quando sei costretto a vivere privato dei tuoi diritti più basilari, il diritto alla libertà e alla dignità. E, aggiungo io, è difficile non odiare chi ti fa tutto questo, è difficile non desiderarne la morte.
Stiamo giustificando la violenza e l'uccisione di innocenti? Certo che no, stiamo semplicemente constatando una semplice ed evidente realtà: alla radice di tutto il sangue che bagna il vicino oriente, sia esso di palestinesi o di israeliani, vi è l'occupazione e il regime di apartheid criminale che la sorregge.
E chiunque fa' si che si perpetui l'occupazione dei territori palestinesi ha le mani macchiate di questo sangue. E chi fa finta di niente e rivendica con orgoglio la propria amicizia per lo stato criminale occupante ha anch'egli qualche schizzo di sangue sulla cravatta...

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9 luglio 2014

Israele non vuole la pace

L’atteggiamento di rifiuto è intrinseco alle convinzioni più radicate di Israele. Qui risiede, a livello più profondo, il concetto che questa terra è destinata solo agli ebrei.
di Gideon Levy - 4 luglio 2014

Israele non vuole la pace. Non c’è niente di quello che ho scritto finora di cui sarei più contento di essere smentito. Ma le prove si sono accumulate a dismisura. In effetti, si può dire che Israele non ha mai voluto la pace – una pace giusta, cioè basata su un compromesso equo per entrambe le parti. È vero che l’abituale saluto in ebraico è “Shalom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. E, di primo acchitto, praticamente ogni israeliano direbbe di volere la pace, è ovvio. Ma non farebbe riferimento al tipo di pace che porterebbe anche alla giustizia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere. Gli israeliani vogliono la pace, non la giustizia, certamente non basata su principi universali. Quindi, “Pace, pace, quando pace non c‘è.” Non soltanto non c’è pace: negli anni recenti, Israele si è allontanato persino dall’aspirare a fare la pace. Ha perso totalmente lil desiderio di farla. La pace è scomparsa dalla prospettiva di Israele, e il suo posto è stato preso da un’ansietà collettiva che si è sistematicamente impiantata, e da questioni personali, private che ora hanno la prevalenza su tutto il resto.
Verosimilmente il desiderio di pace di Israele è morto circa dieci anni fa, dopo il fallimento del summit di Camp David nel 2000, la diffusione della menzogna secondo cui non ci sono partner palestinesi per fare la pace, e, ovviamente, l’orribile periodo intriso di sangue della Seconda Intifada. Ma la verità è che, persino prima di tutto questo, Israele non ha mai veramente voluto la pace. Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale. 
Anche il campo pacifista israeliano- se pure è mai esistito qualcosa del genere – è morto anche lui di una lunga agonia tra le sconvolgenti scene della Seconda Intifada e la menzogna della mancanza di una controparte. Tutto ciò che è rimasto è stato un pugno di organizzazioni tanto determinate e impegnate quanto inefficaci nel contrastare le campagne di delegittimazione costruite contro di loro. Perciò Israele è rimasto con il suo atteggiamento di rifiuto.
Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione. Fin dalle sue origini, non c’è mai stato una più attendibile o più evidente prova inconfutabile delle reali intenzioni di Israele che questa particolare iniziativa. In poche parole: chi costruisce gli insediamenti vuole consolidare l’occupazione, e chi vuole consolidare l’occupazione non vuole la pace. Questa in sintesi è la questione.
Ammettendo che le decisioni di Israele siano razionali, è impossibile accettare la costruzione delle colonie e l’aspirazione alla pace come mutualmente coesistenti. Ogni attività di costruzione degli insediamenti dei coloni, ogni roulotte e ogni balcone trasmette rifiuto. Se Israele avesse voluto raggiungere la pace attraverso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloccato la costruzione di colonie di sua spontanea iniziativa. Il fatto che non sia avvenuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipotesi la cronaca di un fallimento annunciato. Se Israele avesse voluto ottenere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washington o a Gerusalemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qualunque tipo di edificazione nei Territori [occupati]. Senza porre condizioni. Senza contropartita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta.
Ma le colonie sono state solo la pietra di paragone delle intenzioni di Israele. Il suo atteggiamento di rifiuto è molto più profondamente radicato nel suo DNA, nelle sue vene, nella sua ragione d’essere, nelle sue originarie convinzioni. Lì, a livello più profondo, risiede il concetto che questa terra è destinata solo agli Ebrei. Lì, a livello più profondo, è fondata la valenza di “am sgula” – “il prezioso popolo” di Dio – e “siamo gli eletti da Dio”. In pratica, ciò viene inteso con il significato che, in questo territorio, gli ebrei possono fare quello che agli altri è vietato. Questo è il punto di partenza, e non c’è modo di passare da questo concetto ad una pace giusta. Non c’è modo di arrivare ad una pace giusta quando il gioco consiste nella de-umanizzazione dei palestinesi. Non c’è modo di arrivare ad una giusta pace quando la demonizzazione dei palestinesi è inculcata quotidianamente nelle menti della gente. Quelli che sono convinti che ogni palestinese è una persona sospetta e che ogni palestinese vuole “gettare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i palestinesi. La maggioranza degli Israeliani è convinta della verità di entrambe queste affermazioni.
Nell’ultimo decennio, i due popoli sono stati separati gli uni dagli altri. Il giovane israeliano medio non incontrerà mai un suo coetaneo palestinese, se non durante il servizio militare (e solo se farà il servizio militare nei Territori [occupati]). Neanche il giovane palestinese medio incontra mai un suo coetaneo israeliano, se non il soldato che brontola e sbuffa ai checkpoint, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incendia i suoi alberi.
Di conseguenza, l’unico incontro tra i due popoli avviene tra gli occupanti, che sono armati e violenti, e gli occupati, che sono disperati e anche loro tendenzialmente violenti. Sono passati i tempi in cui i palestinesi lavoravano in Israele e gli israeliani facevano la spesa in Palestina. E’ passato il tempo delle relazioni quasi normali e quasi paritarie che sono esistite per pochi decenni tra i due popoli che condividono lo stesso territorio. E’ molto facile, in questa situazione, incitare e infiammare i due popoli uno contro l’altro, spargere paure e instillare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche questa è una sicura ricetta contro la pace.
Così è sorto un nuovo desiderio di Israele, quello della separazione: “Loro se ne staranno là e noi qua (e anche là).” Proprio quando la maggioranza dei palestinesi – una constatazione che mi permetto di fare dopo decenni di corrispondenze dai Territori occupati – ancora desidera la coesistenza, anche se sempre meno, la maggioranza degli israeliani vuole il disimpegno e la separazione, ma senza pagarne il prezzo. La visione dei due Stati ha guadagnato una diffusa adesione, ma senza la minima intenzione di metterla in pratica. La maggioranza degli israeliani è favorevole, ma non ora e forse neppure qui. Sono stati abituati a credere che non ci sono partner per la pace – ossia una controparte palestinese – ma che ce n’è una israeliana.
Sfortunatamente, la verità è l’esatto contrario. I non partner palestinesi non hanno più la minima possibilità di dimostrare di essere delle controparti; i non partner israeliani sono convinti di esserlo. Così è iniziato un processo nel quale condizioni, ostacoli e difficoltà [posti] da Israele, sono andati aumentando, un’altra pietra miliare dell’atteggiamento di rifiuto israeliano. Prima viene la richiesta di cessare gli attacchi terroristici; poi quella di un cambiamento dei dirigenti (Yasser Arafat come un ostacolo [alla pace]); e poi lo scoglio diventa Hamas. Ora è il rifiuto da parte dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico. Israele considera ogni suo passo – a partire dagli arresti di massa degli oppositori politici nei Territori [occupati] – come legittimi, mentre ogni mossa palestinese è “unilaterale”.
L’unico paese al mondo che non ha confini [definiti] non è assolutamente intenzionato a definire quale compromesso sui [propri] confini sia pronto ad accettare. Israele non ha interiorizzato il fatto che per i palestinesi i confini del 1967 sono la base di ogni compromesso, la linea rossa della giustizia (o di una giustizia relativa). Per gli israeliani, sono “confini suicidi”. Questa è la ragione per cui la salvaguardia dello status quo è diventato il vero obiettivo di Israele, il principale scopo della sua politica, praticamente fondamentale e unico. Il problema è che l’attuale situazione non può durare per sempre. Storicamente, poche nazioni hanno accettato di vivere per sempre sotto occupazione senza resistere. E pure la comunità internazionale sarà un giorno disposta ad esprimere una ferma condanna di questo stato di cose, accompagnata da misure punitive. Ne consegue che l’obiettivo di Israele è irrealistico.
Slegata dalla realtà, la maggioranza degli israeliani continua nel proprio modo di vita quotidiano. Nella loro visione della situazione, il mondo è sempre contro di loro, e le zone occupate nel giardino di casa sono lontane dal loro campo di interesse. Chiunque osi criticare la politica di occupazione è etichettato come antisemita, ogni atto di resistenza è interpretato come una sfida esiziale. Ogni opposizione internazionale all’occupazione è letto come una “delegittimazione” di Israele e come una minaccia all’esistenza stessa del paese. I sette miliardi di abitanti del pianeta – la maggior parte dei quali sono contrari all’occupazione – sbagliano, e i sei milioni di ebrei israeliani – la maggior parte favorevole all’occupazione – sono nel giusto. Questa è la realtà dal punto di vista dell’israeliano medio.
Si aggiunga a questo la repressione, l’occultamento e l’offuscamento [della realtà], ed ecco un’altra spiegazione dell’atteggiamento di rifiuto: perché ci si dovrebbe impegnare per la pace finché la vita in Israele è buona, la tranquillità prevale e la realtà è nascosta? L’unico modo che la Striscia di Gaza assediata ha per ricordare alla gente della sua esistenza è di sparare razzi, e la Cisgiordania torna a fare notizia nei giorni in cui vi scorre il sangue. Allo stesso modo, il punto di vista della comunità internazionale è preso in considerazione solo quando cerca di imporre il boicottaggio e le sanzioni, che a loro volta generano immediatamente una campagna di autocommiserazione costellata di ottuse – e a volte anche fuori luogo – accuse che fanno riferimento alla storia.
Questa è dunque la cupa immagine [della situazione]. Non ci si trova neanche un raggio di speranza. Il cambiamento non avverrà dall’interno, dalla società israeliana, finché questa società continuerà a comportarsi in questo modo. I palestinesi hanno fatto più di un errore, ma i loro errori sono marginali. Fondamentalmente la giustizia è dalla loro parte, e un fondamentale atteggiamento di rifiuto è appannaggio degli israeliani. Gli israeliani vogliono l’occupazione, non la pace. Spero solo di sbagliarmi.
Israel does not want peace Traduzione di Amedeo Rossi per Nena News

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4 dicembre 2013

Immagini di un'infanzia violata


Questa immagine è davvero emblematica di come i ragazzi palestinesi sono costretti a vivere nella Palestina occupata, i patimenti, i soprusi, le violazioni che sono costretti a subire da un'occupazione illegale e moralmente abietta. Qui un ragazzino palestinese si rivolge gridando a un soldato israeliano, chiedendo la liberazione del padre arrestato. Egli, tra l'altro, ha appena dovuto assistere all'aggressione del fratello da parte della soldataglia dell'Idf (foto postata da Hambe Abu Rahma da fb).


E talvolta capita che la soldataglia israeliana arresti questi bambini, in violazione non solo del diritto umanitario e delle varie Convenzioni sui diritti del fanciullo, ma persino della stessa legge di questo stato-canaglia. In questa foto Mahmoud Najib, un bambino di soli 10 anni, piange mentre viene arrestato dalle forze di occupazione a Gerusalemme est (3 dicembre 2013, foto postata da Younes Arar da fb).


Ma l'infanzia palestinese viene violata anche dall'embargo criminale imposto a Gaza ormai da più di sei anni, costringendo una popolazione di 1,7 milioni di palestinesi, molti dei quali bambini e ragazzi, a vivere in condizioni di estrema povertà e degrado (foto postata da Ramy Abdu da fb).


E che dire delle decine di migliaia di palestinesi che, dal 1993 ad oggi, hanno viste le loro case (più di 15.000 per l'esattezza) distrutte dalla sistematica opera di demolizione e di pulizia etnica dello stato-canaglia israeliano?  Ci si interroga come sarà l'adolescenza e la vita intera di questa bambina, qui ritratta mentre gioca sulle suppellettili che residuano dalla demolizione della sua casa nella Valle del Giordano (3 dicembre 2013, foto postata da Younes Arar su fb).

Talvolta, dopo che guardo immagini come queste che raffigurano bambini che mi guardano tristi, preoccupati eppure talvolta sorridenti dallo schermo del mio pc, mi volto a osservare i miei piccoli che giocano nella tranquillità e nel confort della mia abitazione, e davvero mi vengono le lacrime agli occhi.

Che in Israele si conoscano bene e si guardino con indifferenza i crimini dell'occupazione israeliana e le condizioni di vita della popolazione palestinese mi sorprende, ma fino a un certo punto.

Ma che la comunità internazionale, i governi dell'occidente, i nostri governanti, assistano impassibili alla tragedia dell'infanzia palestinese così brutalmente violata, mi riempie sempre di sgomento e di doloroso stupore.




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12 marzo 2013

Giovane palestinese travolto e ucciso da coloni a Salfit

Stamattina un giovane palestinese del villaggio di Qarawa Bani Hassan, a ovest di Salfit, è morto per le ferite riportate dopo essere stato investito sabato scorso dall'auto di un colono, nei pressi dell'insediamento di Burqan, nel nord della Cisgiordania.

Zaid Ali Rayan, questo era il nome dell'uomo, aveva 28 anni ed era padre di due figli.

(fonte: PNN)

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21 febbraio 2013

La ricompensa umanitaria per il silenzio


Sovente i cantori della più becera propaganda filo-israeliana di casa nostra mettono in evidenza come i palestinesi siano percettori di generosi aiuti finanziari, accusandoli senza mezzi termini di essere degli “scrocconi” e di vivere alle spalle dei contribuenti europei.

Ma la verità sta esattamente all’opposto: gli aiuti internazionali al popolo palestinese servono solo a rimediare ai guasti e ai crimini dell’occupazione israeliana. Di più, la “generosità” degli stati dell’occidente è solo un modo per farsi perdonare l’accettazione dello status quo dell’occupazione israeliana, del blocco di Gaza, dell’espansione delle colonie, del regime di apartheid che vige nella West Bank.

E questo il senso del bell’articolo che segue, scritto da Amira Hass per Ha’aretz. Va soprattutto evidenziato come la giornalista metta giustamente in chiaro come ogni sorta di collaborazione con lo stato-canaglia israeliano, nel campo militare così come nelle relazioni commerciali, ma anche nel campo culturale ed accademico, altro non rappresenta se non un implicito incoraggiamento allo stato ebraico a perseguire nelle sue politiche illegali e immorali.

I generosi aiuti forniti ai Palestinesi attraverso vari canali sono la ricompensa offerta dagli stati occidentali per la tolleranza da loro mostrata nei confronti dell’apartheid israeliano.

di Amira Hass - 6.2.2013

C’è qualcosa di imbarazzante, persino di umiliante, nei due o nei tre o negli stormi di fuoristrada che accorrono verso il luogo di un disastro. I passeggeri di lingua straniera ne emergono per registrare accuratamente i danni, valutare gli aiuti necessari e quindi discutere del modo con cui fornirli. In seguito pubblicano i loro accertamenti e le loro conclusioni in relazioni ad uso interno e in brochure patinate contenenti immagini spettacolari, perché la sofferenza è fotogenica.

Anche quando queste squadre di soccorso sono estremamente altruiste, compassionevoli e scrupolose, l’aura del loro mondo ordinario, confortevole e salubre le circonda, isolandole da coloro per i quali la catastrofe è una routine. I primi si guadagnano da vivere con le calamità, i secondi le vivono. Non c’è bisogno di esser cinici, è lo scenario che è cinico per definizione.

Anche nei disastri naturali una gran parte della responsabilità ricade su inadempienze amministrative, atti umani, criminale negligenza il cui unico effetto è quello di perpetuare le differenze di classe. Ma almeno quando la causa immediata è una tempesta o un terremoto c’è una dimensione di ineluttabilità. Si determina la portata del disastro ma non il suo verificarsi.    

I team internazionali che raggiungono con le jeep ogni angolo della Cisgiordania, di Gerusalemme est e della Striscia di Gaza vivono di calamità che sono al 100% opera dell’uomo, un fatto che moltiplica il cinismo dello scenario. I camion cisterna di acqua potabile che regolarmente finanziano, i pacchi alimentari che distribuiscono a intervalli di poche settimane o mesi e le tende piantate ogni settimana sulle rovine di una casa demolita significano l’ennesimo successo israeliano: comprimere e ridurre la questione palestinese da una battaglia per la libertà, l’indipendenza e i diritti ad una questione di elemosina e di soccorso, di donazioni internazionali e del loro tempismo.  

I palestinesi “bisognosi” che ricevono donazioni di acqua, cibo e tende ad Hammamat al-Maleh, a Beit Lahia e a Shoafat sono bisognosi perché i tipici israeliani – la crema dei sistemi scolastici statali e statali-religiosi, gli alti ufficiali di carriera dell’esercito – che possono guardare ad un futuro splendido da civili nell’alta tecnologia o nei servizi pubblici si specializzano nell’abusare di loro. Che cos’è, se non un abuso, una tubazione da un capo all’altro del vostro terreno ad Al Farisya, nel nord della valle del Giordano, che porta l’acqua alle case ebraiche costruite sulla terra del vostro villaggio, ma dalla quale vi è proibito di prendere anche solo una goccia? Che cos’è, se non maltrattamento, lo sparare di routine alle persone che si sostentano con la pesca o la raccolta di rifiuti? E cos’è, se non sadismo, lo sfrattare le persone dalle loro case nei quartieri di Sheikh Jarrah e di Silwan, a Gerusalemme est, o il rifiutarsi di registrare i bambini sulle carte d’identità delle loro madri che vivono a Gerusalemme?    

Il pubblico per tutti questi rapporti che descrivono questi abusi e che sono stati scritti da questi team scrupolosi è costituito dagli alti diplomatici di stanza a Bruxelles, nelle capitali europee e nel Nord America. Si suppone che le informazioni siano trasmesse ai ministri degli esteri e ai governi. Gran parte di esse presumibilmente lo sono. Ma questi governi hanno preso la decisione politica consapevole di rimanere radicati nell’ipocrisia e di astenersi da un intervento politico. Piuttosto, si limitano a pagare per spegnere qualche incendio.

Anche questo è un enorme successo israeliano: la costante, quotidiana preoccupazione internazionale per le conseguenze della dominazione sui palestinesi e dell’acquisizione delle loro terre da parte di Israele è di natura umanitaria piuttosto che politica. Contro la loro volontà, quanti si impegnano in questo sforzo umanitario costituiscono una foglia di fico per gli stati occidentali che sulla carta sostengono i diritti e l’indipendenza dei palestinesi mentre nella pratica accettano l’apartheid israeliano.

L’apartheid genera i casi umanitari palestinesi nell’interesse dei quali si tengono importanti conferenze e dai quali molti burocrati palestinesi e stranieri si guadagnano (bene) da vivere. I generosi aiuti forniti ai palestinesi attraverso vari canali sono la ricompensa offerta dagli stati occidentali in cambio della tolleranza da essi mostrata nei confronti dell’apartheid israeliano e dell’incoraggiamento che gli forniscono, sotto forma di stretti legami nel settore della difesa, del miglioramento delle relazioni commerciali e degli scambi culturali e scientifici.     

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4 agosto 2012

Romney, chiedi scusa al popolo palestinese!


Capiamo bene quanto sia importante, in una campagna presidenziale Usa, avere l’appoggio della strapotente Israel Lobby, e comprendiamo quanto sia difficile competere, con un’amministrazione uscente come quella Obama-Clinton che, in fatto di favori allo stato israeliano, non è stata seconda a nessuno.

Capiamo bene che il pubblico a cui si stava rivolgendo Mitt Romney era costituito da Ebrei americani e da Cristiani evangelici, tra i quali il magnate dei casino Sheldon Adelson – conosciuto per le sue idee apertamente filo-israeliane e per essere il donatore americano che più ha speso per sconfiggere Obama (100 milioni di dollari!).

Capiamo che persino l’ambientazione – lo storico King David Hotel di Gerusalemme teatro delle gesta del terrorista Menachem Begin (non a caso poi divenuto primo ministro israeliano) – abbia favorito un certo innalzamento dei toni.

Ma – tutto ciò considerato – le dichiarazioni fatte da Mitt Romney durante il suo soggiorno in Israele sono del tutto inaccettabili e, francamente, vergognose.

E non solo e non tanto la bislacca affermazione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele ma, soprattutto, quella secondo cui le migliori performance dell’economia israeliana rispetto a quella palestinese sarebbero dovute ad una supposta superiorità culturale degli Ebrei rispetto ai loro vicini palestinesi.  

Perché tale tesi mostra non solo una sorprendente disconoscenza dei reali fattori che limitano la crescita dell’economia palestinese – l’occupazione, i check-point, i limiti all’import e all’export, la sottrazione della terra e delle risorse naturali e via discorrendo – ma risulta intrisa di un razzismo davvero nauseante.

Vorrei invitarvi, dunque, a sottoscrivere la lettera di protesta che Jewish Voice for Peace intende presentare a Romney entro la fine di questa settimana e che è riportata qui sotto. Tanto per chiarirgli che negli Usa e nel mondo non c’è solo la lobby ebraica a cui rendere conto delle proprie idee e dei propri atti. 

Lettera aperta al Governatore Mitt Romney: porga le sue scuse al popolo palestinese
Ieri (30 luglio, n.d.t.) a Gerusalemme, il Governatore Mitt Romney ha reso alcune dichiarazioni che erano non solo sbagliate ma, francamente, intrise di pregiudizi e di ignoranza.
Romney ha dichiarato che la ragione per cui l’economia palestinese non cresce tanto quanto quella israeliana è costituita da “differenze culturali”, senza neppure citare l’Occupazione. Per di più, egli è riuscito a rendere completamente sbagliate persino le sue verità, sostenendo che il PIL israeliano è pari al doppio di quello dei Territori palestinesi occupati, quando in realtà è circa 10 volte più elevato. (1)
La maggior parte delle persone che, anche sommariamente, si tiene al passo con le notizie sa che Israele controlla in gran parte non solo l’ingresso e l’uscita delle merci da e per la Cisgiordania e Gaza, ma anche l’ingresso e l’uscita dei Palestinesi. I soldati israeliani possono arbitrariamente vietare l’accesso degli agricoltori alle loro terre, degli studenti ai loro corsi di studio, e dei pazienti alle cure mediche. Israele può e ha chiuso le Università palestinesi per interi anni alla volta.
Israele non consente nemmeno che i prodotti più innocui, come le fragole prodotte a Gaza, vengano venduti in Cisgiordania, il che serve a impedire agli agricoltori di Gaza di guadagnarsi da vivere. (2) In diverse occasioni, non ha consentito l’ingresso a Gaza di acciaio, vetro, o persino della pasta, al fine di permettere la ricostruzione dopo la devastante guerra a Gaza nel 2008-2009. E Israele consente alle aziende private come Ahava di impadronirsi delle risorse naturali della Cisgiordania e di venderle per trarne un profitto. (3) (4) (5)
 E’ questa infrastruttura di controllo che soffoca non solo la crescita economica, ma qualsiasi cosa che si avvicini ad una vita normale.
L’intenzionale mancanza di comprensione da parte del Governatore Romney della realtà fattuale e quelli che sembrano essere dei presupposti razzisti su Israeliani e Palestinesi non ci rappresentano. Firma la nostra lettera per invitarlo a rettificare le sue dichiarazioni e a chiedere scusa. Noi la consegneremo al quartier generale della campagna elettorale di Romney alla fine della settimana.   
Romney rivendica il suo valore come leader sulla base del suo successo negli affari. Ma ogni uomo d’affari dovrebbe sapere che bloccare il libero scambio ed il commercio, trarre profitto dallo sfruttamento della terra sottratta, e tenere in ostaggio un’intera economia non è esattamente una competizione leale.
Per favore aiutaci ad inviare a Mitt Romney il messaggio che questo tipo di ignoranza e di razzismo è inaccettabile. I membri di Jewish Voice for Peace di Boston consegneranno personalmente la tua firma al quartier generale di Romney prima della fine di questa settimana. Spargi la voce tra i tuoi amici e le comunità – vogliamo abbastanza firme entro la fine di questa settimana per rendere chiaro che le sue dichiarazioni non riflettono i valori che gli Ebrei, gli Americani e i nostri alleati tengono cari.
Rebecca Vilkomerson, Direttore Esecutivo
Jewish Voice for Peace    

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22 maggio 2012

Dov'è la moralità di questi soldati?



Domenica scorsa un ragazzo palestinese di 18 anni, Salah Sghayyar, è stato ferito dai soldati israeliani nei pressi dell’insediamento colonico di Etzion, situato tra Betlemme ed Hebron. Secondo l’Idf, il giovane avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano e sarebbe rimasto ferito nella colluttazione ovvero, secondo altre fonti, sarebbe stato colpito al petto da colpi d’arma da fuoco, ma non è questo l’aspetto più tragico della vicenda.

No, l’aspetto più terribile e rivoltante dell’accaduto è che, mentre il ragazzo giaceva a terra sanguinante, incapace di muoversi, forse morente, i bravi soldati israeliani gli calpestavano le mani e si mettevano in posa per scattare qualche foto con il loro prezioso “trofeo” ormai abbattuto.

Davvero non ci sono parole per commentare questa foto, non si riesce a capire dove sia andato a finire quel briciolo di umanità che dovrebbe pur albergare in ogni uomo, anche in un soldato di un esercito di occupazione. Dov’è la moralità di questi soldati, dov’è la moralità di questo esercito in cui prestano servizio simili bestie spietate?

Definirle vili canaglie sembra persino riduttivo, e non rende bene la rabbia e l’indignazione che montano davanti a questo orrendo spettacolo.

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10 aprile 2012

Presidente Monti, la IV Convenzione di Ginevra è dunque solo carta straccia?



Se c'è un settore in cui il governo Monti non si discosta in nulla rispetto al precedente a guida Berlusconi è quello della politica estera. Non a caso a Frattini - il ministro più sionista d'Europa secondo la felice definizione di Ha'aretz - è succeduto Terzi di Sant'Agata, il quale sin dagli esordi (su twitter...) non ha esitato un attimo ad appuntarsi la medaglietta di amico di Israele.

Così, nel video qui sopra, ci tocca assistere allo spettacolo, in verità penoso, del nostro Presidente del Consiglio che reiteratamente si rifiuta di rispondere alla precisa domanda sul muro e sull'occupazione rivoltagli dell'inviata di Nena News. 

Eppure Monti non dovrebbe ignorare l'esistenza di un noto parere della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) dell'Aja che ha dichiarato a chiare lettere l'illegalità del muro dell'apartheid per la parte che corre al di là della green line e ne ha chiesto l'immediata demolizione.

E, soprattutto, non dovrebbe ignorare che il parere dell'ICJ richiama tutti gli Stati al preciso obbligo di non riconoscere la situazione di illegalità determinata dal Muro stesso e di non fornire in alcun modo aiuto o assistenza ad Israele nel mantenere in essere detta situazione; gli Stati firmatari della IV Convenzione di Ginevra, peraltro, avrebbero l'ulteriore obbligo di far si che Israele si conformi alle norme di diritto umanitario contenute nella Convenzione medesima. 

Fino a quando, caro Presidente Monti, l'amicizia con Israele ci porterà a ignorare il diritto internazionale e il diritto umanitario, a ignorare le sofferenze e le ruberie a danno del popolo palestinese, a violare la IV Convenzione di Ginevra che pure l'Italia ha sottoscritto e che costituisce un fondamentale presidio di civiltà? 

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9 ottobre 2011

I valorosi soldati di Tsahal effettuano un arresto




"Abbiamo pianto, abbiamo pianto tanto. Piangere è l’unica cosa che si riesce a fare davanti a questo nuovo video diffuso nella rete e ripreso da Press TV che rivela l’amara verità che è la vita delle famiglie palestinesi. I soldati dell’esercito israeliano fanno irruzione in una casa, vogliono portar via il padre della famiglia; la moglie e la figlioletta tentano di opporsi disperate ma vengono picchiate brutalmente…

Piangi mondo, piangi…perchè questo è quello a cui tu assisti in silenzio…".

Questo è il commento al video qui sopra postato dalla redazione di Irib, il sito web della radio iraniana in Italia. Non è necessario aggiungere altro.

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9 giugno 2011

11 giugno: corteo contro "l'occupazione" israeliana di Milano.



La Piazza del Duomo a Milano evidentemente risente già degli effetti della "occupazione" israeliana, dato che tutte le manifestazioni precedentemente autorizzate in partenza o in arrivo verso la piazza dovranno cambiare percorso.

Il corteo promosso dall'ISM-Italia per il prossimo 11 giugno alle ore 17:30, dunque, partirà da Largo Cairoli e avrà come destinazione finale le Colonne di San Lorenzo, tuttavia il percorso deve ancora essere definito. Al termine è previsto un presidio con microfono aperto e un concerto di rap palestinese.

Per info chiamare il 328-9556787.

Occupiamo Milano contro "l'occupazione" israeliana. Contestiamo i complici!

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8 giugno 2011

Firma contro "l'Israele che non esiste"

Alla fine pare che “Israele che non ti aspetti” – la rassegna dedicata allo stato ebraico in programma a Milano dal 13 al 20 giugno – avrà luogo comunque a Piazza Duomo, nonostante le terribili “minacce” piovute dagli ambienti dell’attivismo filo palestinese.

E meno male, perché sarebbe stato davvero ridicolo e pretestuoso spacciare per “pesanti minacce” (come ha fatto il presidente della comunità ebraica milanese, Roberto Jarach) la semplice mobilitazione politica e la pubblicazione di una petizione on line volte a boicottare la manifestazione e a denunciarne il carattere propagandistico, che mira a presentare un “Israele che non esiste” celando quello vero, che ha i caratteri tristemente noti dell’oppressione, del razzismo, della violenza, dell’assassinio.

Ancora una volta si cerca di spacciare la semplice denuncia e la contestazione pacifica con l’antisemitismo violento e gratuito, e non è un caso che sia stato per primo l’israeliano Yedioth Ahronoth, nella sua edizione on line, a denunciare il pericoloso atteggiamento assunto da non meglio identificati gruppi filo palestinesi e i loro bellicosi propositi di “incendiare la città”.

“Israele che non ti aspetti” è una kermesse sulla tecnologia e sul turismo israeliani volta a “promuovere scambi scientifici e culturali tra Tel Aviv e Milano”, per raccontare che esiste anche “un Israele diverso da quello di stato interessato ad un conflitto”. Fra gli eventi programmati il solito incontro con il pacifinto scrittore David Grossman e il solito concerto della pacifinta cantante Noa, quella per intenderci che scriveva ai Palestinesi di Gaza di pazientare e di soffrire un pochettino, giusto il tempo che l’esercito israeliano estirpasse il “cancro” di Hamas (e, con esso, centinaia di vite civili inermi e innocenti…).

Ora, a parte il fatto che i rapporti tra Italia e Israele si intrecciano soprattutto intorno al business delle armi e della sicurezza, non esiste un Israele della tecnologia e della “cultura” disgiunto da quello che purtroppo conosciamo dalle cronache quotidiane della Palestina, come se si trattasse di due paesi diversi. E l’Israele che ci raccontano queste cronache è quello che ha trucidato oltre un migliaio di civili inermi e innocenti durante “Piombo Fuso”, quello che ha ucciso 23 manifestanti palestinesi sulle alture del Golan (tra i quali una donna e un bambino), quello che si prepara ad approvare proprio in questi giorni 4.100 nuovi appartamenti nella Gerusalemme est occupata, quello che minaccia di usare la forza contro la Freedom Flotilla 2 in procinto di partire per Gaza, prefigurando lo scenario di un nuovo massacro di attivisti come quello perpetrato a bordo della Mavi Marmara.

Per questo non è accettabile che Milano diventi la passerella di un’operazione di cosmesi e di propaganda, e non è tollerabile che l’Italia legittimi e si renda complice di uno stato razzista e colonialista che viola ogni sorta di norme e convenzioni di diritto internazionale e depriva i Palestinesi dei loro diritti umani fondamentali.

Per questo è importante la massiccia partecipazione alle iniziative messe in campo dal Forum Palestina, dall’ISM e dalle altre organizzazioni, che culmineranno nella manifestazione nazionale del prossimo 18 giugno, con partenza da Largo Cairoli alle ore 15:00 (vi sono anche dei pullman che partono da Roma per partecipare all’evento).
Così come è importante firmare la petizione on line contro l’occupazione israeliana di Milano (il titolo è naturalmente ironico, forse qualcuno non l’ha colto…). Petizione che qui di seguito riporto e in cui chi, come me, è dalla parte del popolo palestinese, non può non riconoscersi.

PETIZIONE CONTRO LA KERMESSE DI ISRAELE A MILANO

A: La Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano

Siamo dalla parte dei palestinesi.

A chi rifiuta la guerra, sempre e comunque. A chi non accetta che nel 2011 ancora sopravvivano regimi di apartheid. A chi pensa che ogni persona ed ogni popolo abbia il diritto di autodeterminarsi, senza dover sottostare alla volontà e ai permessi (cinicamente poi sempre negati) di un altro governo. A chi rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione. A chi non può accettare che ancora vengano costruiti muri per separare, ghettizzare e umiliare altri esseri umani. A chi pensa che la terra sia di chi la abita, e che tutte/i abbiano il diritto di determinare e scegliere sui propri territori. A chi pensa che a nessuno possa essere negato il diritto di muoversi, di spostarsi ma anche, poi, di tornare a casa. A tutte e tutti voi, chiediamo di aderire a questo appello, di condividerlo con altre/i.

Dal 12 al 23 giugno a Milano, in piazza Duomo, si terrà “Israele che non ti aspetti”, una kermesse sulla tecnologia e sul turismo israeliani promossa dalle stesse autorità di Tel Aviv in collaborazione con gli enti locali lombardi, per raccontare “un Israele diverso da quello di Stato interessato da un conflitto”. Un tendone di 900 metri quadri, per un costo annunciato che si aggira intorno ai 2,5 milioni di euro (non è chiaro chi paghi), che vorrebbe cancellare la memoria della pulizia etnica che ha dato origine alla nascita dello stato di Israele e che perdura tuttora: la cacciata violenta degli abitanti della Palestina nel 1948-49, l’espropriazione della loro terra, la soppressione dei loro diritti civili e dei più fondamentali diritti umani, la negazione del diritto dei profughi palestinesi al ritorno nella propria terra.

Uno Stato che legittima l’apartheid come prassi quotidiana, nascondendola sotto la parola “sicurezza” (tanto cara anche ai nostri governi), che costruisce un muro alto più di otto metri che impedisce ai palestinesi di accedere ai propri campi, alle scuole e agli ospedali, espropriando altra terra, case, fonti di vita. Un muro che - in aperta violazione di sentenze e accordi internazionali - annette, sempre in nome del Santo Diritto alla Difesa, insediamenti illegali, che neanche dovrebbero esistere.

Uno Stato che dalle alture siriane del Golan - occupate illegalmente dal 1967 - si appropria di 450 milioni di metri cubi di acqua all’anno, lasciandone solo 22 ai palestinesi, quando invece le risorse andrebbero divise equamente: ecco svelata la grande tecnologia idrica israeliana.

Uno Stato che nega al popolo palestinese la possibilità di muoversi (costruendo check point lungo il suo perimetro e dentro il territorio altrui) ed il diritto al ritorno per tutti coloro che sono stati costretti a lasciare le loro terre durante le guerre e l’occupazione.

Uno Stato che viene definito “unico stato democratico del Medio Oriente”, ma che nei suoi 63 anni di storia ha continuamente alternato guerra ad alta e a bassa intensità, senza costruire mai, realmente, un'ipotesi di pace e non riconoscendo uguali diritti ai suoi cittadini.

Uno Stato che tra il 27 dicembre del 2008 e il 18 gennaio 2009 ha bombardato la Striscia di Gaza portando in soli 24 giorni alla morte di oltre 1.500 persone, utilizzando armi illegali secondo la Convenzione di Ginevra, come le cluster bombs ed il fosforo bianco.

Uno Stato che dal 2006 condanna gli abitanti della Striscia di Gaza ad un assedio e ad un embargo totali e permanenti, impedendo l’ingresso di materiali da costruzione come di altri moltissimi beni, anche di prima necessità.

Uno Stato che, attraverso una campagna mediatica scaltra e feroce, vorrebbe farsi scudo di uno dei maggiori scempi compiuti dall’umanità, l’olocausto nazifascista, per continuare impunemente a non rispondere dei suoi sistematici attacchi alla vita quotidiana del popolo palestinese e dei suoi progettati e sistematici atti di guerra e di distruzione della storia del popolo palestinese.

Per questo non tolleriamo che Milano diventi la passerella per un’operazione di propaganda tanto vergognosa quanto ipocrita!

Più di 70 risoluzioni delle Nazioni Unite in difesa dei Palestinesi, di condanna delle politiche di Israele sono state ignorate: Israele le ha tutte disattese, con l’appoggio determinante degli USA, l’inettitudine colpevole dell’Unione Europea e di tutti gli stati europei. In particolare l’Italia si è resa complice sottoscrivendo numerosi accordi di cooperazione economica, militare e scientifica con Israele.

Noi italiani ci vergogniamo del marcato servilismo dei nostri governi nei riguardi di Israele e chiediamo a chi governa la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano di cancellare un evento che lede l’immagine di una Milano medaglia d’oro alla Resistenza, che rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione.

E invitiamo tutte e tutti a partecipare alle iniziative che metteremo in campo durante quei dieci giorni, per dire NO alla guerra e a ogni regime oppressivo in qualsiasi forma si manifestino - che siano ad opera di “governi amici” o “pericolosi dittatori”- e ad ogni forma di razzismo o violazione dei diritti umani.

Comitato “No all’occupazione israeliana di Milano”

“RESTIAMO UMANI”

I firmatari

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4 settembre 2010

La Palestina non è in vendita!

La Rete della Comunità Palestinese negli Stati Uniti invita tutte le organizzazioni, le associazioni e i gruppi della comunità palestinese e araba, così come le organizzazioni di solidarietà e i singoli, a firmare la dichiarazione sotto riportata (qui il link in lingua araba) che boccia la ripresa dei negoziati diretti in corso, a partire da giovedì scorso, tra il Presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, negoziati condotti da un’Autorità palestinese priva di legittimazione popolare, negoziati che non hanno alcun senso mentre il popolo palestinese continua a soffrire del razzismo strutturale e delle violenze inflitte quotidianamente da Israele, negoziati che servono soltanto ad Israele per guadagnare tempo mentre continua l’espansione delle colonie e la sottrazione di terre e risorse naturali ai legittimi proprietari palestinesi.

Dichiarazione che condivido nella sua totalità.

Noi, le sottoscritte organizzazioni e singoli individui, dichiariamo il nostro impegno in favore della causa e del popolo palestinese - una terra, un popolo, una causa. Il nostro popolo, in Cisgiordania e a Gaza, sofferente ma determinato sotto assedio e sotto occupazione, il nostro popolo nella Palestina del 1948, che affronta il razzismo, la pulizia etnica e la repressione politica, e il nostro popolo nei campi profughi e nella diaspora in tutto il mondo, in lotta per tornare a casa e liberare la propria patria, meritano una leadership che difenda i loro diritti inalienabili, che riceva la sua legittimazione dal sostegno popolare, e sostenga la liberazione della sua terra e del suo popolo come il più alto obiettivo nazionale. Noi meritiamo una leadership che difenda i nostri diritti collettivi. Come tali, noi respingiamo i negoziati diretti in corso a Washington, DC dal 2 settembre 2010, che fanno da scudo ad Israele mentre continua il suo progetto coloniale e di apartheid. Condurre negoziati in queste attuali condizioni, senza la necessaria pressione ed alcun termine di riferimento, equivalgono a barattare le città palestinesi in contrasto con la difesa dei diritti collettivi e con quanto noi sosteniamo: la Palestina non è in vendita!

Questi negoziati diretti non sono mai stati utili agli interessi dei Palestinesi, che, secondo le condizioni del processo di pace, sono stati costretti ad una ulteriore repressione poliziesca del nostro stesso popolo, che già soffre sotto il giogo dell'occupazione, in cambio solo di un peggioramento delle condizioni.

In effetti, gli ultimi 17 anni degli accordi di Oslo hanno visto il continuo incarceramento per motivi di coscienza, l’espansione degli insediamenti, la pulizia etnica e il razzismo contro il nostro popolo, mentre le nostre istituzioni nazionali e il movimento di liberazione sono stati sistematicamente smantellati e sostituiti con una Autorità il cui obiettivo primario è quello di soddisfare le pretese dell’Occupante, in un tentativo donchisciottesco di creare uno stato senza sovranità. L'Autorità palestinese dovrebbe unirsi alle voci montanti e al crescente movimento che condanna l’intransigente rifiuto del diritto internazionale da parte di Netanyahu. Mentre il movimento di solidarietà internazionale con la Palestina è in costante crescita, mentre le notizie sull’isolamento internazionale di Israele, incluso il nascente movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, si moltiplicano ogni giorno, mentre la coscienza del mondo domanda giustizia, accertamento delle responsabilità e il perseguimento internazionale dei crimini di guerra israeliani, l'Autorità palestinese ha scelto invece di fornire una copertura all’occupazione israeliana e al suo intollerabile e spietato razzismo, abbandonando persino l’appiglio di un "congelamento degli insediamenti", e procedendo a negoziati diretti mentre l'occupante commette quotidianamente crimini contro il popolo palestinese.

Purtroppo, l'Autorità palestinese è essa stessa una creatura di questi negoziati. La stragrande maggioranza del popolo palestinese, in Palestina e in esilio, chiede il pieno riconoscimento dei propri diritti nazionali, in particolare il diritto dei rifugiati al ritorno alle loro case, terre e proprietà originarie. Quando l'Autorità palestinese negozia i nostri diritti inalienabili e li mette sul tavolo per essere sfregiati dall’occupante , dobbiamo essere uditi, in maniera forte e chiara, per dire che questa Autorità non rappresenta i Palestinesi e non le sarà consentito di vendere la nostra causa e il nostro popolo in nostro nome.

Come Palestinesi che vivono negli Stati Uniti, è anche chiaro che l'amministrazione Obama non ha nulla di nuovo da offrire al popolo palestinese. L'amministrazione americana continua ad occupare l'Iraq e l'Afghanistan e minaccia la regione con ulteriori guerre e occupazioni. Essa fornisce aiuti e mantiene rapporti commerciali con regimi arabi dispotici che, con il supporto degli Stati Uniti, possono permettersi di reprimere i diritti collettivi delle popolazioni arabe. Inoltre, essa fornisce annualmente miliardi di dollari in aiuti militari ed economici ad Israele, e un sostegno politico e diplomatico illimitato all'occupante, senza tener conto delle sue violazioni del diritto internazionale e della annunciata politica estera degli Stati Uniti. Noi non siamo convinti dalle "assicurazioni" degli Stati Uniti, quando le azioni del governo degli Stati Uniti ad oggi non hanno assicurato altro al popolo palestinese che una continua occupazione e l'impunità per i crimini di guerra israeliani.

Oggi, affermiamo, questi negoziati diretti rappresentano solo una minaccia per la nostra gente. Come Palestinesi che vivono negli Stati Uniti, non troviamo alcuna voce che possa essere ascoltata in questa sede - non l'amministrazione Usa e non l'Autorità palestinese - che rappresenti la nostra gente, i nostri diritti, i nostri sogni e la nostra causa. Questi negoziati sono una farsa e sono destinati al fallimento - ma peggio di ciò, sono una copertura per i crimini in corso. Essi abbandonano ogni e qualsiasi pretesa di legittimità internazionale, facendo affidamento sulla benevolenza dell’alleanza Usa/Israele, e mettono in vendita i nostri diritti fondamentali - in particolare il diritto al ritorno. Non permetteremo che questo accada. L'Autorità palestinese e Mahmoud Abbas non ci rappresentano, e questi negoziati sono illegittimi e inaccettabili.

Piuttosto, noi chiediamo il sostegno internazionale per il nostro popolo, non un "processo di pace" che perpetua la nostra espropriazione e il nostro allontanamento e fornisce una copertura per l'occupante. L’isolamento internazionale di Israele, le campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, il perseguimento internazionale dei criminali di guerra israeliani sono necessari, in quanto costituiscono un chiaro sostegno per i nostri diritti, compreso il diritto di resistere all'occupazione, il diritto alla autodeterminazione e il diritto al ritorno in patria - la chiave della nostra causa. Come è accaduto con tutti i regimi ingiusti e illegittimi che hanno agito per liquidare la causa palestinese, questi negoziati e l'Autorità che vi addiviene falliranno a fronte dell’impegno risoluto per la giustizia. Le nostre voci devono essere udite adesso per garantire che questo avvenga.

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1 ottobre 2008

Incontro: essere cristiani in Terra Santa.

ESSERE CRISTIANI IN TERRA SANTA
affrontare l'occupazione, riscattare la speranza
Venerdì 10 ottobre 2008, ore 20,45
Istituto Missioni Consolata, Via Cialdini, 4 - TORINO

INTERVENGONO
don Nandino Capovilla, Referente di Pax Christi per la Palestina
Gianluca Solera, Coordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture
p. Ugo Pozzoli, Direttore di Missioni Consolata
Filippo Fortunato Pilato, Direttore di http://www.jerusalem-holy-land.org/ (http://www.terrasantalibera.org/)

MODERATRICE
Angela Lano, Direttrice di Infopal.it

Durante l’incontro verranno presentati i libri
BOCCHESCUCITE, di N. Capovilla e B. Tusset, Paoline
VOCE CHE GRIDA NEL DESERTO, di Michel Sabbah, Paoline
MURI, LACRIME E ZA’TAR, di Gianluca Solera, Nuovadimensione

Info: http://www.infopal.it/ - redazione@infopal.it - tel. 011.19838359

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2 settembre 2008

L'ennesima "generosa" offerta di Israele.

Ormai alla vigilia delle sue annunciate dimissioni, il primo ministro israeliano Ehud Olmert sta compiendo ogni sforzo possibile per convincere il presidente palestinese Abbas a concludere quell’accordo, ormai noto come “shelf agreement”, che dovrebbe prefigurare i principi generali della pace tra Israeliani e Palestinesi e dei rapporti tra Israele e il futuro stato palestinese.

Olmert, che deve anche far fronte al “fuoco amico” della Livni e di Ehud Barak, per vari motivi contrari a questo accordo dell’ultimo minuto, non ha più il tempo, naturalmente, per ulteriori negoziati che portino ad un accordo più dettagliato; il problema, tuttavia, è che non solo alcuni punti che resterebbero al di fuori dell’accordo sono tutt’altro che “dettagli” marginali, ma che persino le proposte rese esplicite risultano difficilmente accettabili per la controparte palestinese.

Ma cosa prevedono, in particolare per quanto riguarda i confini, le proposte israeliane?

Israele terrebbe per se circa il 7% della West Bank, dando in cambio ai Palestinesi una estensione di territori vicini alla Striscia di Gaza equivalenti a circa il 5,5% della Cisgiordania medesima; verrebbe altresì assicurato il passaggio, senza alcuna restrizione, da Gaza alla Cisgiordania e viceversa, e gli Israeliani intendono tale libertà di movimento come compensazione ai Palestinesi per l’1,5% di differenza (e ciò sia pure mantenendo il controllo del territorio su cui si concretizzerebbe detto “passaggio”).

Dunque la terra che Israele vorrebbe annettersi ricomprende i maggiori blocchi di insediamenti colonici (Ma’aleh Adumim, Gush Etzion, le colonie intorno a Gerusalemme) e il confine correrebbe lungo il perimetro del muro di “sicurezza”: con il che si dimostra – ancora una volta e come se ce ne fosse bisogno – che l’intento del muro non era affatto la “sicurezza” ma la sottrazione dei territori ai legittimi proprietari palestinesi.

Il che è anche comprensibile dal punto di vista ebraico (dopo tutti quei bei soldini spesi per costruire il muro…), ma il problema è che queste terre rappresentano circa l’80% delle risorse idriche cisgiordane, in cambio delle quali i Palestinesi riceverebbero una porzione desolata di deserto del Negev adiacente alla Striscia di Gaza: di tutta evidenza, non si tratta certo di uno scambio vantaggioso per i Palestinesi!

Questo senza considerare che, nel contesto dell’accordo, Israele manterrebbe il controllo di ampie estensioni del territorio palestinese tra cui, in particolare, la Valle del Giordano, considerata una necessaria zona “cuscinetto” per prevenire eventuali attacchi arabi (torna ancora la scusa della sicurezza…); già da tempo, peraltro, gli Israeliani hanno totale libertà di accesso e di movimento nella regione, mentre i Palestinesi sono soggetti a infinite restrizioni, ivi inclusa quella di potersi fare un bagno nelle acque del Mar Morto, così, giusto per non infastidire gli ebrei in vacanza.

Ma l’aspetto francamente più incredibile e sconcertante della “generosa” proposta di Israele consiste nelle fasi di implementazione del piano di pace: Israele riceverebbe subito i blocchi di insediamenti – all’interno dei quali sarebbe pienamente libero di costruire nuove unità abitative – mentre la rimozione dei coloni a est del muro, il trasferimento delle terre ai Palestinesi e la creazione di un passaggio libero tra la Striscia di Gaza e la West Bank avverrebbero soltanto in un secondo momento, e precisamente solo dopo che l’Anp abbia compiuto una serie di riforme interne, abbia dimostrato di saper mantenere l’ordine e la sicurezza, abbia ripreso il controllo della Striscia di Gaza.

Davvero una trovata geniale, quella di Olmert: Israele otterrebbe subito la legittimazione delle colonie e della sua (peraltro mai interrotta) attività di costruzione di nuove abitazioni destinate ai settlers, ricevendo nel contempo l’entusiastico plauso della comunità internazionale, mentre i Palestinesi vedrebbero rinviata la costituzione del proprio Stato e la compensazione per le aree cedute a data da destinarsi. E questo, per chi negli anni ha visto quanti accordi menzogneri ha sottoscritto Israele, a cominciare dall’accordo AMA sull’accesso e movimento da e per Gaza, è francamente inaccettabile.

Last but nont least, si può marginalmente aggiungere che il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi viene sostanzialmente negato e, soprattutto, che non si parla per nulla della questione più sensibile – ovvero quella di Gerusalemme – e tutto questo rende la proposta israeliana assolutamente irricevibile, anche per l’accomodante duo Abbas-Fayyad.

E, difatti, essa è stata rispedita al mittente con le ovvie parole del negoziatore palestinese Saeb Erekat: o si raggiunge un accordo su tutte le questioni oppure non vi sarà alcun accordo.

Per dirla con le parole di un noto politico palestinese,
Mustafa Barghouti, “il piano che Olmert ha posto sui tavoli di negoziazione … è un tentativo di eludere, eliminandole, quattro questioni dello status definitivo: Gerusalemme ed i profughi, colonie ed annessione di vaste zone della Cisgiordania, posponendo tutto il resto fino a quando le realtà sul terreno non rendano parimenti superflua ogni richiesta palestinese. In breve, è un tentativo di trasformare ogni idea di uno Stato indipendente in cantoni isolati, amministrati da una autorità non sovrana, prigioniera in un regime di apartheid.

Una pace equa e duratura, chiaramente, è tutta un’altra cosa.

Su quanto fin qui detto, voglio riportare un articolo di Ran HaCohen, apparso il 27 agosto su antiwar.com e qui proposto nella traduzione di Paola Canarutto per il sito web degli
Ebrei Contro L’Occupazione.

Aggiungo solo che è ora che la comunità internazionale si desti dal suo torpore e da una colpevole inerzia per far sentire il suo peso, con l’equità di un honest broker che sia davvero tale, tenendo presente che la base per un piano di pace che contemperi le esigenze di entrambi le parti in conflitto non può che risiedere nello spirito e nella lettera della risoluzione Onu n.242 del 1967, giustamente richiamata in ogni documento successivo che abbia riguardato la materia.

Un eventuale accordo tra le parti che modifichi le condizioni poste da detta risoluzione, condotto al di fuori di un quadro di mediazione internazionale che contemperi e tuteli sia gli interessi palestinesi sia quelli israeliani, avrebbe peraltro una dubbia legittimazione giuridica, in quanto raggiunto tra due parti, una delle quali in condizioni di estrema soggezione e di palese inferiorità economica e militare.


Cambiar nome all’occupazione
Scritto da Ran HaCohen

Antiwar.com, 27 agosto 2008

Meron Benvenisti, in un eccellente articolo (1) menziona il “successo della campagna propagandistica nota come 'negoziati con i Palestinesi', che convince molti dell'idea che lo status quo sia temporaneo. È vero che non vi è miglior modo per descrivere le discussioni in atto fra i due politici che hanno i giorni contati – Ehud Olmert e Mahmoud Abbas - che come un passatempo orchestrato dall'amministrazione Bush. In passato, si supponeva che le conferenze di pace portassero ad un accordo di pace, che, a sua volta, avrebbe condotto alla pace; ora non si presume nemmeno tanto poco. Cosa ci si aspetta di ottenere dai negoziati è, nella migliore delle ipotesi, un accordo simbolico, da implementare, o no, in qualche momento vago del futuro. Nessuno crede che lo si possa raggiungere, come approvato, per la fine dell'anno – non che alcuno se ne curi, in realtà.

Ma lo spettacolo deve andare avanti. La scorsa settimana i giornali hanno annunciato un grande balzo in avanti: l'Israele di Olmert ha presentato una proposta dettagliata per lo status definitivo. In negoziati veri, si sarebbe potuto dire: “Ora sappiamo quel che vuole Israele”. Ma non è questo il caso, perché, come tutti sanno, il Primo Ministro Olmert non conta più. Allora, qual è il valore della proposta? Non sappiamo veramente quel che vuole Israele, ma almeno possiamo riconoscere quel che è disposta a dire.

Questo è un punto importante, nel discorso politico israeliano. Negli ultimi quindici anni, è stato un argomento centrale della controversa tra la sinistra sionista e quella radicale. Chiunque sia onesto deve ammettere che nulla è cambiato sul terreno, o per lo meno non per il meglio: l'occupazione, che si presupponeva avrebbe dovuto terminare sin dal 1993, è peggiorata per tutto il tempo, e le colonie illegali israeliane crescono come un tumore fatale. La sinistra radicale considera ciò come prova del fatto che Israele non nutre alcun proposito di far finire l'occupazione. La sinistra sionista, tuttavia, argomenta in modo diverso: “Ascolta come parlano”. É vero che la realtà di Cisgiordania e di Gaza è grave come non mai, ma, sostiene la sinistra sionista, ora in Israele persino la corrente maggioritaria parla apertamente di uno Stato palestinese, ed è inevitabile che le parole divengano fatti – se solo sosteniamo i buoni (Rabin, Peres, Barak etc., - persino Sharon, abbastanza saggio da unirsi al club), che continuano a consolidare l'occupazione, mentre sostengono di volerla terminare.

La nuova e generosa offerta
Vediamo allora quel che oggi l'Israele ufficiale è in grado di dire – non di fare. La proposta per lo status definitivo, secondo Ha'aretz (2), comprende i seguenti punti:
* Israele si ritira da circa il 93% della Cisgiordania, tenendo Ma'aleh Adumim, Gush Etzion, le colonie intorno a Gerusalemme, e alcuni terreni nel nord della Cisgiordania, adiacenti ad Israele: in tutto, il 7% del territorio cisgiordano.
* In cambio, i palestinesi riceverebbero terreni alternativi nel Negev, adiacenti alla Striscia di Gaza, equivalenti al 5,5% della Cisgiordania.
* Passaggio libero fra Gaza e la Cisgiordania, senza controlli di sicurezza.
* La proposta rifiuta un “diritto al ritorno” per i profughi palestinesi, ma include una “formula complessa e dettagliata” per risolvere il problema. (Non sono forniti dettagli).
* Olmert ha concordato con Abbas di posporre i negoziati su Gerusalemme.

Ora, questo non suona affatto molto attraente, neppure come “accordo simbolico”. Gerusalemme è un punto chiave di cui non ci si è occupati affatto. Inoltre, come spiega Ha'aretz, “la proposta di Olmert per uno scambio di territori introduce un nuovo stadio nel patto: Israele riceverebbe immediatamente i blocchi di colonie, ma i terreni da trasferire ai palestinesi, ed il passaggio libero fra Gaza e la Cisgiordania sarebbero consegnati dopo che l'AP abbia ripreso il controllo della Striscia di Gaza” (marcatura mia). Le possibilità che l'AP riprenda il controllo della Striscia di Gaza sono forse ancora più basse di quelle che Hamas prenda il controllo della Cisgiordania, ma, per Israele, questo rende la proposta ancora più invitante: prendiamo le merci ora, ma pagheremo solo dopo l'arrivo del Messia.

Ha'aretz sceglie di includere un inevitabile punto propagandistico, in un rapporto peraltro ricco di informazioni: “Negli ultimi pochi mesi, Olmert ha approvato la costruzione di migliaia di appartamenti in questi blocchi di colonie, per la maggior parte intorno a Gerusalemme; alcuni dovrebbero servire agli sfollati volontari”. Come sempre, Israele infrange la legge internazionale e costruisce ancora più case nelle colonie illegali (3). Ma lo fa con un solo obiettivo in mente: la pace. È certo che il miglior modo di por termine all'occupazione è quello di costruire migliaia di nuove case israeliane in territorio occupato. Il costruirle è una (ulteriore) prova del profondo impegno di Israele per la pace.

Perché questo eterno pessimismo?
Ma comunque, si potrebbe argomentare, ma comunque. È chiaro che la proposta di Olmert non sarà mai implementata. Certo che è incompleta, dubbia, e chiaramente non generosa. Ma comunque: Israele è pronto a dichiarare apertamente il proprio impegno per l'idea di uno Stato palestinese sul 93 per cento della Cisgiordania, più un 5,5% di territori da scambiare. Non significa ammettere, finalmente, che l'occupazione ha i giorni contati? Quindi, persino un parlamentare del Likud, partito di destra, ha accusato il Kadima di portare avanti l’ottica della sinistra sionista: “Qualunque appartenente alla fazione del Meretz [di sinistra] avrebbe potuto firmare la proposta di Olmert”. Quale miglior prova della bontà di una proposta, se non gli attacchi della destra?

"Assetti securitari”
Non è proprio così. Come menzionato molto brevemente nel rapporto di Ha'aretz, “Israele ha anche presentato ai palestinesi un modello dettagliato di nuovi assetti securitari, in base alla proposta di accordo”. In un primo momento non è stato fornito alcun dettaglio. Perché sciupare la festa per la pace con piccole questioni tecniche? Il rapporto iniziale menzionava solo una richiesta che lo stato palestinese fosse smilitarizzato e senza un esercito – richiesta che i Palestinesi più o meno accettano. Ma, ovviamente, il giorno dopo si è riferito che i Palestinesi avevano rifiutato la proposta di Olmert in quanto “non seria” - in pieno accordo con il fraintendimento israeliano circa il cosiddetto “rifiuto palestinese”, dal 1947 a tutt’oggi.

Si è dovuto attendere un paio di settimane per scoprire il significato reale di quegli “assetti securitari”. Martedì, Ha'aretz ha riportato: “I Palestinesi si oppongono ad ogni presenza militare israeliana nel territorio di un loro futuro Stato”. Ancora una volta, quindi, quelle irragionevoli richieste palestinesi: perché devono insistere per uno stato indipendente, senza una presenza militare israeliana?! Sanno per certo che i soldati di Israele sono bei ragazzi diciottenni, che non compiono mai alcun male. Ma non finisce qui. Il rapporto afferma inoltre: “Per parte sua, ad Israele piacerebbe sovrintendere ai passaggi di frontiera, mantenere uno spiegamento limitato nella Valle del Giordano, continuare i sorvoli sul territorio palestinese, mantenere postazioni di allarme sulle creste montuose, e tenere unità per risposte di emergenza in aree palestinesi” (4)..

Ah, è questo quel che significa Israele, per “soluzione di due Stati”: uno “Stato” “palestinese” “indipendente” con supervisione israeliana ai passaggi di frontiera, pieno di soldati israeliani, jet israeliani, postazioni militari israeliane – e, naturalmente, il diritto di Israele di inviarvi ancora più soldati in “tempi di emergenza”. Per smascherarla, dovremmo proporre la reciprocità? Che pensare di un controllo palestinese sui passaggi di frontiera israeliani, una presenza militare palestinese lungo la costa mediterranea di Israele, una libertà per i jet palestinesi di volare sopra Tel Aviv e Dimona, postazioni militari palestinesi a Haifa e Ramat Yishai, unità palestinesi per una risposta di emergenza in aree israeliane? È ovvio: questi “patti di sicurezza” sono del tutto incompatibili con uno Stato sovrano ed indipendente.

La proposta israeliana, come evidenziano i suoi “assetti securitari”, dimostra ancora una volta che Israele non è un partner per la pace. Sul terreno, tutto quello a cui aspira è il tempo per espandere le colonie e strangolare la società palestinese, sperando che il “problema palestinese”, finisca per scomparire. Sul piano del discorso, tuttavia, va altrettanto male. Malgrado la falsa impressione contraria, coltivata dalla propria macchina propagandistica, Israele rifiuta chiaramente il concetto di uno Stato palestinese indipendente, che non sia un Bantustan sotto il proprio totale controllo. A chi si domanda perché il conflitto israeliano-palestinese resta irrisolto, ecco la semplice risposta: la soluzione dei due Stati, proposta dall'ONU 60 anni fa ed avallata dai palestinesi anni fa, è ancora inaccettabile alla leadership militare e politica israeliana.

1) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1013974.html
2) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1010663.html
3) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1015162.html
4) http://www.haaretz.com/hasen/spages/1014944.html

Testo inglese: http://antiwar.com/hacohen/
traduzione di Paola Canarutto

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