31 luglio 2013

I bambini nella prigione di Gaza




Gaza, bambini nella grande prigione a cielo aperto

Una ricerca dell'Unicef documenta gli incubi e i traumi profondi di una generazione che rischia di non avere un futuro.

di Luisa Betti

Mentre riprendono i negoziati israelo-palestinesi, la Striscia di Gaza continua a essere una prigione a cielo aperto: chiusa tra il mare, l'embargo di Israele e da giugno anche dall'Egitto. Una striscia di terra lunga 41 km e larga tra i 6 e i 12 km, dove vivono allo stremo un milione e 700 mila abitanti, di cui un terzo sotto la soglia di povertà. Un inferno dove circa la metà degli abitanti è minorenne e in cui rimane difficile pensare a un vero processo di pace senza domandarsi come le generazioni del futuro possano sostenere e costruire questa pace. Un pensiero che volge al peggio dopo il rapporto dell'Onu che ha accusato Israele di violenze sistematiche nei confronti dei minori detenuti, esprimendo «profonda preoccupazione circa i maltrattamenti e le torture ai bambini palestinesi arrestati».

Ma come crescono i bambini in un lembo di terra dove regna il terrore che tutto possa svanire insieme alla propria vita? Perché se è vero che un bambino può subire ferite profonde a seguito di esperienze violente, è anche vero che gli effetti invisibili di uno stato di pericolo costante durante la crescita possono essere indelebili. Lo stress emotivo della permanenza prolungata in un territorio che somiglia a una grande prigione, dove in ogni momento puoi essere colpito senza possibilità di fuga, può far sviluppare ai bambini problemi comportamentali che rendono difficoltoso, o impossibile, il recupero a una vita normale dal punto di vista psicologico, oltre che materiale. E quando i conflitti si protraggono nel tempo, come nel caso della Striscia di Gaza, i bambini possono sviluppare anche il desiderio di vendetta.

Dopo l'operazione «Piombo Fuso», che nel 2008-2009 ha provocato la morte di 1.380 palestinesi (tra cui 313 bambini), e a seguito dei bombardamenti nel novembre 2012 (con 174 morti, 1.399 feriti, 450 case distrutte e 105 scuole danneggiate nella Striscia), l'Unicef ha condotto uno studio per la valutazione dell'esposizione alla violenza nei conflitti in fase di crescita a Gaza, rendendo noto che il 97% dei minori presi in esame aveva visto corpi morti o feriti, e che il 47 % aveva assistito direttamente all'uccisione di persone. «Per i bambini un evento così mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia», dice Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori occupati.

Nei sintomi dell'esposizione al conflitto ci possono essere flashback, incubi, paura di uscire in pubblico e di stare soli. In particolare tra questi bambini sono stati osservati sintomi fisici come disturbi del sonno, digrigno dei denti, pianto ininterrotto, dolori corporei, alterazioni dell'appetito, anoressia, stordimento e stati confusionali; mentre tra i sintomi emotivi sono stati notati nervosismo eccessivo, rabbia, difficoltà di concentrazione, affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, a cui si aggiungono le dimensioni della paura come la paura della morte, della solitudine, di suoni forti. Conseguenze che ogni minore sottoposto allo stress da guerra può avere, anche se per Gaza il problema è differente.

Andrea Iacomini, portavoce Unicef Italia, dice che «a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire». Dopo le incursioni dell'anno scorso ci sono stati casi con bambini terrorizzati che non volevano dormire con le finestre chiuse, malgrado il freddo, per paura che un passaggio aereo mandasse in frantumi i vetri. Ma le conseguenze possono essere anche principi di sdoppiamento di personalità. «Il piccolo Udai - spiega Iacomini - ha detto agli operatori quello che ha visto prima di perdere la famiglia, in maniera priva di ogni emozione, raccontando che mentre era nella sua casa ha sentito un boato e ha visto dalla finestra una luce rossa e subito dopo la casa di fronte era sparita, riferendo di aver capito di aver perso i suoi vicini di casa; e poi ha detto di aver visto un nuovo lampo rosso ma senza boato, ritrovandosi tra le macerie di casa sua, ed è lì che ha compreso che la sua famiglia era stata colpita ma che lui era vivo. Un racconto che Udai ha fatto, mostrando una grave dissociazione da ciò stava descrivendo come se non fosse stato lui a viverla».

Dai disegni di questi bambini si può capire molto, perché anche se si tratta di disegni a tema libero fanno solo carri armati, aerei, bombe, sangue, pistole, mitragliatrici, morti: immagini di cui questi minori non riescono a liberarsi e che sanno di poter rivivere.

Nell'operazione «Piombo Fuso», la famiglia Olaiwa era in cucina e un proiettile d'artiglieria è entrato dalla finestra ferendo una delle figlie (Ghadir, 15 anni), decapitando la madre Amal (40), ammazzando sul colpo 4 dei suoi figli (Mo'tassem di 14 anni, Mo'men di 13, Lana di 9 e Isma'il di 7): un attacco a cui sono sopravvissuti il padre e il ragazzo di 16 anni che oltre ad aver riportato gravi ferite ha assistito alla mattanza dei suoi familiari. Mohammed Abu Eita (12 anni) ha visto colpire casa sua e ha visto morire sotto i suoi occhi il fratello Ahmed (16), la sorella Malak (2), il cuginetto Anwar (7), e ha visto il corpo della zia Zakia esplodere e le sue interiora sparse ovunque. Tahreer (18 anni), Ikram (15), Samar (13), Dina (8), Jawaher (4) sono le 5 sorelle che componevano la famiglia Balousha, e sono morte in seguito a una bomba lanciata a tre metri da casa loro: solo i fratelli di 17 e 11 anni sono sopravvissuti, ma hanno ancora negli occhi la loro famiglia sterminata. Eppure, in base all'articolo 38 della Convenzione sui diritti dell'infanzia ratificata da 193 nazioni, tra cui Israele, i Paesi firmatari devono prendere misure tali da assicurare protezione ai minori. L'avvocata Micòl Savia - rappresentante permanente dell'Associazione internazionale Giuristi democratici alle Nazioni Unite di Ginevra - spiega che «il diritto internazionale umanitario regola i conflitti in modo da limitarne gli effetti devastanti anche sui minori. I testi fondamentali sono le quattro Convenzioni di Ginevra adottate il 12 agosto del '49, e i successivi Protocolli Addizionali.

Durante i conflitti i bambini godono di tutte le protezioni generali previste dal diritto internazionale umanitario, e in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra, a cui si aggiunge anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell'Infanzia e il suo Protocollo Opzionale in vigore dal 12 febbraio 2002. Le violazioni di queste Convenzioni rappresentano un crimine di guerra in base all'articolo 8 dello Statuto di Roma sulla Corte Penale Internazionale, e possono essere perseguite da tutti i tribunali del mondo».

Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza. Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto «il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi». I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d'animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. E da questi bambini così feriti e vulnerabili che dipende l'instaurazione futura di una pace vera e duratura. Nena News

*Articolo pubblicato il 30 luglio 2013 dal quotidiano Il Manifesto


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20 ottobre 2012

Estelle sotto attacco - Gaza sotto assedio da anni - Mobilitiamoci!



Chiamata alla mobilitazione da parte di Marco Ramazzotti Stockel della 'Rete Ebrei contro l'Occupazione' rappresentante italiano a bordo di 'Estelle' Freedom Flotilla 3 al momento dell'arrembaggio da parte della marina militare israeliana.

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9 luglio 2010

Affrontare Israele a viso aperto in nome di Gaza.

La recente decisione del governo israeliano di allentare l’assedio alla Striscia di Gaza è valsa a far uscire Israele dalla difficile posizione in cui si era andata a cacciare dopo l’assalto alle navi della Freedom Flotilla e i nove pacifisti uccisi sulla Mavi Marmara.

Gli Usa, la Ue, il Quartetto (in persona del suo rappresentante Tony Blair) – che non aspettavano altro – hanno fatto a gara per congratularsi per questo importante passo “nella giusta direzione”, e Obama ha ricevuto il premier israeliano Netanyahu con grandi sorrisi e strette di mano.

I tre anni di punizione collettiva inflitti a un milione e mezzo di Palestinesi – un crimine di guerra che doveva essere internazionalmente sanzionato – i nove morti e i numerosi feriti della flottiglia umanitaria sembrano ormai caduti nel dimenticatoio.

Eppure, nella realtà, ben poco è cambiato, un modesto incremento di carichi che riescono a entrare nella Striscia e, udite udite, il fatto che ora i Palestinesi di Gaza possono finalmente ricevere il ketchup, la cioccolata, i giocattoli per bambini, pare ormai non più pericolosi per la sicurezza di Israele.

L’importazione di prodotti tessili, di margarina in formato industriale e di numerose altre materie prime che servirebbero a far ripartire l’industria e le manifatture è ancora vietata, nessun cenno è fatto riguardo alle esportazioni dalla Striscia, l’accesso delle persone da e per Gaza continua ad essere pressoché impossibile.

L’unica soluzione per restituire una parvenza di normalità alla vita nella Striscia di Gaza, come affermato dalla Croce Rossa Internazionale con un forte e inusuale appello e, in tempi più recenti, da Filippo Grandi dell’UNRWA, sarebbe quella dell’eliminazione totale del blocco, ma Israele da questo orecchio proprio non intende sentire.

Che fare allora?

L’alternativa è continuare a chiedere (vanamente, come l’esperienza di anni e anni ormai dimostra) l’intervento della comunità internazionale perché eserciti “pressioni” su Israele affinché si conformi al diritto internazionale e rispetti i diritti umani dei Palestinesi, ovvero organizzare nuove flottiglie di navi e sfidare a viso aperto Israele e il suo blocco criminale.

Come sostiene Rami G. Khouri nell’articolo che segue – pubblicato il 23 giugno sul libanese Daily Star e qui proposto nella traduzione di Medarabnews – “in tutte le lotte per la liberazione contro il colonialismo, l’oppressione o il razzismo, arriva un momento in cui la barriera della paura è infranta sotto lo sguardo di tutti … le navi che verranno lo chiariranno a tempo debito, perché esse non mettono in discussione l’esistenza o la sicurezza di Israele, ma soltanto la sua crudeltà nei confronti dei palestinesi”.

LA GRANDE SVOLTA DI GAZA
di Rami G. Khouri – 23.6.2010

La decisione israeliana di allentare l’assedio che da 3 anni soffoca Gaza sta ricevendo una tiepida accoglienza in molti ambienti, e incontrando profondo scetticismo in altri. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, ha fatto appello al mondo tramite il Quartetto affinché faccia pressione su Israele perché rimuova il blocco completamente, e nel frattempo gruppi libanesi e iraniani pianificano di inviare ulteriori navi di aiuti umanitari a Gaza per sfidare e infrangere il blocco israeliano.

Questi due approcci riflettono posizioni divergenti sulla questione più generale di come si reagisce al potere israeliano, e di cosa si può fare per cambiare la situazione quando il potere è esercitato in maniera ingiusta, brutale o illegale. Si negozia con Israele e si chiede alle potenze occidentali di esercitare pressioni su Tel Aviv affinché rispetti le leggi internazionali e la smetta di comportarsi in maniera criminale? O si fronteggia e si sfida Israele, col rischio di essere arrestati, feriti o uccisi?

Negli ultimi anni, l’esperienza del movimento Free Gaza, che ha inviato una mezza dozzina di spedizioni navali per consegnare aiuti umanitari agli abitanti di Gaza, suggerisce a molti che il confronto a viso aperto è la maniera più efficace per sfidare Israele e obbligarlo a cambiare le sue politiche. L’allentamento del blocco di Gaza è il quarto esempio di un cambiamento di politica da parte di Israele dopo aver subito pressioni. Gli altri tre casi sono stati il ritiro dal sud del Libano e da Gaza a fronte della resistenza guidata da Hezbollah e Hamas, e la parziale sospensione della costruzione di alcuni insediamenti lo scorso anno, per un periodo di 10 mesi, in risposta alle pressioni del governo americano.

Così adesso la domanda è: come reagiranno i popoli e gli stati del mondo arabo e dei territori limitrofi, come l’Iran e la Turchia, all’ultima lezione in cui Israele è stato sfidato con un’azione vigorosa, oltre che con deboli appelli?

Israele sta già avviando due nuove azioni aggressive che presto metteranno alla prova la tempra dei suoi amici e dei suoi nemici. Lo stato ebraico distruggerà diverse dozzine di abitazioni arabe palestinesi nell’occupata Gerusalemme Est per allestire una struttura turistica israeliana, e avvierà la costruzione di altre 600 case per i coloni sionisti nella zona di Gerusalemme.
L’interrogativo interessante oggi non è se Israele sta attuando seri cambiamenti nelle sue politiche o meno: non lo sta facendo. I suoi sono solo cambiamenti di facciata, per tenere a bada le pressioni esterne. I nuovi sviluppi veramente importanti sono la crescente presa di coscienza da parte araba e internazionale che gli eccessi criminali e disumani del sionismo – il colonialismo, le discriminazioni, le punizioni collettive, il razzismo, l’assedio e le privazioni, la strage in acque internazionali, le incarcerazioni di massa e altro – possono essere meglio affrontati se si utilizzano le stesse strategie che alla fine hanno sconfitto i due esempi principali di razzismo e ingiustizia dei tempi moderni: il movimento dei diritti civili che ha stroncato il razzismo ufficiale negli Stati Uniti, e il movimento contro l’Apartheid che ha obbligato il governo della minoranza bianca in Sudafrica ad accettare un sistema pienamente democratico.

Ho la sensazione che le navi del movimento Free Gaza che cercano di rompere l’assedio passeranno alla storia moderna come elementi cruciali nella lotta per la giustizia in Palestina, che aspira a creare condizioni che permettano agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani, e a tutti gli altri residenti o visitatori, di vivere in questa terra con eguali diritti. Israele è assolutamente deciso a continuare ad attaccare i convogli di aiuti e ad uccidere attivisti umanitari innocenti. Ma cosa succederà quando la prossima nave salperà con un gruppo di sacerdoti cristiani, che reciteranno versi che inneggiano all’amore di Dio per la giustizia e il perdono, ed al comandamento divino di assistere i bisognosi, tratti dal Libro di Isaia e dal Libro di Giovanni?

Cosa farà Israele quando un convoglio di navi farà rotta per Gaza trasportando solo maestri di scuola e sacchi di caramelle per i bambini di Gaza? E quando un convoglio di navi si avvicinerà alla costa trasportando solo infermiere e pannolini per i bambini di Gaza?

C’è stata una svolta importante a Gaza, poiché si è capovolto il rapporto tra colonizzatore e colonizzato. Quando il colonizzato non ha più paura che gli venga fatto del male, o di essere ucciso, il potere di intimidazione proprio del colonizzatore svanisce. I libanesi e gli iraniani lo capiscono perché a loro modo molti di loro hanno già vissuto episodi di liberazione che riflettono la loro volontà di farsi valere per vivere in libertà e dignità. I palestinesi hanno provato a farlo per decenni con scarso successo.

In tutte le lotte per la liberazione contro il colonialismo, l’oppressione o il razzismo, arriva un momento in cui la barriera della paura è infranta sotto lo sguardo di tutti. In definitiva, ciò impone una rinegoziazione della distribuzione del potere in modo tale che si ristabiliscano i diritti umani, la sicurezza collettiva e la dignità di tutti gli interessati. Ebrei, cristiani e musulmani potranno certamente ricordare il momento in cui è stato sfidato e quello in cui crollerà l’assedio israeliano di Gaza come momenti fondamentali nella lotta tra sionismo e arabismo in Palestina.

Le navi che verranno lo chiariranno a tempo debito, perché esse non mettono in discussione l’esistenza o la sicurezza di Israele, ma soltanto la sua crudeltà nei confronti dei palestinesi.

Rami G. Khouri è un analista politico di origine giordano-palestinese e di nazionalità americana; è direttore dell’Issam Fares Institute of Public Policy and International Affairs presso l’American University di Beirut, ed è direttore del quotidiano libanese “Daily Star”

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10 giugno 2010

La violenza senza più limiti si ritorcerà contro Israele?

Nonostante ogni sforzo contrario della propaganda israeliana, tutto il mondo ha ben compreso come l’assalto alle navi della Freedom Flotilla sia stato un crimine brutale e assolutamente ingiustificato.

I fatti sono noti. La notte del 31 maggio, le navi della flottiglia – che erano state accuratamente ispezionate prima della partenza per controllare che non recassero armi – vengono intercettate da una forza navale israeliana che le abborda e, su una di esse (la Mavi Marmara) provoca un orrendo massacro: almeno 9 passeggeri uccisi e 45 feriti, alcuni in modo grave, mentre alcuni soldati israeliani vengono feriti così gravemente da poter ricevere in ospedale, nei giorni successivi, una imponente schiera di politici israeliani venuti a porgere entusiastiche congratulazioni.

Fin da subito il governo israeliano ha sostenuto che i propri soldati avevano agito per “legittima difesa”, in quanto attaccati da alcuni passeggeri della Mavi Marmara e, a sostegno della loro tesi, hanno immesso sul web un breve filmato dell’esercito. Evitando di sottolineare, naturalmente, che tutto il materiale fotografico e video degli attivisti della Freedom Flotilla era stato invece sequestrato per impedirne la diffusione.

La verità dei fatti sarà acclarata da una auspicabile inchiesta internazionale e, tuttavia, senza bisogno di indagini, possiamo domandarci che senso abbia invocare una presunta “autodifesa” quando si mandano ad assaltare una nave umanitaria gli assassini d’elité della Shayetet 13, una unità con compiti di contro-terrorismo, raid, sabotaggi e financo di eliminazione di elementi terroristici!

L’assalto israeliano – diversamente da quanto avverrà successivamente con la Rachel Corrie – è avvenuto in piena notte e in acque internazionali, un attacco armato che rappresenta un vero e proprio atto di pirateria. Per abbordare la nave turca gli Israeliani hanno utilizzato imbarcazioni ed elicotteri, lacrimogeni e bombe assordanti. Gli uomini del commando israeliano, peraltro, erano equipaggiati anche con armi automatiche caricate con proiettili veri, e ben presto hanno cominciato a sparare sui passeggeri della nave, uccidendo e ferendo indiscriminatamente, mentre le “armi” degli attivisti erano rappresentate da bastoni, fionde e alcuni coltelli.

Almeno cinque delle nove vittime fin’ora accertate, inoltre, sono state ripetutamente colpite alla schiena o dietro la testa, con colpi sparati a bruciapelo, il che fa pensare non tanto ad una “autodifesa” quanto ad una barbara esecuzione in puro stile SS. E, ancora, sulle altre navi – dove non c’è stata alcuna resistenza – gli attivisti hanno subito maltrattamenti ed umiliazioni ad opera dei valorosi soldati israeliani.

Perché questa violenza, perché questi morti? Noi non vogliamo sostenere, come qualcuno, che “ammazzare civili è ciò su cui Israele è nata … ed è ciò su cui sopravvive”, e, tuttavia, appaiono ben chiare due circostanze:

1) L’attacco alla Freedom Flotilla aveva uno scopo dissuasivo, in quanto Israele voleva assolutamente evitare che altre imbarcazioni in futuro tentassero nuovamente di far rotta verso Gaza;

2) Le modalità dell’abbordaggio della Mavi Marmara e la scelta di inviare i commandos della Shayetet 13 fanno capire che, a tale scopo, Israele era disposto – anzi predisposto – ad usare la violenza, fino a giungere all’assassinio a sangue freddo.

Perché il punto è proprio questo, Israele è talmente convinto di essere nel giusto e così determinato nel continuare a perseguire una linea politica ormai ritenuta insostenibile persino da Obama (l’assedio criminale contro i Palestinesi della Striscia di Gaza) da essere disposto a ricorrere al crimine e alla violenza indiscriminata, persino contro una nave carica di aiuti umanitari e contro degli attivisti che, con tutta la buona volontà, non possono essere certo paragonati a dei “pericolosi terroristi”.

E’ l’assalto sanguinoso alla Mavi Marmara non è certo un caso isolato, perché è ormai prassi per Israele affrontare ogni sorta di manifestazione non violenta contro l’occupazione dei Territori palestinesi e l’assedio a Gaza facendo ricorso alla violenza gratuita, al ferimento e all’uccisione di civili assolutamente inermi. E’ questo l’argomento dell’articolo che segue, scritto il 1° giugno da Nadia Hijab per il sito web di Agence Global e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.

Qui voglio solo aggiungere una considerazione. L’articolo della Hijab si chiude sostenendo che “Israele ha due sole alternative: rappacificarsi con la giustizia e l’uguaglianza o subire un crescente e gravoso isolamento”.

E, tuttavia, l’isolamento di Israele dovrebbe discendere da una azione determinata dei governi occidentali, volta a ridurre il governo israeliano alla ragione e a costringerlo a raggiungere un equo accordo di pace con i Palestinesi, tutto il contrario di quanto avviene nella realtà.

Anche se ora, finalmente, persino il Presidente Obama sostiene che il blocco di Gaza è “insostenibile”, chi se non gli Stati Uniti ha contribuito di fatto al mantenimento in questi anni del blocco della Striscia di Gaza, dando persino un contributo determinante in finanziamenti e know-how alla costruzione del muro sotterraneo al confine tra Gaza e l’Egitto?

Persino adesso le generiche parole di condanna di Usa e Ue per l’aggressione alle navi della Freedom Flotilla non si accompagnano ad una azione efficace volta a premere su Israele perché revochi l’embargo di Gaza e intavoli serie trattative di pace con i Palestinesi. Condannare Israele solo a parole (e mica sempre!) e lasciare di fatto che continui le sue pratiche criminali non fa altro che convincere il governo israeliano della bontà delle sue strategie.

E, invece, Israele deve essere finalmente chiamato a rispondere delle sue azioni e a pagare per i suoi crimini. Solo così il processo di pace in medio oriente potrà cominciare a muovere qualche passo in avanti.

Comprendere il dilemma di Israele.
di Nadia Hijab – 1 giugno 2010

Israele è in difficoltà. Per decenni, ha fatto ricorso alla stessa strategia per raggiungere i suoi obiettivi e sbaragliare tutti gli avversari: una forza schiacciante. Quando risponde alla violenza con la violenza – anche quando fa uso di una forza sproporzionata, come fece a Beirut nel 1982 e nel 2006, e a Gaza nel 2008 – Israele invoca il diritto all’autodifesa e di solito riesce a cambiare la versione dei fatti a proprio vantaggio. E, dato che finora non è stata chiamata a rendere conto delle sue azioni in alcun modo significativo, ha ritenuto che non vi fosse alcuna ragione per cambiare la sua strategia.

Ma quando risponde alla nonviolenza con la violenza, questa strategia le si ritorce contro. Israele sta adottando la linea dell’autodifesa per cercare di proteggersi dalle critiche al suo attacco contro la Flottiglia della Libertà, che stava trasportando aiuti umanitari a Gaza – ma non sta funzionando.

Non si può reclamare il diritto all’autodifesa quando si decide di inviare circa un migliaio di soldati bene armati per assaltare navi in acque internazionali – imbarcazioni che erano state attentamente perquisite prima che si mettessero in viaggio per accertarsi che non vi fossero armi. O quando si uccidono forse una ventina di civili e se ne feriscono 54, senza aver subito alcuna perdita tra i propri uomini. Se la situazione non fosse così tragica, il modo in cui Israele sta cambiando la versione dei fatti potrebbe essere del buon materiale per una commedia.

L’evidente repressione di attivisti pacifici solitamente ha un potente effetto sull’opinione pubblica mondiale, e questa volta essa ha spinto i governi a prendere provvedimenti affinché Israele si assumesse le proprie responsabilità, come nessuna forza armata era riuscita a fare. E’ forse questo il contributo più importante che quei coraggiosi attivisti hanno dato alla battaglia palestinese per la giustizia.

E le cose continueranno a peggiorare per Israele, perché Israele sa usare solamente la forza per cercare di ottenere quel che vuole. Per ironia della sorte, l’uso eccessivo della forza da parte di Tel Aviv ha a sua volta fatto in modo che ricorrere alla forza avesse un prezzo talmente alto, per quanti prediligono la resistenza armata, da lasciare campo libero a coloro che credono sia più efficace ricorrere alla resistenza civile contro una forza armata nettamente superiore. Bisognerebbe ricordare che la resistenza civile palestinese non è affatto una novità sebbene sia stata “scoperta” solo recentemente dai media di grande diffusione.

La prima rivolta palestinese (Intifada) del 1987-1991 fu quasi del tutto nonviolenta e si impose alla coscienza mondiale, fornendo potenti argomenti a favore dei diritti dei palestinesi. Sfortunatamente, la leadership palestinese non seppe tradurre la forza da essa generata in benefici diplomatici. Ma quella rivolta fu solo un esempio di una serie di importanti azioni di resistenza civile che durano da più di un secolo.

Oggi, azioni di resistenza pacifica sono in corso in tutta Israele, nei territori palestinesi occupati, e nel resto del mondo. E un’ulteriore conseguenza del massacro che Israele ha compiuto ai danni della Flottiglia della Libertà è che tale episodio attirerà inesorabilmente l’attenzione sulle tattiche violente a cui Israele ricorre per opporsi a queste azioni nonviolente.

Per esempio molti palestinesi, e i loro sostenitori internazionali, hanno perso la loro vita o sono stati feriti nel corso di proteste contro il Muro illegale che Israele sta costruendo nei territori occupati a partire dal 2002. L’ultima vittima risale a lunedì 31 maggio: la ventunenne Emily Henochowicz, studentessa alla Cooper Union di New York, è stata colpita all’occhio da un candelotto di gas lacrimogeno che le forze armate di Israele sparano abitualmente contro i dimostranti disarmati. La ragazza, insieme a un gruppo di palestinesi e ad altre persone di diverse nazionalità, stava manifestando nella Cisgiordania occupata contro l’attacco di Israele alla Flottiglia. Nell’aprile del 2009 un candelotto di gas lacrimogeno uccise un pacifista anti-muro, Bassem Abu Rahme, mentre protestava contro l’espropriazione del 60% della terra del suo villaggio, Bil’in, avvenuta per permettere la costruzione del Muro e delle colonie – poche settimane prima era rimasto gravemente ferito il cittadino americano Tristan Anderson.

La reputazione internazionale di Israele è poi ulteriormente intaccata dalla violenza di cui fa uso contro i suoi stessi cittadini palestinesi, mentre portano avanti la loro battaglia nonviolenta per l’eguaglianza; l’ultimo esempio è il draconiano arresto dei leader della comunità palestinese Ameer Makhoul e Omar Saeed. Dopo averli tenuti entrambi in carcere per settimane senza che potessero usufruire del diritto ad un consulto legale, e sottoponendoli a torture come posizioni forzate e privazione del sonno, adesso Israele sostiene di avere, grazie alle “confessioni” dei due uomini, le prove di collaborazionismo coi nemici di Israele – confessioni che essi hanno poi ritrattato poiché ottenute sotto coercizione.

La parola di Israele contro quella di Ameer Makhoul? Quando dovrà giudicare la parola di uno stato noto per il proprio uso indiscriminato della forza e del terrore, e quella di un importante leader della società civile, il monda saprà a quale credere.

Il vero dilemma di Israele è che tutta la forza che esercita mira a raggiungere l’irraggiungibile: mantenere il possesso dei territori occupati nel 1967, illegalmente dal punto di vista del diritto internazionale; privilegiare gli ebrei rispetto ai non-ebrei all’interno di Israele, in violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle convenzioni internazionali; e negare ai profughi palestinesi il loro diritto al ritorno. Israele ha solo due alternative: rappacificarsi con la giustizia e l’uguaglianza, o subire un crescente e gravoso isolamento.

Nadia Hijab è un’analista indipendente; è Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, con sede a Washington

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4 marzo 2008

Mettete nel programma la fine dell'assedio a Gaza.

Ci rivolgiamo a voi, candidati nelle prossime elezioni politiche, per invitarvi a mettere all'ordine del giorno dei vostri programmi iniziative urgenti per la fine dell'assedio di Gaza, imposto da Israele, dopo averla dichiarata «entità ostile». La sua popolazione subisce da mesi una pesante punizione collettiva, in violazione della legalità internazionale e dei diritti umani di tutte e tutti.
Vi chiediamo di esprimervi contro una politica che penalizza duramente un'intera popolazione di un milione e mezzo di persone, per le azioni e decisioni di una piccola minoranza.
Vi chiediamo di agire nei confronti della Unione Europea. È tra i maggiori donatori a favore della popolazione palestinese, ma non svolge alcun ruolo politico e rimane sorda anche alle due risoluzioni del Parlamento Europeo che si esprimono nettamente per la fine dell'assedio, dichiarando fallimentare la politica finora perseguita.
Dopo otto mesi di rigide restrizioni nelle forniture di energia, elettricità, acqua, l'intera popolazione di Gaza è allo stremo. Le persone più deboli, bambini, malati, anziani, sono a rischio di sopravvivenza, dato il deterioramento dei servizi medici. L'industria privata è al collasso. La qualità dell'acqua non fa che peggiorare e ne diminuisce sempre più la quantità. Ogni giorno 40 milioni di litri di acque di scolo vengono pompate nel Mediterraneo, per il deterioramento del sistema fognario.
Ci richiamiamo alle parole del rappresentante delle Nazioni Unite, John Holmes, vicesegretario generale per gli affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza, che, dopo una visita di cinque giorni nei territori palestinesi occupati e a Gaza, ha fatto appello all'apertura dei valichi di Gaza, per l'entrata di aiuti umanitari e ripresa dell'import-export di merci. Condanniamo i lanci di razzi «Qassam» in Israele, da parte di gruppi armati di Hamas ed altre forze estremiste.
I razzi fanno vivere la popolazione di Sderot nella paura e creano un clima sempre più ostile ai palestinesi. Anch'essi sono contrari alla legalità internazionale, come i bombardamenti sulla popolazione civile palestinese e gli assassini «mirati» dell'esercito israeliano. Ma chiediamo anche a voi di considerare ciò che ci ha detto una pacifista israeliana: «i bambini di Sderot non saranno più sicuri se quelli di Gaza muoiono di fame!».
Vi chiediamo di attivarvi per un «cessate il fuoco» generalizzato e per la fine dell'assedio. La popolazione di Gaza, imprigionata, affamata e isolata dal resto del mondo, rappresenta nel modo più chiaro e estremo la tragedia palestinese, «questione morale n.1 del mondo», come dice Nelson Mandela.
Gaza è l'emblema di un popolo a cui vengono negati i diritti elementari e i diritti nazionali aumentando la loro disperazione e senso di umiliazione, non rafforzando le forze democratiche, ma quelle estremiste di entrambe le parti. Questo è anche il messaggio lanciato da Palestinesi di tutte le professioni, per una campagna internazionale per la fine dell'assedio di Gaza, sostenuta anche da molte forze israeliane.
La fine dell'assedio è condizione necessaria anche per una soluzione negoziata che porti ad una pace giusta e alla fine dell'occupazione. Vi chiediamo impegno e coerenza per il rispetto del diritto internazionale e della dignità umana, per la pace: li riteniamo obiettivi prioritari per chi si candida a governare l'Italia, e pilastri dell'agire di ogni eletto/a.
Le vostre risposte sono attese con ansia: anche da esse dipenderà una ripresa di fiducia nel valore della rappresentanza e quindi del voto di tante donne e uomini che si riconoscono in quei principi.
Primi firmatari:
Associazione per la Pace
Arci
Cgil
Donne in Nero
Fiom - CGIL
Pax Christi - campagna ponti non muri
Piattaforma ONG per il medioriente
Rete Ebrei Contro l'Occupazione
Rete Radié Resh Nazionale
Servizio Civile Internazionale
Un Ponte per..

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