25 gennaio 2006

I crimini di Israele e l'informazione negata.

Un italiano medio, che poniamo legga regolarmente un quotidiano ed ascolti ogni giorno uno o due telegiornali a diffusione nazionale, potrebbe essere portato a ritenere che, in questi giorni che precedono le elezioni palestinesi (25 gennaio), l’unico fatto di rilievo accaduto nella regione sia stato l’attentato di Tel Aviv del 19 gennaio.
Giovedì scorso, infatti, un palestinese 22enne originario di Nablus, appartenente alla Jihad islamica, si è fatto esplodere nei pressi della vecchia stazione degli autobus a Tel Aviv, provocando una trentina di feriti di cui, tuttavia, solo uno versa in gravi condizioni.
Come sempre accade in questi casi, tutti i quotidiani del mattino successivo hanno riportato con grande risalto la notizia, che già era stata ospitata il giorno prima nei servizi di apertura dei principali tg di prima serata.
Altrettanto naturalmente, a livello internazionale, vi è stata la corsa per dichiarare l’unanime sdegno e la condanna per l’ennesimo atto terroristico.
Così, il giorno stesso, il Segretario Onu Kofi Annan ha inviato le sue più profonde condoglianze al Governo e al popolo di Israele; così, sempre nella stessa giornata, il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan ha condannato “questo atroce attacco” nella maniera più forte, richiamando ancora una volta l’Anp al suo “dovere” di smantellare le infrastrutture del terrorismo.
Prima e dopo questa fatidica data del 19 gennaio, prima e dopo questo “atroce attacco”, il silenzio più assoluto: non è quindi accaduto nulla di importante? Non proprio.
La stessa sera del 19 gennaio, le forze di occupazione israeliane, posizionate vicino alla colonia di Tilim, a sud di Hebron (West Bank), hanno ucciso il 20enne Ziad Zohour, impedendo alle ambulanze di raggiungere il corpo del Palestinese (WAFA, 19 gennaio ore 21:07).
Sabato, 21 gennaio, soldati dell’Idf hanno aperto il fuoco contro tre Palestinesi che, dalla Striscia di Gaza, cercavano di entrare illegalmente in Israele per cercare lavoro, uccidendone uno e ferendo gli altri due (Ha’aretz, 22 gennaio); in un analogo “incidente”, il 2 dicembre del 2005, era morto il 15enne Sayid Abu Libdeh (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2005/12/attentato-suicida-netanya.html).
Domenica sera, 22 gennaio, un elicottero israeliano ha lanciato un missile contro un veicolo civile nei pressi del valico di Karni, a est di Gaza, uccidendo un Palestinese e ferendone altri sette; l’attacco era mirato a colpire alcuni esponenti delle Brigate Salah ed-Din (l’ala militare dei Comitati di resistenza popolare), e tuttavia l’unica vittima, l’incolpevole Mohammad Abdul-Al, non era affatto affiliato ad alcuna organizzazione della resistenza palestinese (IMEMC, 23 gennaio).
Lunedì sera, 23 gennaio, soldati israeliani dell’unità di fanteria Golani hanno aperto il fuoco contro un gruppo di ragazzini nel villaggio di Al Mogheer, vicino Ramallah (West Bank), uccidendo il 13enne Mundal Abu-Aliya e ferendo altri due minorenni, avendoli scambiati per dei militanti che volevano piazzare un ordigno esplosivo lungo la strada (Ha’aretz, 24 gennaio).
In accordo alle statistiche ricavabili dal sito web della Mezzaluna Rossa, dal 19 al 23 gennaio sono stati uccisi 5 Palestinesi e 14 sono rimasti feriti, portando il totale delle perdite palestinesi, dall’inizio della seconda Intifada, alla ragguardevole cifra di 3.787 morti e di 29.395 feriti (le analoghe cifre riguardanti gli Israeliani ammontano rispettivamente, alla data del 15 gennaio, a 1.084 e a 7.633).
Eppure di tutto questo, di questi ennesimi crimini perpetrati dall’esercito israeliano, nessun notiziario ha dato conto, nessun periodico della carta stampata ha riportato la notizia sia pure in un breve trafiletto, e non ho avuto il piacere di vedere Filippo Landi o Claudio Pagliara, con annessa faccia da lutto di circostanza, comparire in video per raccontare l’ennesimo assassinio di Palestinesi innocenti.
Né, in sede internazionale, si è potuta registrare una sola nota ufficiale di biasimo o di condanna, nessun invito rivolto ad Israele a tenere stretto il guinzaglio dei cani assassini di Tsahal (pardon, a evitare di recar danno alla popolazione civile palestinese).
Ma per registrare il fatto più grave dobbiamo fare un passo indietro e tornare ad una decina di giorni fa.
Domenica 15 gennaio, nel villaggio di Roujib, vicino Nablus (West Bank), il 21enne Fawazi Dwaikat verso le 2:30 del mattino era ancora in piedi, e stava di guardia alla propria casa e all’automobile, a causa della rivalità scoppiata tra la propria ed un’altra famiglia del villaggio, rivalità che aveva dato luogo ad alcuni incidenti e danneggiamenti.
All’improvviso, truppe israeliane della Brigata Shomron sono piombate nel villaggio e, visto il giovane affacciato alla finestra, hanno aperto il fuoco uccidendolo.
Nei successivi, terribili istanti, gli altri membri della famiglia sono accorsi per vedere cosa fosse successo e per soccorrere Fawazi, ma anch’essi sono rimasti vittime del fuoco assassino dei militari israeliani: la madre, la 47enne Nawal Dwaikat, è stata colpita a morte, il padre, il 52enne Munjed Fawaz Dwaikat, è stato ferito gravemente da quattro pallottole al torace, mentre altri tre fratelli e sorelle di Fawazi sono rimasti anch’essi seriamente colpiti (PCHR press release, 15 gennaio ore 10:30 – Ha’aretz, 15 gennaio).
Il colonnello Yuval Bazak, comandante della Brigata, ha dichiarato in seguito che i soldati israeliani avevano aperto il fuoco legittimamente, poiché erano stati fatti oggetto di colpi di fucile provenienti da tre differenti luoghi dell’edificio.
Versione assolutamente ridicola, per due motivi: il primo, perché la successiva perquisizione della casa ha fatto saltar fuori solo un fucile, e dunque, a meno che il povero Fawazi non avesse il dono dell’ubiquità, egli non poteva sparare contemporaneamente da tre stanze differenti; il secondo, assolutamente decisivo, è che Fawazi è stato assassinato in una stanza in cui la luce era accesa, ed è chiaro che chi cerca di tendere un agguato a qualcuno non sta certo in una stanza ben illuminata ed in vista.
Ma anche a voler dar credito alla versione israeliana, risulta comunque l’ennesima grave violazione delle norme di diritto umanitario, che impongono la salvaguardia della popolazione civile nel corso dei combattimenti, e non consentono certo di massacrare a piacimento intere famiglie.
A proposito, le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta sull’accaduto, affidandola proprio al colonnello Bazak: un’inchiesta su un assassinio affidata al capo degli assassini, fantastico!
Di tutto questo nessuna notizia, nessun resoconto dai media, nessuna presa di posizione dell’Onu, del Quartetto o di qualche Governo occidentale, il silenzio più totale, come se nulla fosse accaduto o si trattasse della banale quotidianità della vita nei Territori occupati, un fatto assolutamente “normale”.
Ma no che non è “normale”!
Non è “normale” che l’esercito israeliano compia quotidianamente razzie e incursioni all’interno dei Territori palestinesi, devastando e uccidendo impunemente.
Non è “normale” che, all’alba di una qualunque domenica, un’intera famiglia debba essere praticamente annientata, senza alcun motivo e alcuna colpa.
Non è “normale” che una povera madre Palestinese di 47 anni debba essere uccisa per aver tentato di soccorrere il proprio figlio, e debba giacere sul tavolo di un obitorio con il corpo crivellato da ben 15 (quindici!) pallottole.
Un tempo avevo fiducia nella coscienza civile del popolo israeliano, un tempo avrei pensato che crimini come questo avrebbero contribuito a risvegliare le coscienze, a imporre la punizione dei colpevoli, a promuovere lo stop dei raid assassini e il ritiro delle truppe di Tsahal dai Territori palestinesi.
Oggi, tuttavia, gli israeliani sono capaci di restare scioccati soltanto per la devastazione di qualche uliveto ad opera dei coloni, mentre, contemporaneamente, il legislatore della Knesset appronta provvedimenti legislativi che inibiscono i Palestinesi residenti nei Territori occupati dal poter citare in giudizio lo Stato israeliano per le uccisioni, i ferimenti e le devastazioni compiute dai soldati e dalle forze di sicurezza (Human Rights Watch, world report 2006).
Ma questa mia fiducia nella coscienza collettiva israeliana è morta già da tempo, con l’assoluzione dell’assassino della piccola Iman al-Hams.
Iman era una Palestinese di 13 anni che il 5 ottobre del 2004 stava andando a scuola a Rafah e che, lungo la strada, era stata ferita da colpi d’arma da fuoco provenienti da una postazione dell’unità di elité (!) Givati; mentre era a terra, il comandante dell’unità, il Capitano R., le si era avvicinato e l’aveva liquidata con un colpo alla nuca, per poi scaricarle nel colpo un totale di ben 17 pallottole: un atto atroce che forse neanche le Waffen ss in tempo di guerra avrebbero compiuto.
Il successivo processo – nel quale il Capitano R. era chiamato a rispondere di reati minori come l’uso illegale delle armi e l’ostacolo alla giustizia – ha mandato assolto l’assassino della povera Iman, che peraltro era già stato “assolto” dal Capo di Stato Maggiore israeliano Ya’alon, che non aveva trovato nulla di “immorale” nella condotta del valoroso soldato.
E di crimini come questo, dell’assassinio di Iman al-Hams e di Nawal Dwaikat come di quello di tanti altri Palestinesi inermi ed innocenti, il popolo israeliano porta su di sé la piena responsabilità morale e un giorno sarà chiamato a risponderne, non foss’altro che davanti al tribunale della Storia.
Secondo l’ong israeliana B’tselem, i Palestinesi uccisi dall’esercito israeliano nel corso del 2005 sono stati 197, di cui 54 minorenni; tra questi ben 124, al momento della morte, non partecipavano ad alcun combattimento: per quasi il 63% dei casi, dunque, si tratta di assassinii a sangue freddo, assolutamente barbari ed illegali.
La stessa percentuale, relativa al periodo 29.9.2000 – 31.12.2005, sale addirittura al 70%, laddove si consideri che dei 3.386 Palestinesi uccisi da Tsahal (676 minori di 18 anni), soltanto 1.008 sono stati uccisi in combattimento.
Secondo Human Rights Watch, le autorità israeliane hanno avviato indagini criminali solo per meno del 10% dei casi di uccisioni di civili palestinesi nei Territori, e soltanto in un caso si è avuta una condanna a otto anni di reclusione per una uccisione illegale, emessa a carico dell’assassino del pacifista … inglese Tom Hurndall, avvenuta a Gaza nel 2002: si può quasi considerarla un “riguardo” nei confronti dell’amico Blair!
Il vero è che Israele mantiene costante la sua politica di investigare sulle uccisioni di Palestinesi solo in presenza di “circostanze eccezionali”, circostanze che mai, tuttavia, né Tsahal né il Governo israeliano hanno inteso precisare: è chiaro che, in tal modo, si conferisce ai soldati dell’Idf una vera e propria licenza di uccidere, garantita dalla più totale impunità.
Parafrasando Massimo Fini (“Se la guerra va fuori dai ranghi” 18 gennaio), “se…la differenza fra guerriglia e terrorismo sta nel fatto che nella prima l’atto violento è diretto contro obiettivi militari mentre il secondo colpisce indiscriminatamente militari e civili”, allora possiamo senz’altro definire gli atti criminosi dell’esercito israeliano come espressione di un vero e proprio “terrorismo di Stato” (si veda anche, sul punto, http://palestinanews.blogspot.com/2005/08/assassini-puniti-no-promossi.html).
Con la differenza che il “terrorismo di Stato” israeliano è molto più letale e devastante del terrorismo kamikaze palestinese.
Con la differenza che, mentre Stati Uniti e Ue minacciano di interrompere gli aiuti economici all’Anp qualora Hamas assuma un ruolo attivo nel futuro Governo palestinese, nessuno si sogna lontanamente di interrompere l’imponente flusso finanziario americano che sostiene Israele, né di mettere in discussione i rapporti commerciali privilegiati attualmente in vigore.
Con la differenza che, mentre del terrorismo palestinese si parla sempre e con grande risalto, del “terrorismo di Stato” israeliano non viene mai fatto alcun cenno e viene negata ogni minima informazione.

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13 gennaio 2006

La propaganda dell'ulivo.

Gli israeliani, si sa, sono diventati dei veri maestri nella propaganda e nella manipolazione dei media (che, in verità, spesso sono ben disposti a farsi “manipolare”), ed in questa attività profondono notevoli sforzi e risorse finanziarie, ben consci del fatto che Israele non gode di una buona “immagine” presso l’opinione pubblica estera, soprattutto europea.
Qualche tempo addietro, sui canali tv israeliani, venne addirittura proposta una trasmissione, a metà tra “Un giorno in pretura” e il “Grande Fratello”, in cui alcuni giovani israeliani, uomini e donne, a turno dovevano perorare la causa del loro Paese di fronte ad una simulata giuria “ostile” composta da europei.
In questo quadro si inserisce la vicenda degli alberi di ulivo distrutti o danneggiati dai coloni israeliani, e della proposta di indennizzo in favore di Palestinesi, avanzata in Consiglio dei Ministri dal Procuratore Generale Menachem Mazuz.
Il problema è tristemente noto.
I coloni israeliani, sebbene siano illegalmente stabiliti su terra altrui, sono gente pacifica e industriosa ed hanno ottimi rapporti con i vicini Palestinesi, limitandosi saltuariamente a picchiarli, a devastarne la proprietà, solo in qualche caso ad assassinarli.
L’hobby preferito dai settlers, tuttavia, è quello di danneggiare le coltivazioni dei contadini palestinesi, soprattutto gli uliveti: soltanto nell’ultima settimana, nei villaggi di Tawara e Burin, sono stati sradicati o tranciati circa 170 alberi di ulivo, e lo stesso è accaduto a dicembre, sempre nel villaggio di Burin, per altri 240.
Secondo la polizia israeliana, nel corso del 2005 e solo nel West Bank, sono stati sradicati 733 alberi di ulivo; secondo, invece, una lista (ancora incompleta) di 29 “incidenti” di questo genere, redatta dai gruppi per i diritti umani Yesh Din, B’tselem e Rabbis for Human Rights, nell’anno appena trascorso almeno 2.750 alberi di ulivo sono stati vandalizzati in vari modi: la maggior parte sono stati sradicati o rubati, alcuni sono stati bruciati, altri ancora hanno ricevuto una “potatura” completa e sono rimasti lì, con i rami amputati, e prima di una decina d’anni non torneranno a dare gli stessi frutti di prima.
Si tratta di atti vili e barbari, che privano dei mezzi di sussistenza numerose famiglie di contadini palestinesi ed hanno come fine ultimo quello di convincerli a vendere la loro terra a prezzi ridicoli, costringendoli a trasferirsi altrove per poter vivere in tranquillità.
La quasi totalità di questi danneggiamenti da parte dei settlers israeliani è avvenuta nella cd. Area B, la quale è sotto il controllo di sicurezza dell’esercito e della polizia israeliani ed in cui, invece, le forze di sicurezza palestinesi hanno il divieto di operare.
Ebbene, in tutti questi casi – come del resto in tutti gli scontri in cui sono coinvolti i coloni – la polizia israeliana e i soldatini di Tsahal si sono sempre ben guardati dall’intervenire, spesso addirittura assistendo divertiti alle “prodezze” dei loro compatrioti.
E’ d’altronde un testimone assolutamente non imputabile di partigianeria – il Capo dello Shin Bet Yuval Diskin – ad aver recentemente affermato che “l’Idf e la polizia israeliana hanno chiuso gli occhi e non hanno mai fatto nulla per risolvere questo fenomeno” (“Shin Bet: Idf did nothing to stop settlers uprooting olive trees” Ha’aretz, 10.1.2006).
Improvvisamente, nella riunione del Consiglio dei Ministri dell’8 gennaio, il Procuratore Generale Menachem Mazuz si è scagliato contro i coloni autori di questi vandalismi ed ha proposto, nel contempo, di risarcire i contadini palestinesi che hanno subito danni alle loro coltivazioni.
Il Ministro della Difesa Mofaz, a sua volta, ha ricordato di aver già dato ordine di costituire un team investigativo per far luce sulla distruzione degli uliveti nel West Bank, e che al termine di tali indagini si potrà procedere a compensare i Palestinesi che hanno subito danneggiamenti, con rivalsa dello Stato nei confronti degli autori.
Questa è la notizia, pubblicata con i dovuti osanna anche sui maggiori quotidiani italiani: vi è un piccolo gruppo di coloni che danneggiano la proprietà dei Palestinesi, ma non vi preoccupate, i vandali saranno fermati e i contadini saranno risarciti, come è giusto che sia.
Ed è ancora una volta un giornalista israeliano – la splendida Amira Hass – a doverci ricordare che questi “risarcimenti” costituiscono, in realtà, solo una pura e semplice manovra di propaganda (“It’s not the olive trees” Ha’aretz, 11.1.2006).
L’esercito israeliano ha sradicato e distrutto migliaia di ulivi e alberi da frutto, terre coltivate e serre, e continua ancora oggi a farlo, per le superiori esigenze della “sicurezza” di Israele, per garantire la visibilità ai propri soldati, per costruire torri di osservazione e check-points, per erigere il muro, per costruire nuove “by-pass roads”, per assicurare nuove zone di rispetto a difesa degli insediamenti colonici (illegali).
Nel solo villaggio di Qafeen, ad esempio, sono stati abbattuti ben 12.600 alberi di ulivo per costruire il muro di “sicurezza”, e così è avvenuto e avverrà per molti altri villaggi.
Sempre a Qafeen, oltre 100.000 alberi sono circondati dal muro, e i proprietari, per gran parte dell’anno, non possono accedere alle loro terre, coltivarle e raccogliere i frutti, sempre per le superiori esigenze della “sicurezza” di Israele e dei suoi amati coloni.
La scorsa settimana l’esercito israeliano, per permettere la costruzione del muro di “sicurezza”, ha raso al suolo vaste terre coltivate nel villaggio di Sikka, a sud-ovest di Hebron e ha sradicato circa 400 alberi di ulivo (PCHR report n.1/2006).
Sempre nel territorio del Governatorato di Hebron, il 21 dicembre, l’Idf ha requisito oltre 23 ettari di terra per costruire una “barriera di sicurezza” lungo le Strade 60 e 317, e potrei continuare all’infinito.
Secondo B’tselem, a partire dagli anni ’70, Israele si è appropriata di decine di migliaia di ettari di terra palestinese, per motivi di sicurezza, per pubblica utilità, ma soprattutto attraverso il metodo di dichiararle “terre di Stato”; si tratta di un’assurda implementazione di una legge risalente all’impero ottomano (1858) che consente, tra l’altro, di dichiarare “terra di Stato” quei terreni di cui si fornisca la prova che non sono stati coltivati per almeno tre anni.
Chi risarcirà il popolo palestinese per la distruzione di decine di migliaia dei suoi alberi e per il continuo furto di migliaia di ettari di terre coltivate?
E questo è soltanto un aspetto dei “problemi” causati dall’occupazione militare israeliana.
Tornando per un attimo a quell’altro capolavoro di propaganda rappresentato dal ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, si può ricordare come l’esercito israeliano abbia unilateralmente e illegalmente istituito una “no-go zone”, un’area in cui i Palestinesi non possono entrare senza mettere a rischio la propria incolumità a causa delle incursioni aeree dell’aviazione israeliana; ebbene, secondo il rapporto dell’OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) che copre il periodo 21 dicembre /3 gennaio 2006, quest’area è vasta all’incirca 870 ettari ed è stata, di fatto, espropriata ai circa 5.000 Palestinesi che abitano ad al-Siafa e negli altri villaggi situati all’interno della stessa.
Secondo l’OCHA, nel periodo considerato, l’esercito israeliano ha sparato contro obbiettivi situati all’interno di quest’area e nel nord della Striscia più di 127 colpi di artiglieria e 23 missili aria-terra, danneggiando seriamente due ponti e 11 strade (tra cui la principale strada di accesso a Beit Hanoun) nonché vari edifici privati e governativi.
Chi risarcirà i Palestinesi per i danni causati dai raid e dai bombardamenti quotidiani dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza (e, incidentalmente, chi risarcirà i Paesi donatori che continuano a profondere sforzi finanziari non indifferenti per case e strutture che vengono regolarmente danneggiate o distrutte da Israele)?
Ancora, secondo il recente rapporto della Banca Mondiale sullo stato dell’economia palestinese (dicembre 2005), uno dei principali fattori di rischio per la ripresa è rappresentato dalla politica di chiusure e restrizioni al movimento di persone e beni portata avanti da Israele, con riferimento particolare alle restrizioni all’ingresso in Israele dei lavoratori palestinesi, al passaggio delle esportazioni palestinesi al confine con Israele ed ai controlli sui movimenti di persone e merci all’interno della Cisgiordania.
Ebbene, sotto il primo aspetto, il valico di Erez (Beit-Hanoun) - l’unica via di accesso per i Palestinesi della Striscia verso Israele e il West Bank – è rimasto chiuso a partire dal 16 Dicembre, e circa 5.360 lavoratori palestinesi, pur in possesso di permessi validi, non possono raggiungere i luoghi di lavoro.
Va ricordato come, ancora oggi, Israele si rifiuti di dare attuazione all’accordo sui movimenti e gli accessi da e per Gaza, stipulato il 15 novembre, che prevedeva – a partire dal 15 dicembre – che il trasferimento delle persone dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania e viceversa avvenisse a mezzo di convogli di autobus; per questo accordo si era spesa in prima persona il Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, eppure giusto ieri il Ministro della Difesa israeliano Mofaz ha ribadito all’inviato statunitense che Israele non si sogna neppure di tener fede alle intese raggiunte.
Ma anche per il passaggio delle merci da e per Gaza le cose non vanno molto meglio, perché il valico commerciale di Karni (al-Mentar) continua a lavorare molto al di sotto delle possibilità e, inoltre, anche questo valico è soggetto a chiusure improvvise da parte di Israele, come mezzo di pressione sulla già esausta economia palestinese.
E, infine, per quanto riguarda la libertà di trasferimento di persone e beni all’interno della Cisgiordania, basterà notare come oggi esistano 411 “ostacoli” di varia natura ai movimenti nel West Bank, di cui 59 sono costituiti dai check-points fissi (dati OCHA); ad essi vanno aggiunti i check-points “volanti”, ben 184 nel già ricordato periodo 21 dicembre/3 gennaio 2006.
Con quali risultati per l’economia, ma anche per i diritti umani dei Palestinesi della regione, è ben facile immaginare.
Giusto in questi giorni la Banca Mondiale ci ha ricordato che l’Autorità Palestinese rischia la bancarotta e che, molto probabilmente, non sarà in grado di pagare gli stipendi ai propri dipendenti: non potendo dare più la colpa ad Arafat e alla sua corruzione, a chi si rivolgerà adesso Israele, al destino cinico e baro?
E non avrebbe diritto il popolo palestinese ad essere risarcito per la devastazione delle proprie infrastrutture e della propria economia, causata da una pluridecennale, scellerata occupazione militare israeliana?
Questo per non parlare delle migliaia di Palestinesi, bambini, donne, anziani, assassinati da Israele pur se non erano assolutamente coinvolti in scontri o combattimenti (si tratta, stima B’tselem al 30 giugno 2005, del 54% del totale dei Palestinesi uccisi durante la seconda Intifada): non avrebbero diritto, anch’essi (o meglio, le loro famiglie) ad una qualche forma di risarcimento?
E dunque, alla fine, ha davvero ragione Amira Hass, il Governo israeliano cerca di tacitare la coscienza del Paese, che si dimostra scioccato dai vandalismi di una piccola minoranza della popolazione, ma sembra dimenticarsi delle responsabilità dell’intera collettività per la devastazione, la miseria e l’assassinio del popolo palestinese.
A prezzo di pochi sheckels, tuttavia, il Governo israeliano tenta anche di inventarsi l’ennesimo spot pubblicitario, l’ennesimo tentativo di accreditare all’estero l’immagine di un Paese civile e rispettoso del diritto.
Ma non ci casca più nessuno.

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5 gennaio 2006

Mattatoio Gaza.

In Israele il cielo deve essere ogni giorno più blu visto che l’aviazione israeliana, nel quadro dell’operazione denominata per l’appunto “blue skies”, ha compiuto lunedì l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria nella Striscia di Gaza, uccidendo tre Palestinesi e ferendone altri tre.
L’ennesimo crimine di guerra, aggiungiamo, dato che, ancora una volta, Israele non si preoccupa minimamente dell’incolumità dei civili che possono essere coinvolti nelle sue gesta valorose.
Lunedì 2 gennaio, infatti, intorno alle 21:15, un aereo israeliano ha lanciato un missile contro un taxi che trasportava due militanti della Jihad islamica nei pressi della cittadina di Jabalya.
Il conducente, il 45enne Akram Quddas, e uno dei militanti, il 38enne Said Abu al-Jedian, sono morti sul colpo, mentre il terzo militante trasportato sull’auto è deceduto successivamente in ospedale per le ferite riportate; in aggiunta, tre passanti sono rimasti seriamente feriti dalle schegge.
Questo “incidente” segue da presso quello avvenuto nella notte del 31 dicembre quando, nei pressi di Beit Lahia, l’aviazione israeliana aveva ucciso due civili innocenti che erano stati scambiati per dei militanti in procinto di lanciare un missile Qassam
(vedi http://palestinanews.blogspot.com/2005/12/capodanno.html).
Secondo le statistiche fornite dal Palestinian Centre for Human Rights, nel periodo compreso tra il 15 ed il 28 dicembre del 2005, in totale l’aviazione israeliana ha compiuto almeno 40 incursioni nella Striscia di Gaza, ferendo 17 civili, tra cui 4 ragazzini e un neonato, e danneggiando numerose infrastrutture, edifici, strade.
Il vero è che la Striscia si è trasformata in un vero e proprio mattatoio o, se preferite, in un enorme campo di concentramento, molto simile a quello in cui, nel noto film "Schindler’s List”, il comandante del campo ogni tanto imbracciava il suo fucile di precisione e uccideva qualche prigioniero a caso.
Un’esagerazione? Non proprio.
La Striscia di Gaza ha una sola uscita verso il resto del mondo, il Rafah Crossing Point, alla frontiera con l’Egitto, attualmente aperto 5 ore al giorno, posto sotto la supervisione di un team di militari europei e monitorato dagli Israeliani, che tuttavia, come in queste ultime ore, minacciano periodicamente di chiuderlo.
Una volta all’interno della Striscia, poi, sorge il problema di spostarsi verso Israele ed il West Bank, ed è lì che sorgono i problemi, perché i valichi di ingresso quali Beit Hanoun o al-Mentar, siano essi destinati alle persone o alle merci, sono controllati dalle truppe israeliane e soggetti a chiusure improvvise e ingiustificate da parte di Israele, quale mezzo di pressione nei confronti della popolazione palestinese o addirittura per permettere agli Israeliani di celebrare le loro festività in santa pace (da ultimo, in occasione della festa dell’Hanukah).
Nessuno, poi, si prende la briga di ricordare che Israele sta violando in modo flagrante il recente accordo raggiunto tra Israeliani e Palestinesi riguardante il movimento e gli accessi da e per Gaza, siglato nel novembre del 2005 e di cui si era fatto garante lo stesso Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice.
Detto accordo prevedeva, tra le altre cose, che vi fossero dei collegamenti tra Gaza ed il West Bank per lo spostamento delle persone, a mezzo di convogli di bus, a partire dal 15 dicembre ma, ad oggi, Israele continua a dilazionare immotivatamente tale scadenza.
Come si vede, dunque, Israele è perfettamente in grado, sol che lo voglia, di sigillare ermeticamente la Striscia di Gaza per via terra, mentre lo spazio aereo è naturalmente sotto il suo pieno controllo.
Così accade pure per lo spazio marittimo, e va detto che, della pesca e del suo indotto, a Gaza vivono circa 35.000 persone.
Israele ha concesso, bontà sua, ai pescatori palestinesi di scendere in mare, ma entro il limite delle 9 miglia nautiche; si tratta di un limite unilaterale e illegittimo, dato che gli accordi di Oslo prevedevano un tale limite fissato sulle 20 miglia.
E quando accade che i pescatori palestinesi superano questi limiti, o si avvicinano alle acque territoriali israeliane, non accade come per i pescherecci italiani – che vengono sequestrati dalle navi tunisine – perché le vedette e gli elicotteri israeliani hanno l’ordine di sparare a vista, e lo hanno fatto in più di una occasione, uccidendo a sangue freddo dei padri di famiglia la cui unica colpa era quella di essere scesi in mare per fare il loro mestiere.
Ma vi è di più.
Israele adotta già da qualche mese un metodo che sembra una vera e propria forma di tortura psicologica a danno della popolazione civile di Gaza, quello delle cosiddette “sonic bombs”.
Si tratta semplicemente di ripetuti passaggi a bassa quota dei jet israeliani, che infrangendo la barriera del suono producono l’effetto di danneggiare vetri, porte e suppellettili delle case e, soprattutto, quello di terrorizzare la popolazione civile.
Alla data del 18 dicembre, secondo la dichiarazione del Dr. Moawiya Hassanen, dirigente del Ministero della Sanità palestinese, ben quattro Palestinesi ammalati di varie patologie a carico del cuore sono morti in conseguenza di simili incursioni, mentre 5 donne incinte hanno abortito e numerosi sono stati i casi di ricovero – soprattutto di bambini e donne anziane – per nausea, stati confusionali e ansietà.
Si tratta, come è ben chiaro, di una punizione collettiva a danno dell’intera popolazione della Striscia di Gaza, come tale vietata dal diritto internazionale, anche se le autorità israeliane – con la solita faccia tosta che non ha eguali al mondo – hanno avuto occasione di sostenere, davanti alla Corte di Giustizia, che le “sonic bombs” servono solo a confondere i terroristi e a impedirgli di nuocere a Israele!
Come abbiamo più volte ribadito, il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza – definitivamente attuato il 15 agosto di quest’anno – è stato un puro e semplice bluff propagandistico, ben supportato dai media di regime.
Con una mossa ben studiata Sharon, spostando poche migliaia di coloni, ha raggiunto l’obiettivo di apparire come un fautore della pace e, lasciando l’Anp alle prese con le difficoltà connesse al governo della Striscia e alla crescente anarchia in essa imperante, cerca di dimostrare che tra i Palestinesi non vi è un leader affidabile per raggiungere un definitivo accordo di pace.
E ciò sta drammaticamente verificandosi in questi giorni, aprendo la strada a ulteriori unilaterali mosse di Israele e a nuove annessioni di territorio palestinese: si concretizza così la facile profezia di Dov Weisglass, fidato consigliere di Sharon, secondo cui con il ritiro dalla Striscia di Gaza ogni ulteriore accordo con l’Anp – su temi quale la restituzione dei Territori, il diritto al ritorno, Gerusalemme est - sarebbe stato “congelato”, o meglio, posticipato fino a quando “i Palestinesi non diverranno dei Finlandesi”!
Nessuno ricorda che, mentre Israele ritirava poco più di 8.000 coloni da Gaza, contemporaneamente la popolazione dei “settlers” nel West Bank cresceva di 15.800 unità (quasi il doppio!).
Nessuno tiene a precisare che è quasi impossibile governare un territorio come la Striscia di Gaza in cui il 70% della popolazione è disoccupato, in cui non vi è libertà di movimento in entrata e in uscita per le persone e per le merci, in cui strade e infrastrutture vengono quotidianamente danneggiate dai raid israeliani.
Ma il ritiro da Gaza aveva un’altra e più nascosta motivazione, tranquillamente ammessa dal vice premier israeliano Ehud Olmert in una intervista ad Ha’aretz del 29 dicembre (“No limitations in Sharon’s war on Qassams): “Quando eravamo dentro Gaza … non potevamo condurre operazioni come “blue skies”, perché la popolazione ebraica stava nel cuore delle zone abitate dalla popolazione araba”.
E dunque ecco il motivo nascosto del “disengagement plan” di Sharon, poter dare la caccia ai militanti palestinesi senza nemmeno doversi sporcare le mani, e pazienza se usando jet o droni l’arresto dei ricercati è impossibile, e l’unica strada è quella dell’assassinio legalizzato.
Naturalmente, secondo Israele, le esecuzioni extra-giudiziarie sono legali, in quanto, completato il ritiro israeliano da Gaza, esse rappresenterebbero operazioni militari in territorio nemico, e dunque ricadrebbero sotto le leggi di guerra.
Altrettanto naturalmente, si tratta di una colossale menzogna in quanto, dal quadro che abbiamo delineato, emerge che Israele mantiene strettamente il controllo delle frontiere terrestri e dello spazio aereo e marittimo di Gaza, e, da ultimo, ha addirittura unilateralmente decretato una “no-go area” vasta circa 16 km2 in cui nessun Palestinese può entrare senza mettere a rischio la propria incolumità.
Israele, quindi, è ancora giuridicamente la potenza occupante, e come tale è tenuta a rispettare il diritto umanitario internazionale, e segnatamente la Convenzione di Ginevra.
Basterebbe ricordare le parole del Direttore del Comitato Pubblico contro la tortura in Israele, Hana Feldman, secondo cui “l’uso della politica dell’assassinio … è immorale, illegale e in violazione delle convenzioni internazionali; lo Stato non è un gruppo terroristico e potrebbe arrestare la gente anziché assassinarla dal cielo”.
Va aggiunto, inoltre, che le azioni militari dirette contro i civili, nonché gli attacchi portati con la consapevolezza che possono causare danni sproporzionati all’incolumità della popolazione civile, costituiscono dei veri e propri crimini di guerra, quelli che Israele continua a commettere quotidianamente senza che nessuno Stato intervenga per impedirlo o nessuna voce si levi per condannare tale pratica feroce e brutale.
E’ necessario che, primariamente, quanti operano onestamente per la pace in Palestina facciano di tutto per fermare l’assassinio legalizzato costituito dall’operazione “blue skies”.
Non ci aspettiamo niente dagli Usa, che in altre parti del mondo adottano simili o peggiori comportamenti di quelli fin qui delineati; non a caso, peraltro, Israele, per giustificare il proprio comportamento, cita proprio l’esempio degli Stati Uniti e delle sue esecuzioni extra-giudiziarie contro appartenenti ad al-Qaeda.
L’Europa, tuttavia, più volte ha preso ufficialmente posizione contro l’uccisione extra.giudiziaria dei militanti palestinesi, definendola una pratica contraria al diritto internazionale, e ci si aspetterebbe che alle parole seguano dei comportamenti conseguenti, sotto forma di sanzioni nei confronti di Israele.
Fino ad oggi, le nazioni europee hanno tenuto una posizione troppo ambigua nei confronti della questione palestinese, cercando contemporaneamente di sostenere i punti di vista di entrambe le parti in conflitto, ma oggi non è più possibile temporeggiare, e gli stessi aiuti economici che l’Ue annualmente fornisce ai Palestinesi – pur drammaticamente necessari alla sopravvivenza stessa di questo popolo – rischiano di costituire un ulteriore supporto all’occupazione israeliana, se ad essi non si aggiunge una decisiva pressione nei confronti di Israele per modificare la situazione sul territorio e giungere ad un definitivo ed equo accordo di pace.
Altrimenti gli aiuti dell’Ue, come quelli degli altri Paesi donatori, avranno più o meno lo stesso valore della razione quotidiana di cibo che si fornisce agli animali rinchiusi nelle gabbie di uno zoo.

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