29 marzo 2006

Il razzismo ebraico.

Chiunque si interessi alla storia recente, o alla cronaca quotidiana, dell’occupazione israeliana della Palestina, non può fare a meno di chiedersi quale valore sia attribuito in Israele alla vita umana di un “altro” e, in particolare, di un Arabo, considerati l’elevato numero di civili palestinesi innocenti uccisi o feriti durante raids o incursioni “mirate”, e la quantità e qualità delle violazioni dei diritti umani quotidianamente poste in essere da Tsahal nei Territori occupati.
E la realtà, purtroppo, è che questo valore è molto scarso, visto che il rischio di mettere a repentaglio la vita di Palestinesi innocenti passa sempre in secondo piano (o meglio, non viene nemmeno preso in considerazione) rispetto agli obiettivi perseguiti da Israele, siano essi la risposta ad un lancio di razzi Qassam o l’effettuazione di un arresto o l’assassinio mirato di un “terrorista” (vedi, da ultimo, http://palestinanews.blogspot.com/2006/02/donne-e-bambini-le-vittime-preferite.html).
Basti pensare al raid di Gerico, dove l’illegittima cattura di Ahmed Saadat e di altri quattro membri del PFLP, ritenuti mandanti ed esecutori dell’assassinio di un ex ministro israeliano, ha provocato la morte di due Palestinesi (una guardia ed un detenuto) ed il ferimento di decine di altre persone del tutto estranee all’evento, e dove si è assistito allo spettacolo di centinaia di Palestinesi legati, umiliati ed esposti seminudi a dimostrazione della gloria e del valore di Israele, fatto che ha sollevato le proteste di varie associazioni per la tutela dei diritti umani.
O basti pensare all’assassinio di una bambina palestinese di soli 10 anni, Akbar Zaid, durante un’operazione di arresto tentata da poliziotti israeliani sotto copertura (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/ennesimo-tributo-di-sangue-innocente.html).
Ma anche a chi è stato testimone di questi e di altri atti di barbarie compiuti da Israele non può non restare stupito e disgustato dalla lettura delle dichiarazioni rilasciate dal Rabbino Colonnello Avi Romsky, principale candidato alla carica di rabbino capo dell’esercito israeliano, riportate dal quotidiano Ha’aretz (http://www.haaretz.com/hasen/spages/691320.html).
Secondo questo uomo di fede, infatti, l’esercito israeliano dovrebbe snidare e uccidere i terroristi palestinesi in ogni luogo, colpendoli con bombardamenti aerei persino “nelle loro case e nei loro letti”.
Il rabbino Romsky, tuttavia, omette di ricordare (o forse non prende nemmeno in considerazione il problema) che bombardare case di civile abitazione significa ineluttabilmente colpire e uccidere anche civili innocenti, ma evidentemente la fede ebraica non contempla simili eventualità.
Non è peregrino ricordare che in un caso del genere, nel luglio del 2002, un F-16 dell’aviazione israeliana sganciò una bomba da una tonnellata contro un edificio di Gaza, uccidendo oltre all’obiettivo dichiarato – il dirigente di Hamas Salah Shehade – anche altre 14 persone, tra cui otto bambini, uno di due mesi e cinque sotto i 5 anni; vale la pena di ricordare anche che il premier Sharon definì quell’operazione una “delle più riuscite dell’esercito israeliano” (vedi http://www.repubblica.it/online/esteri/terrisei/gaza/gaza.html).
Ma il rabbino Romsky non è nuovo a dichiarazioni di questo genere.
Nel 1996, infatti, a margine di un dibattito concernente la legittimità o meno di curare un terrorista arabo ferito durante lo Shabbat, ebbe a dichiarare: “la vita di un non-giudeo ha certamente valore … ma il valore dello Shabbat è più importante”: se sono queste le opinioni della guida spirituale dell’esercito israeliano, davvero si spiegano tante cose!
E d’altronde un razzismo di tale virulenza non è appannaggio soltanto di certi rabbini o degli ebrei osservanti, ma permea buona parte della società israeliana.
Un paio di settimane addietro, nel villaggio di Kyriat Yam, un Arabo israeliano di 21 anni, Mohammed Tawili, è stato assalito da numerose persone che gridavano “qui non parliamo arabo” ed è rimasto gravemente ferito da un colpo di pietra alla testa, e questo solo perché aveva osato uscire con una ragazza ebrea.
Ma il fatto più grave e sconcertante è senz’altro quello accaduto in un ospedale di Gerusalemme est e ampiamente riportato, una volta tanto, anche dalla stampa italiana.
Poco più di due mesi fa, una donna araba di nazionalità israeliana, sposata ad un Palestinese, aveva dato alla luce tre gemelli presso l’ospedale Moqassed di Gerusalemme est.
Non avendo i soldi per pagare il conto del ricovero e delle cure per i neonati, la direzione ospedaliera ne ha dimessi due ed ha trattenuto il terzo, a “garanzia” del saldo delle spettanze: per il Moqassed, avrebbe detto il direttore, è pratica comune assicurarsi il pagamento delle cure, con ogni mezzo!
E’ ben vero – come ha osservato Susanne Scheidt sulla mailing list di Al-Awda (Al-Awda-Italia-subscribe@yahoogroups.com) - che l’abominevole comportamento della direzione dell’ospedale israeliano nasce da una legge discriminatoria come la Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele.
Come ho già avuto modo di scrivere nel mio blog “Palestina libera!” (vedi “La discriminazione razziale in Israele” 29.9.2004), questa disposizione, originariamente approvata nel luglio del 2003 e successivamente prorogata, vieta che venga accordata la residenza o lo status di cittadino ai Palestinesi dei Territori occupati che siano sposati a cittadini israeliani.
Si tratta di una legge di discriminazione razziale, poiché ha come target una categoria di persone individuata esclusivamente sulla base della nazionalità, ed ha come effetto di impedire ai Palestinesi sposati con cittadini/e israeliani di vivere insieme a loro (e ai figli) in Israele, mentre, per converso, ai cittadini israeliani è vietato di recarsi a loro volta nei Territori palestinesi.
E poiché questa norma non riconosce la cittadinanza neanche ai figli di queste coppie, ecco che i tre gemelli ricoverati al Moqassed sono risultati privi di alcuna copertura finanziaria da parte del servizio sanitario pubblico.
E’ anche inutile ricordare che questa legge viola numerose convenzioni sui diritti dell’uomo e del fanciullo, liberamente sottoscritte da Israele; ma quello che è più sconcertante e disgustoso, al di là dell’esistenza di una legislazione palesemente discriminatoria, è a mio avviso la totale mancanza di rispetto mostrata dalla direzione dell’ospedale israeliano per la dignità e la sacralità dell’essere umano, ridotto ad una “cosa” qualsiasi, un bene materiale che può essere trattenuto a garanzia di un pagamento, come si sequestra un’auto o un televisore per delle rate non pagate.
Casi eccezionali, che non valgono a qualificare come razzista un’intera nazione, si potrebbe osservare. Ma non è proprio così.
Secondo una ricerca effettuata dalla società israeliana Geocartographia per conto del Center for the Struggle Against Racism, dal titolo “Indice del razzismo verso gli Arabi palestinesi cittadini dello Stato di Israele”, il 68% degli Israeliani di religione ebraica (ovvero due ebrei su tre) rifiuterebbero di convivere nello stesso edificio con un Arabo israeliano, contro il 26% che, al contrario, non avrebbe alcun problema a farlo.
La ricerca, relativa al 2005, mostra anche che il 63% degli ebrei israeliani è d’accordo con l’affermazione “gli Arabi sono una minaccia demografica e per la sicurezza dello Stato”, il 46% non permetterebbe mai ad un Arabo di visitare la propria casa, il 40% crede che lo Stato dovrebbe incoraggiare l’emigrazione (leggi: deportazione) dei cittadini di origine araba.
Il fenomeno del razzismo in Israele è estremamente preoccupante: nel solo 2005 – secondo il Centro che ha commissionato la ricerca – vi sono stati ben 225 incidenti per motivi razziali a danno di cittadini arabi, e si stima che quelli denunciati siano meno del 20% di quelli che si sono effettivamente verificati.
Ed è un fenomeno preoccupante anche per l’indifferenza che sull’argomento regna nell’opinione pubblica israeliana (ma anche all’estero): come bene afferma Baruch Ouda, direttore del Center for the Struggle Against Racism, “quando la gente parla di trasferire gli Arabi o ne parla come di una bomba ad orologeria demografica, nessuna voce si leva contro simili affermazioni”.
Secondo la ricerca, il razzismo è più forte quanto maggiore è il livello di osservanza religiosa, ed è inoltre ben radicato tra gli ebrei provenienti dall’Europa dell’est; e ciò aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione, considerato che i risultati delle elezioni israeliane sembrerebbero mostrare una buona affermazione dello Shas (sefarditi ultraortodossi) e soprattutto di Ysrael Beiteinu (partito della destra russofona del razzista Lieberman), che avrebbero addirittura superato il Likud e saranno con molta probabilità determinanti per la formazione del nuovo governo.
Ma, al di là di tutto questo, addolora e disgusta il fatto che la quasi totalità dei deputati che si insedieranno alla Knesset – e degli elettori che li hanno votati – hanno a cuore soltanto la “sicurezza” di Israele o, al più, le loro pensioni.
Ai Palestinesi non è riconosciuta l’uguaglianza dei diritti né tanto meno l’uguale dignità di essere umano, e a nessuno importa delle sofferenze e del disastro economico causati dal muro, dai posti di blocco, dalle chiusure dei valichi di frontiera, dall’illegale sequestro delle entrate finanziarie dell’Anp, a nessuno importa se durante le quotidiane incursioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati viene ucciso un bimbo, o una donna, o un civile innocente.
Questo è oggi Israele, il “faro” di civiltà nel medio oriente, un Paese colonialista, brutale, affamatore, razzista.
E di questa realtà nessuno parla in Occidente, nessun governo a difendere i Palestinesi, nessun giornale o televisione a raccontare le loro sofferenze e la loro miseria.
E bisogna, ancora una volta, andare a cercare nella coraggiosa pattuglia dei giornalisti di Ha’aretz qualcuno, come Gideon Levy, che abbia il coraggio di definire Israele come “One racist nation” (http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArtVty.jhtml?sw=racist&itemNo=698698).

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22 marzo 2006

Ennesimo tributo di sangue innocente alla barbarie israeliana.

Ogni giorno che Dio manda su questa terra, gli Israeliani continuano a imperversare nei Territori palestinesi, portando la guerra nel cuore di centri densamente popolati e mettendo a repentaglio la vita di civili innocenti, ivi compresi donne e bambini.
Venerdì 18 marzo, intorno alle 8 della mattina, una unità sotto copertura della Polizia di frontiera israeliana era entrata nel villaggio di Al-Yaamoun, vicino a Jenin, per un’operazione mirata all’arresto di tre militanti palestinesi.
Giunti vicino alla casa dove si pensava che fossero nascosti i tre, i poliziotti israeliani aprivano il fuoco contro un taxi che transitava nei pressi, supponendo che all’interno dell’autovettura vi fossero i ricercati che tentavano di scappare.
Purtroppo, però, all’interno del taxi c’era soltanto una bambina palestinese di 10 anni, Akbar Zaid, insieme ad alcuni familiari che la stavano accompagnando in ospedale per togliere alcuni punti di sutura; la povera Akbar è stata colpita alla testa ed è morta sul colpo, mentre il conducente del taxi nonché zio della bambina, Kamal Zaid, è rimasto lievemente ferito.
Gli israeliani si sono giustificati dicendo di avere seguito la procedura di routine, intimando l’alt al conducente, sparando in aria e, solo dopo, mirando alle gomme del taxi, e che questo ennesimo “incidente” è accaduto perché il conducente ha rifiutato di fermarsi.
Ma, a parte queste rituali cazzate, peraltro smentite dallo zio della bambina e da vari altri testimoni, i quali hanno affermato che i poliziotti hanno aperto il fuoco senza alcun preavviso, il fatto è che le stesse regole di ingaggio israeliane vieterebbero di sparare alle gomme dei veicoli civili nei centri abitati, proprio in considerazione delle numerose vittime innocenti che si sono registrate in casi analoghi.
Le autorità israeliane hanno promesso un’inchiesta sull’accaduto, ma sono anni ormai che aspetto che un soldato o un poliziotto israeliano venga condannato per aver causato la morte di un civile innocente, e dire che eventualità di questo genere se ne sono verificate numerose…
Questo ennesimo assassinio di una bambina innocente, ancora una volta, è passato quasi completamente sotto silenzio, nessuna copertura dei media, nessuna protesta da parte dei governi occidentali – sempre così premurosi e attenti alla sicurezza di Israele – nessun condanna nemmeno da parte delle organizzazioni per la difesa dei diritti civili.
Solo il Foreign Office inglese ha condannato l’accaduto (forse avevano qualcosa da farsi perdonare in relazione a Gerico…), peraltro non con una nota ufficiale ma con una dichiarazione … al Daily Telegraph!
Dall’inizio dell’anno, salgono così a 60 i Palestinesi trucidati dall’esercito israeliano – di cui ben 13 minori di 18 anni – mentre i feriti ammontano ad oltre 260, mentre gli Israeliani uccisi per mano dei Palestinesi risultano essere due.
Eppure sono proprio i Palestinesi a passare per biechi criminali e terroristi, e a rischiare di essere messi al bando dalla comunità internazionale, di avere tagliato ogni aiuto finanziario, di vedere completamente sigillati i loro confini.
E, invece, Tzipi Livni, Raanan Gissin e gli altri banditi della loro risma rilasciano interviste in cui continuano a propalare l’assurda fandonia di volere la pace e di restare fedeli alla road map, girano per il mondo e vengono osannati ovunque si rechino.
E nessuno a chiedergli conto del tributo di sangue innocente quotidianamente pagato dai Palestinesi in nome della “sicurezza” di Israele.

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7 marzo 2006

Questi assassini vanno fermati!

Continua lento ma inarrestabile il massacro dei civili palestinesi ad opera dell’esercito israeliano, secondo un copione ormai consolidato che prevede raid terrestri nel West Bank, incursioni aeree e cannoneggiamenti nella Striscia di Gaza.
Venerdì mattina, 3 marzo, truppe israeliane appoggiate da una trentina di veicoli hanno compiuto una incursione nel campo profughi di Ein Beit Ilma, nella cittadina di Nablus, uccidendo il 15enne Amer Basiouny e ferendo un altro civile palestinese: entrambi erano disarmati e assolutamente non coinvolti in alcuno scontro a fuoco.
Ieri pomeriggio, intorno alle 17:00, un aereo dell’aviazione israeliana ha lanciato un missile contro una Peugeot bianca che transitava nel popoloso quartiere di al-Tuffah, a Gaza City, uccidendo sul colpo i due militanti della Jihad islamica che la occupavano, il 29enne Muneer Sukkar ed il 25enne Ashraf Shallouf.
Peccato che in quest’ennesimo assassinio “mirato” siano morti anche una bambina di 8 anni, Ra’ed al-Batash, e due ragazzini di 14 e 17 anni, Ahmed al-Swaifi e Mahmoud al-Batash; peccato che altri 12 civili che si trovavano nei pressi siano rimasti feriti, tra cui sei adolescenti e il padre di due dei ragazzini uccisi; peccato che l’anziana zia di Sukkar, che abitava nei pressi, alla vista del massacro sia morta per un attacco di cuore
Qualche ora prima, altri due piccoli palestinesi di 14 e 15 anni, i fratelli Allam e Nidal al-So’oud erano rimasti uccisi dallo scoppio di una granata israeliana inesplosa nei pressi del campo profughi di al-Boreij, nella Striscia di Gaza.
Subito dopo il raid assassino nella città di Gaza, il ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz ha dichiarato che “Israele colpirà chiunque tenti di danneggiarlo” e che, dunque, continuerà “con questo ritmo di prevenzioni mirate”, usando l’eufemismo coniato per questo genere di esecuzioni extra-giudiziali: maledetti assassini!
Salgono così a 58 i Palestinesi uccisi dalla furia assassina di Israele dall’inizio del 2006, mentre i feriti ammontano ad almeno 200; di contro, due Israeliani risultano essere stati uccisi per mano di Palestinesi, peraltro nel corso di attacchi non pianificati da Hamas né da alcuna organizzazione di militanti, ma bensì opera di singoli accecati dall’odio e dalla disperazione.
Si continua a discutere di Statuti e di minacce all’esistenza di Israele, si chiede ad Hamas di deporre le armi, ma chi difende la popolazione palestinese dalla cieca brutalità di Israele?
Dove risiede il vero terrorismo, a Gaza o a Tel Aviv?
E’ assolutamente necessario ed urgente fermare gli assassini che siedono al governo di Israele, liberi di porre in essere ogni azione militare, ogni devastazione, ogni omicidio senza che la comunità internazionale muova un dito per impedirlo.
E per far questo è necessaria, a mio giudizio, la mobilitazione dell’opinione pubblica, attraverso una petizione collettiva da sottoscrivere ed inviare al Presidente della Commissione europea Manuel Barroso ed ai singoli Paesi della Ue, chiedendo che si ponga fine ad ogni accordo commerciale privilegiato con Israele e si adotti ogni misura necessaria ad imporre agli Israeliani la cessazione di ogni attività militare ed il rispetto del diritto umanitario internazionale nei Territori palestinesi, nonché l’immediato (reale) ritorno alla road-map.
Non possiamo più restare inerti ad assistere a questo massacro.

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1 marzo 2006

Cinquanta morti in due mesi.

Il mese di marzo si apre con l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria da parte dell’aviazione israeliana che stamattina ha assassinato il 39enne Abu Waleed Al Dahdouh, esponente di spicco delle Brigate al-Quds, l’ala militare della Jihad islamica.
L’attacco ha avuto luogo a Gaza City, in una strada affollata nei pressi della sede del Ministero delle Finanze palestinese, e solo per un miracolo gli “effetti collaterali” del raid israeliano – probabilmente effettuato da un “drone - sono stati “limitati” al ferimento di due passanti.
Continua, dunque, l’alacre opera di assassinio da parte dell’esercito israeliano, che ha trasformato la Striscia di Gaza in un vero e proprio poligono in cui esercitarsi nella nuova specialità del tiro al Palestinese.
Non si tratta certo di una novità (vedi, da ultimo, “Piovono missili” 7 febbraio 2006) , così come non è una novità la colpevole acquiescenza della comunità internazionale di fronte al massacro del popolo palestinese in atto in queste settimane.
E di vero e proprio massacro deve parlarsi, dato che, dopo il raid odierno, sono saliti a cinquanta i Palestinesi uccisi dalla furia assassina di Tsahal nel corso del 2006, mentre i feriti ammontano ad almeno 185.
Di contro sono soltanto due gli Israeliani uccisi per mano palestinese, un colono di Migdalim ucciso in un agguato organizzato dalle Brigate al-Aqsa ed una donna israeliana uccisa circa due settimane or sono nel corso di un accoltellamento a bordo di un autobus.
In quest’ultimo caso, si è trattato di uno di quelli che lo Shin Bet chiama “popular attacks”, attacchi da parte di singoli Palestinesi non aderenti ad alcun gruppo armato o comunque non pianificati da alcuna organizzazione; tentativi di aggressione di questo tipo si sono significativamente incrementati in questi ultimi giorni, indice, insieme, dell’odio e della disperazione che si va diffondendo tra la popolazione palestinese e che spinge a gesti estremi ed inconsulti.
Odio per una occupazione militare pluridecennale che ogni giorno va diventando sempre più brutale ed oppressiva; disperazione per la crescente miseria che regna nei Territori occupati e per l’assoluta mancanza di prospettive di un miglioramento futuro, a causa dell’assoluto isolamento internazionale a cui li abbiamo condannati.
In soli due mesi, dunque, quella banda di assassini in cui si è trasformato l’esercito israeliano ha già ucciso cinquanta Palestinesi, ma ciò non è ancora sufficiente perché l’Europa si scuota dal suo torpore e decida finalmente di intervenire a difesa di questo sventurato popolo.
Prima che sia troppo tardi.

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