31 maggio 2007

Una voce nel deserto.

John Dugard ci piace, è inutile negarlo.
E questo anziano professore di diritto internazionale, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ci piace non solo e non tanto per le sue idee sul conflitto israelo-palestinese – che condividiamo in pieno – ma per l’imperturbabilità e la tenacia con cui, in ogni occasione possibile, continua a ripetere le stesse, semplici e indiscutibili verità, pur sapendo di restare inascoltato, una vera e propria vox clamans nel deserto dell’indifferenza, dell’ipocrisia, del cinico calcolo politico che ha abbandonato il popolo palestinese ad un destino di devastazione e di morte, in balia di un nemico spietato ed assassino.
E che cosa ha ricordato ancora l’altro ieri John Dugard, in un comunicato ufficiale rilasciato in vista della riunione del Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) svoltasi ieri a Berlino?
Ha ricordato che, si, gli oltre 270 razzi Qassam lanciati dai Palestinesi verso la cittadina israeliana di Sderot – che hanno causato la morte di 2 (due!) civili e il ferimento di altre 16 persone – hanno violato certamente il diritto umanitario internazionale in quanto, essendo totalmente privi di meccanismi di guida, non distinguono e non possono distinguere tra obiettivi civili e militari.
Ma anche precisato che la “risposta” israeliana e, in particolare, gli oltre sessanta raid aerei che hanno causato la morte di oltre 50 (cinquanta!) Palestinesi ed il ferimento di altre 180 persone, rappresentano dei gravi crimini di guerra, in quanto violano entrambi i principi cardine del diritto umanitario, quello della proporzionalità e quello della distinzione tra civili e combattenti.
Basterà, in proposito, ricordare che – solo nel periodo compreso tra il 17 ed il 23 maggio – l’esercito israeliano ha ucciso 32 Palestinesi, tra cui 17 civili (e, tra essi, 7 bambini) e ne ha feriti 102 (tra i quali 10 donne e 20 bambini).
Ma il Prof. Dugard, ad abudantiam, ha aggiunto anche altre cose.
Ha aggiunto, ad esempio, che gli assassini extra-giudiziari del genere di quelli commessi da Israele non solo sono illegali dal punto di vista del diritto internazionale, in quanto costituiscono delle “executions without a trial”, delle vere e proprie esecuzioni capitali portate a termine senza alcuna accusa, alcun processo, alcuna giuria, ma sembrano persino non integrare nemmeno quei minimi requisiti solo in presenza dei quali la Suprema Corte (di giustizia…) israeliana, nel dicembre del 2006, aveva ammesso tali azioni, e cioè, in buona sostanza, l’impossibilità di portare a termine l’arresto e l’imminente e reale pericolo per l’incolumità dei civili israeliani rappresentato dalla persona costituente l’obiettivo dell’eliminazione.
E’ esemplare, sotto questo aspetto, il caso dell’assassinio – avvenuto l’altro ieri a Ramallah ad opera di alcune unità dell’Idf sotto copertura – del 22enne Abu Omar Dhaher, liquidato con un colpo alla nuca mentre era steso in terra, ferito ad una gamba.
Ha ricordato Dugard che Israele, in questi giorni, ha arrestato oltre 30 membri di Hamas, tra cui due ministri, vari deputati e i sindaci di Nablus e Qalqiliya, che oltre 40 dei ministri, deputati e membri di Hamas similmente arrestati lo scorso anno sono tutt’ora detenuti in Israele, senza alcuna imminente prospettiva di essere scarcerati o di essere portati in giudizio con uno straccio di accusa, che tali arresti e tali detenzioni rappresentano dei chiari atti di punizione collettiva, come tali vietati dalla IV Convenzione di Ginevra.
Tutti questi atti – prosegue Dugard – vanno inquadrati in un contesto di continue violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei Territori palestinesi occupati, quali ad esempio:
- i raid militari e gli arresti indiscriminati di civili compiuti quotidianamente da Tsahal;
- la continua espansione degli insediamenti, in violazione delle risoluzioni Onu e della stessa Road Map elaborata dal Quartetto;
- la prosecuzione della costruzione del Muro in territorio palestinese, in violazione del parere espresso nel 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia (e fatto proprio dal voto dell’Assemblea Generale dell’Onu);
- i 549 posti di blocco, cancelli e ostacoli vari posti da Israele nel West Bank, che limitano fortemente la libertà di circolazione delle persone e delle merci, con gravissimo pregiudizio per lo stato già precario dell’economia palestinese, come denunciato, da ultimo in questi giorni, anche dalla Banca Mondiale;
- l’illegale mancato versamento delle tasse e imposte doganali riscosse da Israele per conto dell’Anp, che costituisce una delle principali cause della crisi umanitaria in atto in Palestina.
In breve, secondo Dugard, Israele continua a commettere reiterate e gravi violazioni dei diritti umani a danno dei Palestinesi ma, stranamente, il Quartetto sembra quasi del tutto ignorare tale circostanza, adottando invece, e continuando ad adottare, un incredibile boicottaggio politico ed economico nei confronti dell’Autorità palestinese e dei ministri in quota Hamas, che pure fanno parte di un governo che è la risultante di elezioni democratiche e perfettamente regolari svoltesi nel 2006.
La pace e il rispetto dei diritti umani – conclude il Relatore Onu – non potranno mai prevalere nella regione se la comunità internazionale non si deciderà una volta per tutte a intervenire per persuadere, ed eventualmente costringere, entrambe le parti ad impegnarsi seriamente a risolvere le questioni che ancora impediscono la nascita di uno Stato palestinese indipendente e sovrano.
Questo dovrebbe essere l’obiettivo del Quartetto, i cui membri, tuttavia, non riusciranno mai a raggiungere alcunché se non adotteranno un approccio equo ed imparziale nei confronti di entrambe le parti in conflitto.
Il che richiede, tra l’altro, di trattare entrambe le parti alla stessa maniera e secondo gli stessi standard, di accordare a entrambe il medesimo riconoscimento e, soprattutto, di assicurare piena legittimità all’intero governo di unità palestinese, sia ai membri di Hamas sia agli altri.
Fin qui la dichiarazione, anzi l’appassionato appello, di John Dugard.
Per l’ennesima volta inascoltato.
La dichiarazione conclusiva dei lavori del Quartetto è infatti, come ci si poteva aspettare, deludente e, soprattutto, ben lontana da quell’approccio “equo e imparziale” quasi implorato dal Relatore Onu.
Il Quartetto, infatti, condanna “con forza” i lanci di razzi Qassam verso Sderot e l’accumulazione di armi da parte di Hamas e degli altri “gruppi terroristici” (sic!) nella Striscia di Gaza e ne chiede l’immediata cessazione, mentre si limita a richiedere ad Israele di esercitare “moderazione” e di assicurare che, nel corso delle sue “operazioni di sicurezza” (sic!), si evitino perdite tra i civili o danni alle infrastrutture di uso civile: il che val quanto dire via libera alla continuazione di queste cosiddette “operazioni di sicurezza” e, soprattutto, via libera agli assassinii “mirati”, che pure violano il diritto umanitario e portano inevitabilmente con sé un pesante fardello in termini di uccisioni di civili inermi e innocenti, ma tutto questo ai Quartet Principals non sembra importare poi molto…
Il Quartetto chiede il rilascio “immediato e incondizionato” del caporale Gilad Shalit (e del giornalista della Bbc Alan Johnston), mentre la liberazione dei ministri e parlamentari di Hamas viene sì richiesta, ma non in maniera incondizionata né immediata, evidentemente non c’è fretta...
Nemmeno una parola, invece, per gli oltre 11.000 Palestinesi attualmente ospiti delle galere israeliane, nessun cenno alle torture a cui molti di essi vengono sottoposti (testimoniate da vari report di ong israeliane), nessuna richiesta di rilascio per le donne e i minori palestinesi illegalmente detenuti, nessun biasimo per quell’assoluto monumento all’arbitrio e alla illegalità che è la cd. detenzione “amministrativa”.
Il Quartetto, bontà sua, ammette che il movimento e gli accessi da e per Gaza costituiscono un aspetto “essenziale” e, dunque, richiama entrambe le parti ad applicare per intero l’Accordo sul Movimento e l’Accesso del 15 novembre 2005.
Come se dipendesse dai Palestinesi rimuovere i 549 posti di blocco, cancelli e ostruzioni varie che rendono gli spostamenti nel West Bank un vero e proprio calvario; come se dipendesse dai Palestinesi tenere aperti i varchi di Rafah, Erez, etc. per il tempo programmato dagli accordi; come se fossero i Palestinesi ad impedire che Gaza sia collegata alla Cisgiordania – come previsto dall’Accordo del 2005 – da convogli di autobus e di camion.
Il Quartetto, addirittura, non chiede ad Israele – come dovrebbe – di versare all’Anp le tasse e le imposte doganali che, al contrario, continua illegalmente a trattenere, ma si limita a osservare che il ripristino del trasferimento di queste somme (di proprietà del popolo palestinese!) avrebbe “un impatto significativo sull’economia palestinese”: quasi si stesse chiedendo agli Israeliani di compiere un atto di generosità, davvero inaudito!
Il Quartetto ancora una volta, con inusitata ipocrisia, elogia l’iniziativa di pace dei Paesi arabi, fingendo di non sapere che Israele ha già detto a chiare lettere che non consentirà mai a cedere Gerusalemme est ai Palestinesi, né riconoscerà mai alcun diritto al ritorno dei profughi nelle loro terre.
E dunque, ancora una volta, secondo Usa, Ue, Onu e Russia, sono stati i Palestinesi ad aver rotto la tregua, sono loro i responsabili di questa nuova ondata di violenza nella Striscia di Gaza, loro e i lanci dei maledetti razzi Qassam.
Nessuno sembra considerare che un tale ragionamento presupporrebbe che – prima dell’inizio dei lanci dei Qassam – vi fosse stato un pieno e rispettato cessate il fuoco tra Israeliani e Palestinesi, cosa assolutamente non vera: per dirla con Amira Hass, ma quale cessate il fuoco?
Quella del cessate il fuoco è una trappola accuratamente preparata da Israele – con l’aiuto non indifferente dei media e delle potenze occidentali - in cui i Palestinesi continuano regolarmente a cadere, che fa sì che la pubblica opinione percepisca una realtà del conflitto israelo-palestinese come di un confronto bellico tra pari, con i Palestinesi per di più nella veste degli aggressori e gli Israeliani in quella, invero più comoda, degli aggrediti che si limitano a “rispondere”.
Ma non è esattamente così.
Come ci ricorda la Hass, il sabato e la domenica prima che i Palestinesi “rompessero il cessate il fuoco”, i soldati israeliani avevano ucciso ben 9 Palestinesi, tra cui una studentessa di 17 anni, un ragazzino di 15 ed un poliziotto che stava sul tetto della propria casa e che non era coinvolto in alcun combattimento.
Ma anche se non vi fossero stati quei nove morti, non vi sarebbe stato alcun cessate il fuoco né vi sarebbe stato la settimana precedente e in quelle precedenti ancora, perché l’occupazione militare, anche quando non uccide, come in questi casi, è comunque da considerarsi “fuoco israeliano”, un fuoco che non è mai cessato per oltre 40 anni, a prescindere da eventuali reazioni da parte palestinese o meno.
Perché il “fuoco” o, se preferite, la quotidiana aggressione israeliana include ogni rifiuto di un permesso per costruire una casa palestinese, ogni diniego di passaggio di un Palestinese da Gaza al West Bank e viceversa, ogni shekel di tasse e imposte illegalmente trattenuto da Israele e non versato all’Anp, ogni posto di blocco in Cisgiordania, ogni ettaro di terra sottratta ai Palestinesi sin dal giugno del 1967, ogni insediamento colonico illegale.
Non vi è mai stato un cessate il fuoco, perché Israele non ha mai cessato le sue illegalità, le sue violazioni del diritto, i suoi crimini, la sua brutale e ingiusta occupazione militare.
Questo era anche il senso dell’ennesimo appello di John Dugard ai membri del Quartetto, un appello che, come abbiamo visto, è rimasto totalmente lettera morta (e non nutrivamo alcun dubbio in questo senso).
Ma siamo sicuri che il nostro professore sudafricano non si cruccerà più di tanto, e continuerà con la serietà e la serenità che lo contraddistinguono a fare ciò che gli richiede il suo mandato di Relatore speciale, a descrivere e a testimoniare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele, a denunciare i quotidiani crimini di guerra commessi da Tsahal, pur nella consapevolezza che la sua voce probabilmente resterà inascoltata ancora e ancora di nuovo.
Ci piace davvero John Dugard, una voce nel deserto.

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13 maggio 2007

A Tel Aviv non comanda più nessuno.

di Meron Rapaport (L’Espresso, 17.5.2007)

Il rapporto della commissione d’inchiesta sulla seconda guerra in Libano, guidata dall’ex giudice Eliyahu Winograd, ha provocato in Israele una bufera politica che non si vedeva dai tempi della guerra del Kippur nel 1973. Mai la classe dirigente israeliana è stata criticata così pesantemente, mai gli attacchi così personali. Il rapporto dice che il premier Ehud Olmert “ha fallito gravemente nel modo di ragionare, nelle responsabilità e negli esiti”. Anche il ministro della Difesa Amir Peretz è finito nel ciclone.
Subito dopo la pubblicazione del rapporto sembrava che Olmert sarebbe stato costretto alle dimissioni nello spazio di pochi giorni. Invece, sulle prime è riuscito a domare la ribellione nel suo partito, Kadima. Ma la testa di Olmert l’hanno chiesta anche il popolare ministro degli Esteri, Tzipi Livni, e 100.000 dimostranti che hanno manifestato nella più grande piazza di Tel Aviv. Nel partito laburista, che a settimane dovrà eleggere il futuro leader, tre dei quattro candidati hanno già dichiarato che, in caso di nomina, chiederanno le dimissioni del premier.
Il dato più inquietante che emerge dal rapporto Winograd è la debolezza dell’attuale classe politica israeliana. Si legge, per esempio, che nella riunione di governo del 12 giugno 2006, giorno in cui due soldati israeliani vennero rapiti lungo la frontiera con il Libano, il capo di Stato Maggiore. Generale Dan Haluz, spiega così il suo piano di bombardamenti sul Libano: “Nessuno verrà risparmiato. L’obiettivo è dimostrare che Israele è il soggetto più duro nell’area”. Simon Peres, premio Nobel per la pace, due volte primo ministro, l’uomo più esperto della politica israeliana, gli chiede chiarimenti: “Bisogna pensare bene prima di compiere due passi in avanti”, dice timidamente a Haluz: “Se noi bombarderemo e loro reagiranno, dopo che accadrà?”. E Haluz, rivolgendosi a Peres come fosse un bambino un po’ ritardato: “Io penso sempre due passi in avanti, anzi quattro passi…”. Peres, in politica da più di 50 anni, tra gli strateghi della guerra del Sinai del 1956, viene umiliato da un generale che deve la sua fama soprattutto per aver dato l’ordine di lanciare una bomba di una tonnellata su un palazzo di Gaza, uccidendo 18 civili palestinesi. Il disprezzo totale di Haluz verso Peres è la manifestazione più estrema dell’impotenza dei politici israeliani.
Questa atmosfera di disprezzo spira da ogni riga del rapporto. I dibattiti fondamentali di politica nazionale e internazionale si sono svolti nello Stato Maggiore. Sono i generali a discutere sulla linea da tenere in Libano, sulla posizione internazionale di Israele, sul Quartetto, sul G8, sull’Unione europea. Questo conflitto, diceva Haluz ai suoi generali prima ancora di confrontarsi con il governo, “dev’essere un punto di svolta nel dialogo fra Israele e Libano … Se non capiamo che il Libano è in uno stato di caos, perdiamo un’enorme opportunità di raggiungere la nostra meta. Dobbiamo cambiare le regole del gioco”. Il governo, dal punto di vista dei militari israeliani, serve solo a dare “più tempo” all’esercito.
Non stupisce se, dopo sei mesi di inchieste, la commissione non ha ancora scoperto chi abbia preso la decisione di attaccare il Libano. Nella sera del primo giorno di combattimenti, il ministro Livni chiede a Haluz quando sarebbe finita l’operazione militare. “Nel primo pomeriggio di domani”, le risponde Haluz. Meno di 12 ore dopo, lui racconta ai suoi generali che la guerra durerà “parecchie settimane … Lo Stato d’Israele non ha interesse che tutto finisca troppo presto”. Haluz, come Luigi XIV, è lo Stato.
Ma le colpe non sono solo dei militari. Fin dal fallimento di Camp David, nel 2000, la classe dirigente israeliana ha rinunciato al tentativo di suggerire una soluzione politica al conflitto con i Palestinesi e con il mondo arabo. Israele, si ritiene a Tel Aviv, gode di una superiorità militare tale per cui non converrebbe cercare un compromesso con i nemici che la vogliono distruggere. La guerra in Libano ha ora messo in dubbio questa certezza. E’ per questo che l’opinione pubblica israeliana è ora così confusa: ha scoperto che non soltanto i politici, ma anche i generali, non rappresentano una garanzia per il suo futuro.

Fin qui l’articolo di Rapaport, restano da aggiungere alcune considerazioni su fatti peraltro già noti.
Né il rapporto Winograd né le 100.000 (o 150.000) persone che hanno affollato piazza Rabin per chiedere le dimissioni del premier israeliano Olmert hanno inteso imputare a lui e al suo governo di avere scatenato l’inferno in Libano; la guerra, secondo la stragrande maggioranza degli Israeliani era “giusta”, il problema è che è stata condotta con imperizia e negligenza, il problema è che Israele la seconda guerra in Libano l’ha persa.
Ciò che, in sostanza, viene rimproverato a Olmert, a Peretz e all’ex capo di Stato Maggiore Halutz è di non aver annientato le milizie di Hezbollah, di avere mandato allo sbaraglio i riservisti dell’Idf, di aver sottovalutato il pericolo dei razzi Katyusha e di non avere adeguatamente protetto i civili da questo letale pericolo.
Nessuna parola di biasimo dalla commissione Winograd – né alcuna protesta dell’opinione pubblica israeliana – per gli evidenti e gravissimi crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano nei 34 giorni di combattimento.
Come è ormai noto, già poche ore dopo l’inizio delle ostilità era chiaro che l’obiettivo di liberare i due soldati non avrebbe potuto essere raggiunto, e tuttavia lo Stato Maggiore israeliano – con il pieno e consapevole avallo del governo - decise ugualmente di dare il via a una massiccia serie di raid aerei e di bombardamenti con il dichiarato scopo di ribadire il principio secondo cui chi tocca Israele deve pagare uno scotto atroce, ivi compresa la popolazione civile: per dirla con le parole di Halutz, bisognava dimostrare che gli attributi più grossi nell’area mediorientale sono quelli israeliani, e bisognava dimostrarlo senza risparmiare nessuno.
La seconda guerra in Libano ha provocato la morte di 1.189 libanesi (in gran parte civili), mentre i feriti sono stati 4.399 e circa un milione i profughi: da segnalare che circa un terzo delle perdite è rappresentato da bambini; dalla parte israeliana, i morti sono stati 159, di cui 39 civili.
Immense sono state le distruzioni in territorio libanese, infrastrutture, ponti, strade, porti, aeroporti, almeno 15.000 abitazioni interamente distrutte, secondo Oxfam l’85% degli agricoltori libanesi ha perso il proprio raccolto, le stime dei danni complessivi ammontano a oltre cinque miliardi di dollari, e questo senza contare i mancati introiti del turismo.
Secondo Human Rights Watch, nella condotta delle ostilità l’esercito israeliano ha ripetutamente violato le leggi di guerra, colpendo e uccidendo indiscriminatamente senza distinguere tra civili e combattenti.
Secondo Tsahal la colpa di ciò è addebitabile a Hezbollah, che nascondeva le proprie milizie e i propri armamenti in città e villaggi densamente popolati ma, sempre secondo Hrw, la gran parte delle uccisioni di civili si sono verificate in zone in cui non vi era nessuna evidenza che, nei pressi, fossero situate milizie o armamenti, come nel caso del massacro dei 29 civili di Qana.
Né gli ordini di evacuazione – talvolta impartiti dall’Idf prima degli attacchi – valgono a sollevare l’esercito israeliano dalle proprie responsabilità – dato che molti civili non avrebbero comunque potuto allontanarsi a causa dell’età, di infermità varie, della mancanza di mezzi idonei di trasporto.
Senza contare che alcuni convogli di civili, pur scortati da automezzi Onu, sono stati ugualmente fatti oggetto di attacco da parte dell’aviazione israeliana.
Ma il capitolo più orrendo e criminale nella condotta delle ostilità da parte di Israele è senza dubbio quello costituito dal massiccio uso di cluster-bombs.
L’Onu ha stimato che Israele ha lanciato bombe “cluster” contenenti da 2,6 a 4 milioni di ordigni esplosivi. Steve Goose, direttore della divisione armamenti di Hrw, ha affermato: “Abbiamo investigato sulle munizioni cluster in Kosovo, Afghanistan e Iraq, ma non abbiamo mai osservato un uso di munizioni cluster così massiccio e pericoloso per la popolazione civile”.
Le ricerche di Hrw hanno dimostrato che, nella maggior parte dei casi, il lancio delle cluster-bombs da parte israeliana è avvenuto senza che vi fossero “evidenti obiettivi militari” da colpire.
Si stima che, di tali ordigni, almeno 1 milione sia rimasto inesploso alla fine della guerra, e le operazioni di bonifica continueranno almeno per tutto il 2007: dalla fine della guerra alla fine di gennaio di quest’anno, gli ordigni inesplosi hanno già causato 30 morti e 184 feriti.
Non va dimenticato peraltro che, sempre secondo le stime Onu, il 90% delle cluster-bombs è stato lanciato da Israele durante gli ultimi tre giorni di ostilità, in un’ultima, vigliacca e spietata rappresaglia.
Naturalmente nessuno è chiamato a rispondere di questi crimini, di queste distruzioni ingiustificate, di questi morti innocenti, nessuna incriminazione è stata richiesta, né ciò mai avverrà.
Verso la metà di aprile – durante un incontro con i rappresentanti di Medical Aid for the Third World – il ministro della Difesa belga Andre Flahaut aveva lanciato l’idea di addebitare ad Israele, quanto meno, le spese per la rimozione degli ordigni inesplosi e per la bonifica dei territori, calcolate in circa 13 milioni di dollari.
Pochi spiccioli rispetto alle spese di ricostruzione del Libano, ma che rappresentano l’affermazione di un principio dall’evidente impatto politico, e infatti – per quel che è dato sapere – non se ne è fatto nulla.
Evidentemente, la fine della stagione della totale impunità per i criminali di Israele tarda ancora ad arrivare.
E, altrettanto evidentemente, l’opinione pubblica israeliana non ha ancora compreso come l’unica garanzia per il proprio futuro sia rappresentata non già dall’oppressione, dai crimini di guerra, dalla cieca forza delle armi, ma piuttosto dalla risoluzione pacifica ed equa di tutte le vertenze e i conflitti in corso con il mondo arabo.

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