22 agosto 2007

Ecco a cosa servono i checkpoints israeliani!

Un nuovo video su YouTube - girato il 15 agosto da un attivista americano al checkpoint di Ras at-Tira (Qalqiliya) - mostra l'ennesimo episodio di violenza gratuita dei valorosi soldatini di Tsahal ai danni di civili palestinesi, molto spesso, come in questo caso, bambini inermi ed innocenti.

Nel video si possono vedere tre ragazzini palestinesi a bordo di un carretto trainato da un asino che al checkpoint vengono fermati da due soldati israeliani; uno di loro, una soldatessa, ad un certo punto comincia a picchiarli e, prima di rimandarli indietro, sputa loro contro, mentre il suo collega - secondo il racconto dell'autore del video - raccoglie delle pietre da terra e le tira contro il carretto che si allontana.

E' da ricordare che il villaggio di Ras at-Tira, con una popolazione di 445 Palestinesi, è completamente circondato dal muro di "sicurezza" da tre lati, e le uniche uscite sono vigilate da cancelli e checkpoint presidiati dai soldati.

Un "incidente" che si aggiunge ai tanti episodi di maltrattamenti e di aggressioni immotivate di cui sono vittime i Palestinesi ai checkpoints, che, oltre ad ostacolare gravemente gli spostamenti delle persone e il traffico delle merci, costituiscono una ulteriore causa diretta di ferimento e di morte di civili innocenti.

Tra i tanti, vorrei ricordare il caso di Radi Alwahash, 18 anni, morto il 29 giugno ad un checkpoint tra Gerusalemme e Betlemme, perchè all'ambulanza che lo trasportava (un ambulanza israeliana!) era stato impedito di passare e di raggiungere l'ospedale di destinazione per non meglio identificati "motivi di sicurezza".

Quegli stessi, fantomatici motivi di "sicurezza" che giustificano, a parere di chi comanda in Israele, e cioè i militari, il permanere di ben 532 checkpoints e ostacoli vari nella West Bank, con un incremento pari al 41,5% rispetto all'agosto del 2005 (dati OCHA aggiornati al 7 agosto).

Nella realtà, come è evidente, i checkpoints sono situati non già alle frontiere con Israele, ma piuttosto ben all'interno della Cisgiordania, riducendola ad un insieme di bantustan senza o con pochi e difficoltosi collegamenti tra loro, con l'unico fine di opprimere e di rendere ancora più miserevoli le condizioni di vita dei Palestinesi.

E, all'occorrenza, di permettere ai valorosi soldatini israeliani di sfogare il proprio razzismo e le proprie pulsioni aggressive ai danni di alcuni ragazzini indifesi.

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10 agosto 2007

Non ci sarà giustizia per Abir.


La mattina dell’ultimo giorno della sua breve vita Abir Aramin, una bambina palestinese di dieci anni del villaggio di ‘Anata, a est di Gerusalemme, mentre usciva di casa per andare a scuola aveva detto a suo padre che, nel pomeriggio, prima di tornare a casa a studiare sarebbe passata da un’amica a giocare.

Suo padre – ce lo racconta lui stesso in una commovente lettera scritta in memoria della sua piccolina – le aveva risposto che non se ne parlava neanche, e adesso se ne dispera, avrebbe voluto farla contenta almeno per quell’ultima volta.

Abir Aramin è morta il 18 gennaio di quest’anno, dopo che, due giorni prima, era stata colpita alla testa da una granata stordente sparatagli contro da un soldato dell’esercito israeliano; Abir stava uscendo da scuola e si era trovata in mezzo a una protesta di un gruppo di studenti contro la costruzione del muro di “sicurezza”, che le guardie di frontiera israeliane stavano cercando di disperdere sparando proiettili rivestiti di gomma, gas lacrimogeni e granate stordenti.

L’esercito israeliano, con diverse versioni, ha sempre negato la propria responsabilità riguardo la morte di Abir, sostenendo, da ultimo, che la piccola era stata colpita alla testa da una pietra lanciata dai suoi quasi coetanei palestinesi, e tuttavia – come ha ricordato ieri l’organizzazione israeliana Yesh Din – numerosi testimoni hanno raccontato come Abir si fosse accasciata in terra nel momento in cui i soldati israeliani stavano sparando verso di lei ed un gruppo di ragazzine che cercavano di allontanarsi dalla zona degli scontri.

Testimoni palestinesi, naturalmente, e dunque non degni di alcuna fede, benché tra essi vi fosse persino il direttore della scuola, Sawsan Abu Solb, e così la scorsa settimana le autorità israeliane hanno deciso di chiudere definitivamente l’inchiesta sull’accaduto, per insufficienza di prove.

Come è possibile che una bambina di dieci anni riceva un colpo alla testa, che sia provato che sia stata assassinata, e che nessuno sia chiamato a rispondere di questo crimine?

In Israele è possibile, soprattutto quando di mezzo vi sono i valorosi soldatini di Tsahal da una parte e, dall’altra, civili palestinesi inermi ed innocenti.

Secondo l’ong israeliana B’tselem, nel corso del 2006 l’esercito israeliano ha ucciso 660 Palestinesi, inclusi 141 minori; di questi, ben 322 sono stati uccisi benché disarmati e nonostante non stessero prendendo parte in alcun modo ad azioni ostili.

Il che val quanto dire che quasi un Palestinese su due è stato assassinato a sangue freddo e/o senza alcuna plausibile giustificazione.

Ciò è in primo luogo addebitabile alle norme che regolano (o dovrebbero regolare…) l’uso delle armi da fuoco da parte dell’esercito israeliano, che sono ben al di sotto degli standard richiesti a livello internazionale.

Così oggi i soldati israeliani sono autorizzati a sparare anche in situazioni in cui non vi è immediato pericolo per la loro vita, a sparare senza preavviso, ad aprire il fuoco contro chiunque entri in una determinata area “chiusa”.

Ma, soprattutto, l’uccisione di civili innocenti da parte dei soldati di Tsahal è favorita, se non palesemente incoraggiata, dalla mancanza di serie investigazioni su tali “incidenti” da parte delle autorità di Israele, che crea un clima di sostanziale impunità e fa passare il chiaro messaggio secondo cui i membri delle forze di sicurezza non verranno mai chiamati a rispondere del loro operato.

Su quest’ultimo aspetto Human Rights Watch ha pubblicato nel giugno del 2005 un circostanziato report dal titolo significativo (Promoting Impunity: The Israeli Military’s Failure to Investigate Wrongdoing), da cui si può rilevare che, a fronte degli oltre 1.720 civili palestinesi innocenti uccisi a quella data (e delle altre diverse migliaia feriti), si sono avute soltanto 198 investigazioni, e che da queste sono scaturite 19 incriminazioni e “ben” 6 (sei!) condanne: di queste la più grave è stata una condanna alla detenzione per 20 mesi, ma in tutti gli altri casi – come ha osservato HRW – le pene sono state meno severe di quelle, per fare un esempio, comminate agli obiettori di coscienza.

Come ben si vede, dal 2005 ad oggi nulla è cambiato.

Gideon Levy, su Haa'retz, ci racconta di altri episodi simili al brutale assassinio di Abir Aramin.

Jamil Jibji, 14 anni, è stato ucciso da una fucilata alla testa dopo che dei bambini avevano iniziato a tirare pietre contro una jeep dell’esercito israeliano: Jamil era il quarto ragazzino ad essere ucciso in quell’area in circostanze similari.

Taha al-Jawi ha toccato la barriera di “sicurezza” nei pressi dell’aeroporto abbandonato di Atarot e, come risposta, i soldati israeliani gli hanno sparato ad una gamba e lo hanno lasciato lì, a morire come un cane: aveva solo 17 anni.

In quest’ultimo caso, addirittura, l’Ufficio del portavoce dell’Idf ha difeso la decisione dei soldati israeliani di sparare contro dei ragazzini che, in pieno giorno, al massimo stavano danneggiando la recinzione di filo spinato, ma che comunque non ponevano alcuna minaccia né contro i soldati né contro lo Stato di Israele: nessuna parola di rincrescimento o di condanna per l’accaduto, nessuna indagine, anzi una ferma e decisa difesa dell’operato di Tsahal, uccidere un ragazzino disarmato sparandogli senza preavviso.

“Queste storie”, scrive Gideon Levy, “non hanno fatto rumore da noi (in Israele). Alcune di esse non sono state nemmeno riportate nei notiziari. L’uccisione di un ragazzo o di una ragazza palestinesi non turba il pubblico israeliano. La West Bank è tranquilla, non vi sono praticamente attacchi terroristici, l’attenzione è rivolta ad altre questioni, e sotto la copertura di questa falsa e provvisoria tranquillità i nostri soldati, i nostri figli migliori, uccidono numerosi bambini e ragazzini palestinesi come ordinaria amministrazione…”.

Bassam Aramin, il padre di Abir, nella sua lettera aveva scritto: “Non riposerò fino a quando il soldato responsabile della morte di mia figlia sarà processato, e affronterà le conseguenze di quanto ha fatto. Così potrò vedere che il mondo non scorda mia figlia, la mia adorata Abir”.

Difficilmente il povero Bassam potrà riposare, e il mondo purtroppo non si è mai interessato della morte della sua bambina: non ci sarà giustizia per Abir Aramin, nessuno pagherà per la sua morte né per quella degli oltre 880 bambini palestinesi uccisi dagli Israeliani a partire dalla seconda Intifada.

Non so se questo sarebbe di consolazione per suo padre, ma almeno noi non la dimenticheremo.

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3 agosto 2007

Essere bambini in Palestina.



Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini nel mondo, ha da poco reso noti alcuni dati riguardanti le condizioni di vita dei bambini palestinesi nei Territori occupati, di cui riporto una sintesi.

- Quasi quattro milioni di Palestinesi vivono nei Territori occupati, 2,5 milioni nella West Bank e 1,49 milioni nella Striscia di Gaza; il 53% della popolazione, pari a 2,1 milioni, è di età inferiore ai 18 anni.

- Il 42% dei bambini palestinesi sono da considerarsi rifugiati, dato che sale al 69% con riguardo alla sola Striscia di Gaza.

- 882 bambini palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano o dai coloni nel periodo compreso tra lo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000) ed il 30 giugno 2007.

- Nel solo mese di giugno, l’esercito israeliano ha ucciso 9 bambini e ne ha feriti 21, mentre gli scontri intestini tra i gruppi armati palestinesi hanno causato la morte di 7 bambini ed il ferimento di altri 6.

- Dal settembre del 2000, 68 donne palestinesi sono state costrette a partorire presso un check-point, fatto questo che ha determinato la morte di 4 donne e di 34 neonati.

- Alla fine di giugno, 426 minori palestinesi risultano detenuti nelle prigioni israeliane.

- A partire dallo scoppio dell’Intifada e fino alla fine del 2006, solo a Gaza Israele ha distrutto totalmente o parzialmente 7.287 abitazioni, lasciando senza un tetto 34.902 bambini su un totale di 68.692 residenti; nella West Bank, le case distrutte ammontano a 3.302 e i Palestinesi interessati a 16.510.

- 7 famiglie su 10 nei Territori occupati, vale a dire 2,4 milioni di Palestinesi, vive al di sotto della soglia di povertà, e tale dato ricomprende circa i due terzi dei bambini palestinesi.

- 40.000 bambini dei Territori occupati sono costretti a lavorare, a cause delle pessime condizioni finanziarie delle famiglie.

- Una malnutrizione cronica interessa il 10% dei bambini al di sotto dei 5 anni; solo a Gaza, ben 50.000 bambini risultano malnutriti.

- Piu’ del 70% dei bambini di Gaza al di sotto dei 9 mesi risulta affetto da anemia, il che può determinare gravi conseguenze per il loro sviluppo fisico e cognitivo.

- La maggior parte dei Palestinesi vive con una dotazione d’acqua ben inferiore a quanto raccomandato dalla World Health Organization per cucinare, bere e lavarsi (150 litri al giorno per persona); nella West Bank ciascun Palestinese ha accesso a circa 56 litri d’acqua al giorno, mentre tale quantità scende a 51 litri nella Striscia di Gaza.

- Per il 27% delle famiglie palestinesi risulta problematico accedere ai servizi sanitari a causa dei check-points di Tsahal, per il 37% a causa delle chiusure e delle restrizioni israeliane, e per il 46% a causa dei costi dei trattamenti medici.

- 10.000 bambini muoiono ogni anno, a causa soprattutto di malattie prevenibili e scarse cure per i neonati.

- Quasi la metà dei bambini palestinesi ha avuto esperienze di forti traumi e stress causati dalle violenze e dai raid israeliani, o è stato testimone di violenze contro un membro della propria famiglia.

- A causa delle chiusure e dei coprifuoco, più di 226.000 scolari di 580 scuole della West Bank, particolarmente nella zona settentrionale, trova impossibile, saltuario o pericoloso il recarsi a scuola.

- Un’intera generazione di bambini giornalmente assiste sempre più a episodi di violenza, persino all’interno delle scuole, che dovrebbero essere luogo sicuro e protetto; uno studio risalente al 2004 della Birzeit University ha rilevato che il 45% degli studenti ha visto la propria scuola assediata dall’esercito israeliano, il 18% ha assistito all’uccisione di un compagno di scuola ed il 13% a quella di un insegnante.

Un’intera generazione di bambini – aggiungo io – massacrata e in balia di un’occupazione militare illegale e sempre più brutale e feroce, abbandonata a un destino di violenza, morte e devastazione dall’Occidente “civilizzato”, che assiste impassibile ad ogni più efferato crimine di guerra commesso quasi quotidianamente dai valorosi soldatini di Tsahal.

Nessuna pena, nessun soccorso e, dunque, nessuna speranza per questi poveri innocenti.

Nessuna speranza, neanche per il piccolo Talal, 5 anni, che allo staff di Save the Children ha dichiarato:
“Vado all’asilo ogni giorno da solo. Ho paura quando vado solo. Ho paura che gli Israeliani mi spareranno. Vorrei che fosse mia madre a portarmi all’asilo, ma mia madre è occupata. Mio padre è stato arrestato dagli Israeliani e adesso è in prigione. Ho visto gli Israeliani prenderlo. Non l’ho più visto da allora”.

E noi, che stiamo facendo per il piccolo Talal?

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