12 novembre 2008

Israele ha bisogno di un esame di coscienza.

Il risultato delle elezioni politiche che si svolgeranno in Israele nel mese di febbraio del prossimo anno, unitamente a quello delle recenti elezioni presidenziali Usa, secondo molti commentatori dovrebbe portare importanti novità per il futuro del Medio Oriente.

Ci permettiamo di dubitarne, e in proposito riportiamo un articolo del giornalista arabo-americano George Hishmeh, pubblicato il 30 ottobre sul quotidiano on line Middle East Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Per limitarci al campo israeliano, Tzipi Livni, già ministro degli esteri nel governo Olmert e candidato premier di Kadima, in mesi e mesi di trattative con i Palestinesi non è riuscita a giungere ad alcuna intesa sui confini, ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e non ha assunto alcun impegno su Gerusalemme.

Ancora in questi giorni, la Livni ha sentito il bisogno di distanziarsi dalle dichiarazioni di Olmert in occasione delle celebrazioni commemorative in onore di Yitzhak Rabin, durante le quali il premier uscente aveva sostenuto la necessità del ritorno di Israele ai confini del 1967 (salvi alcuni aggiustamenti territoriali) e di restituire ai Palestinesi i quartieri arabi di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni alle prossime elezioni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu, è peraltro da sempre, e con più forza, fiero avversario di ogni concessione territoriale e della divisione di Gerusalemme.

Trovandosi in campagna elettorale, ha lievemente “addolcito” le sue posizioni, sostenendo di non essere contrario a colloqui di pace con i Palestinesi, ma di ritenerli solo” prematuri”; naturalmente, di condividere il controllo di Gerusalemme non se ne parla neppure.

A ciò aggiungasi la crescente aggressività dei coloni e le difficoltà incontrate dall’esercito israeliano nell’evacuare persino singoli insediamenti colonici illegali, il che fa prevedere che un eventuale sgombero dei settlers dall’intera Cisgiordania costituirebbe questione tutt’altro che agevole.

In buona sostanza, per Israele è ora di scegliere tra la soluzione a due stati, con la creazione di uno Stato palestinese che conviva accanto ad un Israele “ebraico”, e quella (invero aborrita) di un unico stato binazionale con eguali diritti per tutti i suoi cittadini, siano essi Arabi o Ebrei.

E, tuttavia, ora come sempre, sembra continuare a prevalere la “terza via” che vede uno Stato ebraico e democratico, da una parte, e uno Stato dell’apartheid in Cisgiordania (ma che dico, in Giudea e Samaria), fatto di checkpoint, colonie, strade ad uso esclusivo degli Ebrei, brutalità, aggressioni, omicidi. Il tutto con la complicità degli Usa e la sorprendente inerzia e indifferenza per i diritti umani dei Palestinesi mostrati dall’Europa.

E’ ovvio che sarebbe necessario un intervento risoluto della comunità internazionale, e in primis degli Usa, per ”costringere” i due contendenti a fare la pace e a raggiungere un equo compromesso su tutte le questioni sul tappeto.
Ma, viste anche le sue prime nomine, dubitiamo che Obama sia il Presidente degli Usa capace di imprimere una tale svolta.

NECESSITA’ DI UN PROFONDO ESAME DI COSCIENZA
di George Hishmeh

Ora è il turno di Israele di andare alle urne. Ciò che vale per l’America vale anche per lo stato ebraico. Gli israeliani eleggeranno il prossimo febbraio un nuovo parlamento di 120 membri.

I risultati delle elezioni in Israele e in America sono destinati a condizionare gli eventi in Medio Oriente; speriamo davvero che i nuovi leader dei due paesi portino buone notizie sia per gli arabi che per gli israeliani, entrambi così a lungo traumatizzati.

Le elezioni israeliane sono state anticipate a causa del fallimento di Tzipi Livni, il premier incaricato, nel suo tentativo di formare un nuovo governo di coalizione. Come ministro degli esteri uscente, la Livni è stata scelta dal suo partito in una elezione primaria a settembre affinché prendesse il posto del primo ministro Ehud Olmert, macchiatosi di corruzione, il quale a seguito del fallimento della Livni potrà continuare ad assolvere le sue funzioni, probabilmente fino a marzo, se non fino ad aprile, quando si sarà insediato un nuovo governo.

A suo credito bisogna dire che la Livni ha denunciato le condizioni poste dal partito ultra-ortodosso ‘Shas’, che controlla solo 12 seggi nella Knesset (il parlamento), per accettare di aderire al suo governo. Il partito voleva maggiore assistenza pubblica per i suoi elettori, nonché un impegno della Livni a non fare concessioni sul futuro di Gerusalemme. I palestinesi vogliono invece tornare nella Città Vecchia occupata dagli israeliani, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Reagendo indignata alle “irragionevoli richieste economiche e politiche” del partito Shas, la Livni ha abbandonato il suo tentativo di formare un governo e ha optato per le elezioni generali. “Chiunque sia disposto a vendere i propri principi per il posto di primo ministro non merita di occuparlo”, ha detto.

La cosa strana in tutto questo è che il partito Shas, riconosciuto come “un elemento cruciale nella costituzione delle coalizioni di governo”, è stato un membro del governo Olmert tuttora in carica che, a sua volta, ha negoziato per giungere ad un accordo israelo-palestinese, dal momento che si era impegnato a farlo alla conferenza di Annapolis nel novembre dell’anno scorso.

L’altra faccia della medaglia della Livni non è molto promettente. La Livni ha avuto colloqui con il suo omologo palestinese, Ahmed Qurei, per quasi un anno, ma Akiva Eldar, editorialista di spicco del quotidiano israeliano Haaretz, ha lamentato il fatto che essa “non ha fatto progressi significativi in direzione di un’intesa, in nessuna delle questioni in ballo”. In realtà, ha aggiunto, “non ha presentato una mappa che definisse i confini dello stato, ha dichiarato che a nessun rifugiato sarà consentito di tornare in Israele, e ha evitato un dibattito serio su Gerusalemme”.

Un serio rivale della Livni alle prossime elezioni israeliane è Benjamin Netanyahu, l’aggressivo leader del Likud, che ha dichiarato la sua indisponibilità a condividere Gerusalemme con i palestinesi ed a concordare il reinserimento dei profughi palestinesi che hanno lasciato la loro patria. Netanyahu, che è stato fino a questa settimana uno dei principali candidati nella corsa per la carica di primo ministro, è anche noto per la sua determinazione a non rinunciare all’occupazione delle alture del Golan in Siria, e delle principali aree della Cisgiordania occupata.

I coloni israeliani in Cisgiordania, che si oppongono a qualsiasi evacuazione, e che sono circa 460.000, sono diventati ultimamente un grave problema per la sicurezza. Attaccano i loro vicini palestinesi, e anche la polizia e i militari israeliani, ogniqualvolta questi ultimi provano ad intervenire per fermare gli scontri. Questo è esattamente ciò che è accaduto ultimamente a Hebron. I coloni israeliani sono insorti contro le forze armate israeliane e hanno tentato di incendiare uno dei veicoli della polizia; poi hanno rivolto la loro rabbia contro i palestinesi, danneggiando più di 80 delle loro automobili, infrangendo le finestre delle abitazioni palestinesi, nonché profanando un cimitero musulmano.

Il quotidiano Haaretz, in un editoriale, ha affermato che il comportamento dei coloni, “non può che essere definito ‘terrorismo’, nel senso letterale della parola: la volontà di diffondere la paura e l’intimidazione”.

La Banca Mondiale, in un rapporto pubblicato la scorsa settimana, ha condannato la violenza e il vandalismo dei coloni israeliani poiché scoraggiano gli investimenti in Cisgiordania. Nei territori occupati l’economia continua a “boccheggiare, nonostante l’incremento degli aiuti internazionali”, e la Banca Mondiale dà principalmente la colpa ad Israele, perché continua a tenere i territori palestinesi in una morsa soffocante.

Di recente si sono verificati anche gravi scontri nelle città miste arabo-ebraiche in Israele, come è accaduto ad Acri. Più di 50 negozi e oltre 150 autovetture di proprietà ebraica sono stati danneggiati, e sono stati anche segnalati 11 casi di incendio doloso di abitazioni arabe. Altri incidenti hanno avuto luogo nell’area di Tel Aviv e Jaffa, e vi è un crescente timore di possibili scontri sanguinosi nella città divisa di Lydda/Lod.

Il Mossawa Center, che rappresenta i cittadini arabi in Israele, ha denunciato che la comunità araba, costituita da più di 1 milione di cittadini, è stata discriminata in termini di accesso agli alloggi, all’istruzione e ai servizi pubblici. Questa è una protesta comune, sostenuta da molti gruppi che difendono i diritti umani.

A prescindere dal fatto che i recenti tumulti abbiano contribuito o meno, i leader israeliani sembrano aver scoperto in ritardo di sei anni l’iniziativa di pace araba. Il presidente israeliano Shimon Peres ha sollevato la questione durante la sua recente visita al presidente egiziano Hosni Mubarak; e l’ex primo ministro Ehud Barak, ora ministro della difesa nel governo uscente, ha anch’egli espresso interesse per la proposta araba.

Tuttavia, resta da vedere quanto facciano sul serio i leader israeliani. In risposta alle allusioni israeliane di voler negoziare la proposta, il presidente egiziano ha ribadito con forza a Peres che l’iniziativa non è negoziabile, e che tutto ciò che Israele deve fare è raggiungere un accordo con i palestinesi, con i siriani e con i libanesi. Una volta che ciò sarà stato fatto, tutti i paesi arabi, come promesso nell’iniziativa di pace, potranno stabilire normali relazioni con Israele.

Tanto quanto i loro omologhi americani, gli israeliani hanno bisogno di intraprendere un profondo esame di coscienza, se vogliono che la pace si diffonda in Medio Oriente.

George Hishmeh è un giornalista arabo-americano residente a Washington; collabora con diversi giornali arabi in lingua inglese, come il Gulf News, il Jordan Times, ed il Daily Star; è stato presidente della Washington Association of Arab Journalists (WAAJ); è nato a Nazareth, in Palestina

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27 marzo 2008

Notizie in breve.

Un uomo di fede.
E’ lecito presumere che anche un rabbino, in quanto uomo di fede, sia persona mite e pia, ben disposta verso il suo prossimo, ma non sempre è così.

E allora accade che il rabbino capo di Safed, Shmuel Eliyahu, inviti il proprio governo ad una “orribile vendetta” contro gli Arabi a seguito del recente attacco alla scuola rabbinica Mercaz Harav, al fine di ristabilire il potere di deterrenza israeliano.

E cosa propone il buon rabbino, in un articolo scritto per una newsletter distribuita nelle sinagoghe di tutto il Paese?

E’ molto semplice: “appendere ad un albero i figli del terrorista che ha compiuto l’attacco alla yeshiva Mercaz Harav”.

Magari con un cartello al collo con la scritta “banditi”, come si usava ai bei tempi andati…

Qualcuno di recente ha dichiarato – in una lettera in cui si spiegavano i motivi della propria conversione al cattolicesimo – che l’Islam è una religione “fisiologicamente” violenta.

Beh, alla luce delle dichiarazioni di certi rabbini, forse poteva dare uno sguardo anche all’ebraismo!

Le incredibili dichiarazioni di Tzipi Livni.
Nel corso di una conferenza organizzata ieri a Gerusalemme, il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha avuto modo di dichiarare che le operazioni dell’esercito israeliano a Gaza non ostacolano il processo di pace ma, al contrario, aiutano a farlo progredire.

Ne saranno senz’altro lieti i familiari e gli amici dei 124 Palestinesi uccisi durante l’operazione “Hot Winter”, e in particolare i 31 bambini massacrati dai macellai di Tsahal tra il 27 febbraio e il 2 marzo di quest’anno: il loro sacrificio non è stato vano, ma è servito a far “progredire” il processo di pace!

La Livni si è anche lamentata del fatto che esiste “un enorme e intollerabile divario” tra chi sono gli Israeliani e quali sono i loro valori, e l’immagine di Israele nel mondo.

Chissà mai perché!

La centodiciottesima vittima.
A proposito di vittime innocenti, martedì notte è morta a Gaza Jazyiah Abu Hilal, una Palestinese di 65 anni da tempo ammalata di cancro, a cui le autorità israeliane hanno negato il permesso di recarsi all’estero per ricevere le cure mediche adeguate al caso, non disponibili nella Striscia.

Si tratta della centodiciottesima vittima innocente dell’inammissibile blocco imposto alla Striscia di Gaza a partire dal giugno dell’anno scorso, che impedisce ai Palestinesi di poter uscire da Gaza persino per ricevere trattamenti sanitari urgenti e indifferibili.

Si tratta di un bilancio senz’altro incompleto, in quanto, come riferisce l’organizzazione Physicians for Human Rights, molti Palestinesi che conoscono l’attuale situazione ai valichi di frontiera rinunciano a un’attesa estenuante e spesso senza speranza, e preferiscono morire a casa loro.
Non riusciamo a immaginare una forma di punizione collettiva più barbara e disumana di quella di negare ad un malato la possibilità di ricevere le cure mediche che potrebbero salvargli la vita, metterlo di fronte all’angosciante alternativa di un permesso o di una reiezione (ovvero alla possibilità di non ricevere affatto risposta), alternativa che può rappresentare la differenza tra la vita e la morte.

Ma parlare di diritti umani quando si ha a che fare con Israele ormai non ha più alcun significato.

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