28 marzo 2013

Netanyahu, la versione israeliana di Rambo

Un'altra bella vignetta di quell'inveterato antisemita di Carlos Latuff!

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21 dicembre 2011

E' primavera anche per la destra israeliana

Le paure suscitate ad arte in Israele, che si sente minacciato dalla primavera araba e dai fondamentalisti alle porte, hanno consentito al premier Netanyahu di tacitare le proteste di piazza e di rafforzare la sua ideologia e il suo governo.

Purtroppo questo comporta l’incremento dell’attività di espansione delle colonie, delle demolizioni e degli espropri, anche e soprattutto a Gerusalemme est: in una parola, insomma, la fine di ogni realistica possibilità di componimento pacifico del conflitto israelo-palestinese.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, scritto per Ha’aretz dal giornalista Aluf Benn e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.

Springtime for the Israeli right as well
di Aluf Benn – 16.12.2011

La reazione di Israele agli sconvolgimenti della primavera araba è stata un attacco di panico i cui sintomi si sono progressivamente aggravati via via che le manifestazioni di Facebook e Twitter negli Stati arabi si sono trasformate in violente guerre civili e hanno rafforzato i movimenti islamisti. La paura lungamente repressa di Israele che la caduta di Hosni Mubarak avrebbe fatto emergere i Fratelli Musulmani al suo posto e che l’Egitto sarebbe diventato un nuovo Iran – o, nel migliore dei casi, una Turchia in stile Erdogan – si sta realizzando, e la preoccupazione sta crescendo.

L’apprensione di Israele non riflette soltanto un’istintiva repulsione per l’Islam politico: essa riguarda anche gli equilibri di potere regionali. La situazione strategica di Israele è peggiorata nell’ultimo anno. Le alleanze regionali con la Turchia e l’Egitto sono crollate. Inoltre, non è chiaro per quanto tempo ancora esisterà quella con il regno hascemita di Giordania; nel frattempo, anche quest’ultimo sta tenendo a distanza Israele. Gli Stati Uniti, indeboliti sotto la traballante leadership di Barack Obama, non comandano più in Medio Oriente. La Grecia, nuovo alleato di Israele, sta cadendo a pezzi a causa della crisi economica. L’Iran ignora le minacce e le sanzioni, e prosegue la sua corsa al nucleare. L’Autorità Palestinese si sta avvicinando sempre più ad Hamas.

Questo fosco scenario è punteggiato da qualche sprazzo di luce. Il regime di Assad in Siria si è avvitato in una crisi senza uscita, a seguito della quale anche Hezbollah si è indebolito. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas voleva che le Nazioni Unite riconoscessero la Palestina, ma Israele ha fatto naufragare la sua iniziativa. L’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, che, come Israele, sono affezionati al vecchio ordine regionale e temono i cambi di regime e la crescente potenza dell’Iran, stanno tacitamente collaborando con Israele su questioni di interesse comune.

Ma tutto questo è magra consolazione. A fronte di un crescente isolamento, Israele ha reagito come il bullo della classe quando viene spaventato, scoprendo i denti e minacciando guerra. Ha compiuto un test di missili balistici ed esercitazioni di attacco a lungo raggio, creando l’impressione che fosse sul punto di colpire gli impianti nucleari iraniani. Il messaggio rivolto ai vicini e alla comunità internazionale è: “Israele è ancora importante, e può combinare guai”.

Gli sconvolgimenti regionali di quest’anno hanno preoccupato la maggior parte degli israeliani, ma fra essi ve n’è uno che ha trasformato la paura in un’opportunità politica senza precedenti. Fin dall’avvento della primavera araba, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha compreso che la caduta di Mubarak poneva fine alla dottrina “terra in cambio di pace”. Dal punto di vista di Netanyahu e dei suoi colleghi di destra, era stato ormai dimostrato oltre ogni dubbio che non vi è nessuno con cui dialogare e niente di cui parlare, e che qualunque territorio evacuato da Israele alla fine diventerà una base per attacchi terroristici contro lo Stato ebraico – come sta accadendo ora nel Sinai. Da un giorno all’altro, la sinistra israeliana ha perso l’ideologia alla base della sua proposta per risolvere il conflitto con gli arabi, che aveva predicato per anni. Una merce che non ha più acquirenti ora.

In una dichiarazione davanti alla Knesset il 23 novembre, Netanyahu si è vantato dicendo che era stata confermata la sua valutazione secondo cui, invece che dalla democrazia liberale, gli Stati arabi sarebbero stati sommersi da un’ “ondata islamista”. Avevo ragione – ha dichiarato compiacendosi – quando ho chiesto di essere cauti nei colloqui con i palestinesi e di non affrettarsi a fare concessioni.

Né egli si è limitato ai semplici commenti. Incoraggiato dall’indebolimento del suo rivale Barack Obama, Netanyahu ha accelerato l’attività edilizia negli insediamenti e intensificato gli espropri intorno a Gerusalemme.

Un altro piccolo sforzo, altri due o tre anni al potere, e il sogno della destra si realizzerà: ebrei in numero sufficiente saranno insediati lungo il crinale della Cisgiordania per tagliare la strada una volta per tutte all’idea di due Stati per due popoli.

Partendo dalla Cisgiordania, negli ultimi mesi Netanyahu ha spostato la sua attenzione all’interno di Israele, lanciando una campagna per sopprimere i propri rivali nei settori della politica, della magistratura e dell’informazione. Egli ha liberato Gilad Shalit raggiungendo un accordo con Hamas, cosa che gli ha fatto recuperare il sostegno del centro, e si è posizionato come un leader popolare senza veri concorrenti. Incoraggiato dalla sua ascesa nei sondaggi, il premier ha compiuto passi volti ad anticipare le prossime elezioni generali, in modo da ottenere un altro mandato prima che la recessione si aggravi e che i suoi rivali abbiano la possibilità di riorganizzarsi, e in modo da prevenire possibili ingerenze americane in occasione delle elezioni israeliane qualora Obama dovesse sorprendere le aspettative vincendo un secondo mandato.

Le paure scatenate dalla primavera araba hanno portato Netanyahu più vicino che mai all’obiettivo di perpetuare il suo dominio e di schiacciare le “vecchie élite” di Israele. Negli Stati arabi, i fiori della primavera sono appassiti rapidamente. Invece nell’ufficio del primo ministro a Gerusalemme, e nelle sale riunioni delle fazioni della destra nella Knesset, i suoi alleati stanno fiorendo in vivaci espressioni di auto-compiacimento, nell’attesa di una schiacciante vittoria ideologica e politica sulla sinistra.

Aluf Benn è un giornalista israeliano; è corrispondente diplomatico del quotidiano israeliano ‘Haaretz’; segue la politica estera israeliana ed il processo di pace israelo-palestinese dal 1993

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8 novembre 2011

"Non lo posso sopportare". "Figurati io!"

Gustoso "fuorionda" durante una conversazione tra il Presidente francese Nicolas Sarkozy e quello Usa Barack Obama.

La scorsa settimana, a margine del summit del G20 a Cannes, i due sono rimasti a colloquio pensando di parlare riservatamente, ma per un errore tecnico i loro discorsi sono stati ascoltati da alcuni giornalisti, e riportati ieri dal sito web francese Arret sur images.

Parlando di un capo di governo, Sarkozy dapprima lo ha definito un "bugiardo" e poi ha affermato "non posso sopportarlo", al che Obama avrebbe replicato "tu non ne puoi più di lui, ma io devo averci a che fare ogni giorno"!

Al che uno si sarebbe aspettato che stessero parlando di Silvio Berlusconi, ma - sorpresa - i due Presidenti stavano invece discutendo del capo del governo israeliano Bibi Netanyahu.

Ma mentre la scarsa considerazione del Presidente del Consiglio italiano ha portato il nostro Paese ad una sorta di commissariamento di fatto in campo economico, la scarsa considerazione che di Netanyahu hanno Obama e Sarkozy, ma molto probabilmente anche vari altri capi di stato occidentali, non sembra avere alcuna conseguenza per Israele, che può tranquillamente espandere i propri sobborghi colonici a Gerusalemme o trattenere illegalmente le entrate fiscali dell'Anp nonostante l'avviso contrario della Germania e degli Usa.

Ma è mai possibile che nessuno riesca a ricondurre alla ragione e al rispetto della legalità i piromani israeliani, che con le loro azioni scriteriate - poste in essere o ancora solo minacciate (vedi guerra all'Iran) - rischiano di incendiare il medio oriente e di portare il mondo intero sull'orlo dell'abisso?

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7 luglio 2011

Il grosso grasso matrimonio greco di Netanyahu

Era sembrato troppo bello che la Freedom Flotilla 2 – Stay Human fosse riuscita a mettere a segno un colpo, riuscendo a far partire alla chetichella una delle sue navi, la “Dignité”. Purtroppo anche la nave francese, a bordo della quale, tra gli altri, vi sono Olivier Besancenot, già candidato alle elezioni presidenziali in Francia, Nicole Kiil-Nielsen, europarlamentare dei Verdi, e Annick Coupé, sindacalista dell’Union Syndicale Solidaires, alla fine è stata fermata da una cannoniera della guardia costiera greca.


Gli Israeliani sembrano considerare la Freedom Flotilla una vera e propria minaccia esistenziale, e si sono inventati di tutto pur di cercare di fermare la sua partenza alla volta di Gaza.


Prima si è avuto un intenso e proficuo lavorio diplomatico, che ha portato i governi delle nazioni a cui appartengono i partecipanti a questa missione umanitaria, e persino l’Onu, a invitare incredibilmente i propri cittadini a non partire alla volta di Gaza, anziché pretendere da Israele che ne venisse garantita l’incolumità.


Poi si è scatenato il poderoso apparato propagandistico israeliano, di cui tutto si può dire salvo che manchi di fervida fantasia.


Così dapprima Israele ha cercato di propinare all’opinione pubblica l’abissale panzana secondo cui a Gaza, lungi dall’esservi una crisi umanitaria, si trovano ogni sorta di beni e mercanzie e si può vivere quasi da nababbi, poi ha diffuso un video truffaldino in cui un sedicente attivista (rivelatosi poi un esperto di pubbliche relazioni israeliano) sosteneva che gli attivisti imbarcati avessero solidi e strutturati rapporti con i “terroristi” di Hamas e, infine, ha reso noto che gli attivisti della Flotilla erano intenzionati a “spargere il sangue” dei soldati dell’Idf e che a bordo delle navi vi erano sostanze chimiche e incendiarie con cui attaccarli.


Visto che, tuttavia, le trovate propagandistiche non sembravano sortire alcun risultato, Israele si è “rassegnato” a chiedere alla Grecia, puramente e semplicemente, di non far salpare le navi della Flottiglia alla volta della Striscia di Gaza.


Resta allora da capire perché i Greci si siano piegati alle richieste (o al ricatto?) di Israele, facendo la figura di uno stato vassallo e mero esecutore degli ordini israeliani, bloccando le navi della Flottiglia con un provvedimento palesemente immotivato ed illegale.


La risposta è molto semplice: Israele sta mettendo all’incasso la cambiale del suo intervento in favore della Grecia presso l’Unione europea, approfittando dello stato di gravissima crisi finanziaria che il Paese attraversa. Di questo tratta l’articolo che segue, scritto per Ha’aretz dal giornalista israeliano Barak Ravid e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.


Netanyahu’s big fat Greek Wedding


Netanyahu ha investito nel suo rapporto con la Grecia nel corso dell’ultimo anno e mezzo, e la sua scommessa alla fine ha pagato visto che la Grecia blocca la partenza dai suoi porti della Flotilla per Gaza.


di Barak Ravid – 1.7.2011


Il primo ministro Benjamin Netanyahu a volte sembra quasi troppo arrogante, e più sicuro di sé di quanto non gli giovi. Tuttavia, contrariamente al solito, questo finesettimana egli in realtà aveva una giustificazione per la sua superbia.


L’investimento personale di Netanyahu nel suo rapporto con il primo ministro greco George Papandreou nell’ultimo anno e mezzo, attraverso il quale ha intensificato le relazioni diplomatiche con questa nazione europea in grave crisi, sembra aver dato il colpo di grazia alla flottiglia di Gaza.


Nel suo discorso di giovedì sera, in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola di Volo dell’Aeronautica israeliana, Netanyahu ha discusso gli sforzi diplomatici in atto per impedire alla flottiglia di Gaza di salpare. L’unico leader che Netanyahu ha citato per nome nel suo discorso è stato il greco George Papandreou.


Solo un giorno prima, il primo ministro israeliano aveva parlato con il suo omologo greco, implorandolo di dare un ordine che impedisse alle navi di salpare dalla Grecia verso la Striscia di Gaza. A differenza del passato, Papandreou ha risposto positivamente, e un alto funzionario israeliano coinvolto nei colloqui tra il primo ministro greco e Netanyahu ha dichiarato che Israele sapeva già dal pomeriggio di giovedì che la Grecia stava progettando di bloccare le navi dirette dai suoi porti verso la Striscia.


La storia d’amore tra Netanyahu e Papandreou ebbe inizio nel febbraio del 2010, quando i due si incontrarono casualmente al ristorante “Puskin” di Mosca. Netanyahu approfittò del loro incontro per parlare con il primo ministro greco dell’estremismo turco contro Israele, e i due divennero ben presto amici.


Il leader israeliano e quello greco si sono parlati almeno una volta alla settimana da quando si sono incontrati a Mosca.


La flottiglia turca diretta a Gaza nel maggio del 2010 suscitò gravi preoccupazioni tra i ranghi dell’intelligence e dell’esercito in Grecia, i quali iniziarono a esercitare pressioni sul governo affinché rafforzasse i legami diplomatici con Israele. Papandreou non aveva bisogno di molto per farsi convincere.


Nel luglio del 2010 egli giunse a Gerusalemme, in quella che fu la prima visita ufficiale di un primo ministro greco in Israele in 30 anni. Poche settimane dopo, Netanyahu si recò ad Atene, e trascorse un’intera giornata con Papandreou e altri funzionari su un’isola vicina.


I diplomatici israeliani possono attestare che lo sbocciare dell’amicizia tra i due paesi nel corso del passato anno e mezzo è stato a dir poco spettacolare. Lo scambio di informazioni di intelligence è aumentato, l’aeronautica militare israeliana ha condotto una serie di esercitazioni congiunte con l’aeronautica greca, e Netanyahu ha chiesto l’assistenza di Papandreou per trasmettere diversi messaggi al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas.


Molti dei colloqui tra Netanyahu e Papandreou nei mesi scorsi hanno ruotato attorno alla grave crisi finanziaria di cui la Grecia sta attualmente soffrendo. Netanyahu ha recentemente deciso di venire in aiuto del suo nuovo amico in una riunione dei ministri degli esteri e dei leader europei, chiedendo loro di fornire aiuti finanziari alla Grecia.


“Netanyahu è diventato il lobbista della Grecia presso l’Unione Europea”, ha affermato un diplomatico israeliano.


Nelle ultime settimane, mentre gli sforzi per fermare l’imminente spedizione della flottiglia filo-palestinese a Gaza giungevano a un punto critico, Netanyahu ha colto i benefici del suo investimento nei rapporti greco-israeliani, e la sua scommessa su questo paese europeo si è rivelata vincente.


Egli è stato in grado di creare una valida alternativa alle relazioni con la Turchia, sotto vari aspetti, mostrando a Erdogan che Israele non esiterà a stringere un rapporto molto stretto con il suo più grande nemico in Occidente.


E quando è giunto il momento della verità, la Grecia ha dato seguito alle promesse ordinando che a tutte le navi in partenza verso Gaza venisse impedito di lasciare i suoi porti. La decisione della Grecia, insieme con l’annuncio dell’organizzazione umanitaria turca IHH che la Mavi Marmara non sarebbe partita, e con il comunicato del presidente di Cipro che vietava alle navi di dirigersi a Gaza, ha segnato quasi del tutto il destino della flottiglia.


“Gli organizzatori della flottiglia non hanno tenuto conto del fatto che la Grecia del luglio 2011 non è la Grecia del maggio 2010″, ha affermato un alto funzionario israeliano che ha lavorato intensamente negli ultimi mesi per evitare che la missione della flottiglia di Gaza avesse luogo.


“Oggi c’è un Grecia diversa, per quanto riguarda Israele”, ha aggiunto. “Gli organizzatori della flottiglia non lo hanno capito, e ora ne stanno pagando il prezzo”.


Barak Ravid è un giornalista israeliano; è corrispondente diplomatico del quotidiano Haaretz; in precedenza ha lavorato per il quotidiano Maariv


(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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13 giugno 2011

Netanyahu persona non gradita in Italia!



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1 agosto 2010

I trucchi e gli inganni di chi non vuole la pace.

Questo video, mandato in onda in Israele da Channel 10 News, mostra l’attuale primo ministro israeliano Netanyahu che, nel 2001, si trova a casa di un suo elettore e, non sapendo di essere ripreso, getta la maschera della menzogna e parla liberamente degli Accordi di Oslo, del processo di pace, degli Usa.

Così veniamo a sapere chi veramente ha fatto fallire gli Accordi di Oslo – Israele e non i Palestinesi – e conosciamo da un assoluto protagonista quella che è l’attitudine menzognera degli Israeliani, che siglano gli accordi e subito dopo li piegano a loro favore con l’inganno o semplicemente li disattendono.

Veniamo a sapere quale è il modo in cui gli Israeliani intendono tenere i rapporti con i Palestinesi, bisogna “colpirli duramente” in modo da piegarne la resistenza facendo pagar loro “un prezzo insostenibile”, tanto la comunità internazionale, e in special modo l’America, si berrà la favola dell’autodifesa. Quell’America che può essere facilmente” manovrata” e piegata ai voleri dello stato sionista.

E, alla fine, ci rendiamo conto che la tattica israeliana è, è sempre stata e sempre sarà – a meno che gli Usa e gli altri stati che contano non rinsaviscano – una ed una soltanto: restare in possesso dei territori palestinesi occupati e delle loro risorse limitandosi a pagare “un prezzo minimo”. E utilizzando, a tal fine, ogni possibile inganno e ogni manovra dilatoria.

E poi, magari, qualcuno ha anche il coraggio di criticare Abu Mazen perché non vuole avviare negoziati diretti con Israele e il suo leader infido e menzognero senza aver prima ricevuto l’assicurazione scritta che la base dell’accordo di pace sarà costituita dai confini del 1967 e che, durante i colloqui, la moratoria della costruzione negli insediamenti sarà prorogata.

Non aveva certo bisogno di guardare questo video per diffidare di Bibi e degli Israeliani!

Sull’argomento, Gideon Levy ha scritto per Ha’aretz l’articolo che segue, qui riportato nella traduzione offerta dal sito dell’API (Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus).

Infido Bibi

Israele ha avuto molti leader di destra dall’epoca in cui Menachem Begin promise “molte Elon Moreh”, ma non c’è mai stato nessuno come Netanyahu, che vuole farlo con l’inganno

di Gideon Levy – 15.7.2010

Questo video avrebbe dovuto essere proibito ai minori. Questo video avrebbe dovuto essere visto in tutte le case di Israele e poi mandato a Washington e a Ramallah. Proibito ai bambini, per non corromperli e distribuito in tutto il paese e nel mondo perché ognuno sapesse chi è alla testa del governo di Israele. Canale 10 ha presentato: Il vero (e infido) volto di Binyamin Netanyahu. Trasmesso venerdì sera in “Questa settimana con Miki Rosenthal”, è stato girato in segreto nel 2001, durante la visita del cittadino Netanyahu a una famiglia in lutto della colonia di Ofra e, sorprendentemente, non ha creato scompiglio.

La scena era a un tempo patetica e scandalosa. L’ultimo dei devoti seguaci di Netanyahu, convinto che questi porti la pace, se l’ha vista ha cambiato subito opinione. Il Presidente Barack Obama e Shimon Peres, che continuano a credere che Netanyahu porterà la pace, parlerebbero un altro linguaggio se avessero visto questo video girato in segreto. Se il Presidente dell’Autorità palestinese obiettasse a prender parte a negoziati diretti con l’uomo del video sarebbe comprensibile. Cosa c’è da discutere con un piccolo mercante il cui solo scopo è di “dare il 2 per cento per evitare il 100 per cento”, come il padre gli diceva, citando il nonno?

Israele ha avuto molti leader di destra dacché Menachem Begin promise “molte Elon Moreh”, ma nessuno come Netanyahu, che vuole farlo con l’inganno, prendersi gioco dell’America, turlupinare i palestinesi e portare noi chissà dove. Le stesse parole dell’uomo del video tradiscono l’imbroglione, e adesso è di nuovo primo ministro di Israele. Nessuno mi dica che da allora è cambiato. Un modo di pensare così truffaldino non cambia con gli anni.

Lasciamo perdere il discorso all’Università Bar-Ilan, lasciamo stare i potenziali successi della sua ultima visita negli USA; il vero Netanyahu è questo qui. Nessuno pretenda più che gli Accordi di Oslo sono falliti per colpa dei Palestinesi. Netanyahu ha esposto la nuda verità ai suoi ospiti di Ofra: ha distrutto gli Accordi di Oslo con le sue mani, e ne è pure orgoglioso. Dopo anni che ci sentivamo dire che la colpa era dei Palestinesi, la verità è venuta dall’alto.

E come l’ha fatto? Ha ricordato di aver posto condizioni alla sua firma dell’accordo di Hebron del 1997 con il consenso degli americani, secondo cui non ci sarebbe stato alcun ritiro di truppe da “siti militari specifici” e ha insistito di aver scelto lui quei luoghi, come per esempio l’intera valle del Giordano. “Perché la cosa è tanto importante? Perché da quel momento bloccai gli Accordi di Oslo”, si vanta. Il vero Netanyahu millanta anche la sua conoscenza dell’America:”Io so che cos’è l’America. L’America è qualcosa che si può facilmente manovrare”. Per informazione della Casa Bianca.

Chiama l’ex presidente USA Bill Clinton “estremamente filopalestinese” e dice che i Palestinesi vogliono buttarci in mare. Di fronte a idee così retrograde, nessuno può sostenere in modo convincente che egli voglia un accordo.

Queste osservazioni sono profondamente deprimenti. Confermano tutte le nostre paure e sospetti: che il governo di Israele è guidato da un uomo che non crede ai palestinesi né crede alla possibilità di un accordo con loro, il quale pensa di avere Washington in tasca e di poter gettare fumo nei suoi occhi. Non c’è ragione di attribuire all’impossibile coalizione di destra di Netanyahu la responsabilità dello stallo. D’ora in poi, dobbiamo dire che Netanyahu non vuole.

E se Kadima entrasse nel governo e Yisrael Beiteinu se ne andasse? Nulla cambierebbe. E se Danny Danon diventasse di sinistra e Tzipi Hotovely entrasse in La pace adesso? Netanyahu non vuole l’accordo di pace.

Se l’avesse detto onestamente, come ha fatto quando credeva che la macchina da presa fosse spenta, avrebbe potuto essere perdonato per le sue posizioni estremiste. E’ suo diritto pensarla in quel modo ed essere eletto in base a quello. La gente avrebbe quel che ha voluto. Ma quando Netanyahu nasconde le sue vere posizioni tessendo inganni e raggiri, non solo riduce le possibilità di raggiungere un accordo, ma nuoce alla cultura politica di Israele. Molti possono volere un primo ministro di destra, nazionalista, ma un primo ministro che è un imbroglione? E’ esagerato aspettarsi che Netanyahu ci parli esattamente come ha parlato a Ofra? Perché una manciata di coloni meritano di sapere la verità, e noi no? Dicci la verità, Netanyahu. Parla con noi come se le macchine da presa fossero spente, proprio come cedevi allora, nel 2001 a Ofra.

(tradotto da Marilla)

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6 marzo 2010

I trucchi di Netanyahu si stanno esaurendo.

Israele in questi anni ha approfittato del largo (e ingiustificato) credito concesso dalla comunità internazionale per mantenere salda la presa sui Territori occupati e garantirsi un sicuro status quo, fingendo di voler condurre trattative di pace con i Palestinesi che, nella realtà, si sono sempre tradotte in defatiganti tattiche dilatorie e in continui mercanteggiamenti.

E, tuttavia, il tempo sembra che stia per scadere e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non potrà ancora a lungo continuare a rimandare i problemi reali.

Da una parte, infatti, il primo ministro palestinese Salam Fayyad si è messo alla testa di quella che è stata definita una “Intifada bianca”, che prevederebbe la costruzione di un’infrastruttura istituzionale per il futuro stato palestinese, accompagnata da una dichiarazione della fondazione dello stato palestinese e dalla richiesta del ritiro israeliano dalla Cisgiordania.

L’incapacità di soddisfare le richieste potrebbe essere tale da portare ad una campagna di sanzioni economiche contro Israele, in particolare da parte dell’Europa, e ad altre iniziative nella direzione del boicottaggio e dell’ostracismo. Israele si troverà quindi dinnanzi a due difficili alternative: cedere alle pressioni – il che significherebbe abbandonare la possibilità di avere il coltello dalla parte del manico nel processo di pace – o opporvisi, il che potrebbe esporla ad un maggiore isolamento internazionale.

Gli Usa e i Paesi europei, peraltro, cominciamo a manifestare segni di nervosismo a cagione del fatto che il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi non muove un solo passo in avanti, e non sembrano più disposti a lasciare inascoltate le proteste e le rivendicazioni del popolo palestinese.

Ma, dall’altro lato, il movimento dei coloni – in passato apertamente incoraggiati e foraggiati economicamente – continua a rafforzarsi ogni giorno di più, approfittando dell’irresolutezza dei governi israeliani, e non pare disposto nemmeno a discutere di ipotetici ritiri dalla West Bank, che gli accordi di pace con i Palestinesi chiaramente richiederebbero.

Come si comporterà Netanyahu preso in mezzo tra due fuochi, l’Intifada di Fayyad e quella dei coloni israeliani? Se lo chiede il giornalista di Ha’retz Aluf Benn nell’articolo che segue, tradotto da Medarabnews.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu è occupato giorno e notte per preparare Israele ad un confronto fatidico con l’Iran. Ma il suo vero problema potrebbe trovarsi altrove. Le tensioni nei Territori palestinesi stanno crescendo, e i palestinesi stanno intensificando le loro proteste contro gli insediamenti e la barriera di separazione israeliana. I coloni, nel frattempo, possono fiutare la debolezza di Netanyahu e stanno minando l’autorità dello Stato.

Due eventi dei giorni scorsi indicano il rischio di un’esplosione: la protesta a Bil’in, alla quale ha partecipato il primo ministro palestinese Salam Fayyad, dove alcuni dei 1.000 dimostranti hanno distrutto un piccolo pezzo della barriera di separazione; e l’invasione dell’antica sinagoga di Na’aran da parte di decine di attivisti di destra al grido di: “torneremo a Gerico e Nablus”. In entrambi gli incidenti, la violenza è stata contenuta e nessuno è rimasto ferito. Eppure la lotta per la Cisgiordania è entrata in una nuova fase.

Fayyad, l’ex beniamino dell’establishment israeliano, sta dimostrando di essere il rivale più problematico di Netanyahu. Quello che un tempo era un economista e un tecnocrate è diventato gradualmente un politico – godendo di buona visibilità, baciando bambini, mettendosi a capo della “Intifada Bianca”, come l’hanno soprannominata i ricercatori Shaul Mishal e Doron Matza nel loro articolo su ‘Haaretz’ di questa settimana. Lunedì scorso, il governo palestinese ha adottato un piano d’azione per una “opposizione non-violenta” contro gli insediamenti e la barriera di separazione.

L’“Intifada Bianca” di Fayyad è diversa dalle precedenti. Essa ha un chiaro scopo politico: dichiarare uno Stato palestinese all’interno dei confini del 1967 entro l’estate del 2011. Per quella data, Fayyad avrà completato la costituzione delle istituzioni nazionali palestinesi, e starà lavorando per ottenere il riconoscimento internazionale attraverso una manovra diplomatica a tenaglia nei confronti di Netanyahu. Egli sta ottenendo un consenso entusiastico dall’amministrazione degli Stati Uniti in qualità di manager di successo. Circa 2.600 poliziotti palestinesi si sono già formati al corso di addestramento gestito dal generale americano Keith Dayton in Giordania e sono quindi tornati nei Territori aspettandosi di lavorare per uno Stato indipendente, e non come agenti subordinati ad un’occupazione israeliana. I ministri degli esteri di Francia e Spagna, in un articolo firmato da entrambi e pubblicato martedì su “Le Monde”, hanno chiesto di accelerare la fondazione di uno Stato palestinese e di completare il suo riconoscimento entro l’ottobre 2011.

Le proteste contro la barriera di separazione e gli insediamenti, viste attraverso la lente dei media internazionali, hanno un forte impatto e pongono Israele in un difficile dilemma. La risposta israeliana iniziale era stata di “colpire il nemico a casa sua”: un’ondata di arresti nei confronti di coloro che avevano organizzato le proteste a Bil’in e a Na’alin, e incursioni delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) a Ramallah per arrestare i membri dell’International Solidarity Movement. I funzionari della sicurezza israeliana hanno spiegato ai loro omologhi stranieri come questi attori “rappresentino una minaccia all’esistenza di Israele”. Tuttavia queste azioni sono fallite. I palestinesi non sono stati dissuasi e hanno continuato con le loro manifestazioni, sapendo che Israele non avrebbe osato fare del male a Fayyad e alla sua gente.

Il prossimo passo di Netanyahu sarà una massiccia campagna di pubbliche relazioni contro “l’istigazione (anti-israeliana (N.d.T.) ) all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese”. Ma Fayyad è pronto anche a questo: è in possesso di un rapporto in cui l’amministrazione americana attribuisce un’ottima valutazione agli sforzi di Fayyad per sbarazzarsi dei libri di scuola palestinesi con contenuti propagandistici anti-israeliani.

La posizione del primo ministro israeliano si sta aggravando anche per quanto riguarda i coloni, mentre si avvicina la fine del congelamento temporaneo degli insediamenti, prevista per settembre. Netanyahu ricomincerà a costruire a tutta velocità, come promesso, col rischio di creare una frattura col presidente americano Barack Obama? O prolungherà il congelamento degli insediamenti col rischio di una rivolta da parte dei coloni? Washington è preoccupata che Israele possa perdere il controllo sugli estremisti presenti negli insediamenti, così come teme una possibile spaccatura all’interno delle IDF, in cui soldati e ufficiali di orientamento religioso potrebbero rifiutarsi di obbedire agli ordini di evacuare o radere al suolo gli insediamenti.

I governi del “mondo” stanno perdendo la loro già scarsa pazienza con Netanyahu e il suo gabinetto, mentre in Europa si sono manifestate critiche per “l’assassinio” dell’importante esponente di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh – anche da parte di amici compiacenti nei confronti di Israele come Nicolas Sarkozy. Il negoziato di pace resta bloccato, e la “pace economica” ha ormai esaurito le sue possibilità. La settimana scorsa la Croce Rossa ha comunicato che la vita dei palestinesi non è migliorata, e che “è pressoché impossibile avere una vita normale in Cisgiordania”.

Netanyahu è in seria difficoltà. Il suo repertorio di trucchi si sta esaurendo. I palestinesi e i coloni stanno sfruttando la sua debolezza. Il mondo non crede in lui e mette in dubbio il suo controllo sul territorio. A meno che non sorprenda tutti quanti con un’ardita iniziativa che ridia slancio al suo programma, il primo ministro dovrà affrontare una doppia intifada: quella di Fayyad e quella dei giovani coloni degli avamposti illegali.

Aluf Benn è corrispondente diplomatico del quotidiano israeliano ‘Haaretz’; segue la politica estera israeliana ed il processo di pace israelo-palestinese dal 1993

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1 luglio 2009

Con Israele la pace è impossibile.

Il discorso pronunciato il 14 giugno scorso dal premier israeliano Benjamin Netanyahu all’Università Bar Ilan – in risposta al pressing e agli espliciti pronunciamenti del Presidente Obama per un più forte impegno degli Usa a favore di una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese – è stato tanto atteso quanto deludente, e non soltanto per i Palestinesi e il mondo arabo in generale.

Se, da una parte, per gli Stati Uniti il discorso di Netanyahu è stato un “importante passo in avanti” (e che altro potevano dire?), dall’altra vanno ricordate le
reazioni negative del Presidente dell’Anp Abu Mazen (Netanyahu “silura” tutti gli sforzi di pace), di Hamas (discorso “razzista ed estremista”) e persino del raìs egiziano Mubarak (“farà abortire tutte le possibilità di pace”).

Perché, se è vero che il primo ministro israeliano e il suo governo hanno ufficialmente accettato, obtorto collo, la soluzione a due stati, è altrettanto vero che essi cercano di farla naufragare sin dall’inizio ponendo condizioni che la rendono del tutto ridicola.

Questo è quello che ha fatto Netanyahu quando, nel suo discorso, ha detto che era pronto ad iniziare negoziati di pace immediatamente e senza precondizioni: egli ha chiesto ai Palestinesi di riconoscere Israele come la patria nazionale del popolo ebraico, di accettare uno stato palestinese smilitarizzato, di cancellare dall’agenda dei colloqui ogni accenno al diritto al ritorno dei profughi, di riconoscere Gerusalemme come capitale indivisibile dello stato ebraico, e questo ancor prima di iniziare a discutere di pace!

E, anche riguardo alla questione degli insediamenti colonici (illegali), il premier israeliano non ha esitato a rigettare gli obblighi che la road map impone in questo campo ad Israele, dichiarando che non verranno costruiti nuovi insediamenti ma che non si fermerà l’espansione di quelli già esistenti, sulla base del principio della cd. “crescita naturale”.

Ora, a parte il fatto che la cd. “crescita naturale” è un argomento clamorosamente falso e pretestuoso, dato che buona parte delle nuove costruzioni nelle colonie è destinata ai
nuovi arrivati da Israele o dall’estero, si deve ricordare che – solo a pochi giorni dal discorso di Netanyahu – il suo Ministro della Difesa Barak aveva già provveduto ad autorizzare la costruzione di 300 nuove abitazioni nell’avamposto illegale di Givat Habrecha, nei pressi della colonia di Talmon.

Trecento nuove case in un insediamento illegale persino secondo la legge israeliana, situato in territorio palestinese a 13 chilometri dalla green line, costruito (senza autorizzazione alcuna) su terreni di proprietà palestinese e che già avrebbe dovuto essere smantellato secondo quanto previsto dalla road map: davvero un caso esemplare di come Israele intenderebbe, ancora una volta, frodare la buona fede e la pazienza dei Palestinesi e della comunità internazionale.

E’ chiaro agli occhi di tutti come, ponendo simili condizioni, il governo delle destre capeggiato da Netanyahu non faccia altro che sabotare in partenza ogni possibile accordo di pace con i Palestinesi.

E’ questo il tema di un articolo pubblicato il 15 giugno scorso dall’accademico palestinese Mustafa Abu Sway su Bitterlemons.org, qui proposto nella traduzione del sito
Medarabnews
.
L’articolo si conclude affermando che, se Netanyahu non cambierà le sue posizioni, “il mondo dovrà aspettare fino al prossimo governo israeliano prima che le speranze di pace possano essere riaccese”. Ma, in realtà, non è che i governi precedenti abbiano mai saputo o voluto fare di più di quanto stia facendo l’attuale governo israeliano.

Ci troviamo maggiormente d’accordo, in verità, con quanto affermato di recente dallo scrittore israeliano David Grossman (in un articolo tradotto, tra gli altri dal quotidiano
La Repubblica): “Il discorso di Netanyahu, che doveva elevarsi verso il nuovo spirito diffuso nel mondo dal Presidente Obama, ci dice … che questa regione conoscerà la pace solo se questa ci verrà imposta”.

E’ necessario, infatti, che la comunità internazionale intervenga con decisione premendo su Israele affinché dia tangibile prova, non solo a parole, della sua volontà di arrivare ad un accordo di pace con i Palestinesi, iniziando intanto con un fermo reale della costruzione nelle colonie e con la fine del blocco disumano imposto a Gaza.

I mezzi non mancano, né agli Usa né alla Ue, che dal canto suo dovrebbe minacciare di denunciare ogni accordo politico ed economico con Israele, legandone l’esistenza - come peraltro sarebbe già previsto – al rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale da parte israeliana.

COSI’ PARLO’ NETANYAHU
15.6.2009

In “Così parlò Zarathustra”, il falso profeta di Friedrich Nietzsche, come è noto, annunciò la “morte di Dio”. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel suo discorso ha annunciato la morte delle speranze per la pace e per uno stato palestinese. Nessun diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Nessuna Gerusalemme per i Palestinesi. Nessun congelamento degli insediamenti. Nessuno spazio aereo sovrano. Per la verità, nessuna reale sovranità palestinese.

E c’è di peggio. Secondo Netanyahu, i Palestinesi non hanno radici storiche o diritti in Palestina. I Palestinesi si sono semplicemente trovati lì. Per Netanyahu, la Cisgiordania è la terra biblica degli antenati del popolo ebraico, che risale ad Abramo, e non appartiene a nessun altro. Questa è stata la sua risposta alla richiesta del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama di congelare gli insediamenti. Tutti i governi israeliani hanno sostenuto i progetti espansionistici dei coloni. Distinguere gli insediamenti ebraici in Cisgiordania tra “legali” ed “illegali” non fa altro che confondere il mondo. Tutti gli insediamenti, senza eccezione, sono illegali secondo il diritto internazionale.

Perché il dialogo interreligioso dà rilievo al fatto che Abramo è il padre di tutti noi, se palestinesi cristiani e musulmani non sono riconosciuti come suoi figli in una condizione di parità? E’ forse perché la madre degli arabi, Agar, era una schiava? Si tratta di una questione vecchia 3.500 anni. Quando fa comodo, Abramo viene utilizzato come un pretesto, una sorta di “riparo” per evitare i problemi reali sul terreno. La storia della Palestina non è iniziata con Abramo. Persino nel Vecchio Testamento, quando Abramo arrivò in Terra Santa, i Palestinesi erano già presenti in quel territorio. Quando Abramo dovette seppellire Sara, non poté vantare alcun diritto divino sul possesso della terra, ma pagò 400 shekel d’argento ai Palestinesi.

Sostenendo di condividere la visione di pace del presidente americano Barack Obama (il quale ha accolto con favore il discorso di Netanyahu considerandolo un passo importante), Netanyahu ha chiesto alla leadership palestinese di ritornare ai negoziati “senza precondizioni”, un eufemismo per respingere tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite e i precedenti accordi, compresa la road map. Si tratta di un chiaro insuccesso per il lavoro del Quartetto, così come per l’iniziativa di pace araba. L’Autorità Palestinese, tuttavia, non sta facendo altro che riciclare lo slogan “non esiste un partner per la pace”, rilanciando la palla ai leader israeliani.

Netanyahu ha anche promosso la sua nozione di “pace economica”. Egli non vuole solamente che gli arabi riconoscano Israele come stato ebraico, ma anche che investano economicamente in Israele. Vuole la piena normalizzazione delle relazioni senza offrire nulla in cambio. Ha parlato di turismo menzionando i siti religiosi cristiani, ma senza citare quelli musulmani. Ha parlato dell’utilizzo dell’energia solare e della costruzione di gasdotti per l’Africa e l’Europa, come se tutte le strade portassero a Tel Aviv. Non vi è alcuna menzione di un’eventuale fine dell’occupazione israeliana nel Golan siriano, ma egli è disposto ad andare a Damasco. Quest’uomo non può essere serio.

Netanyahu ha presentato l’immagine di una società israeliana pacifica. La radice del problema, ha sostenuto, risiede nel rifiuto arabo del diritto degli ebrei ad una patria nella loro terra storica. Ovviamente, nulla e’ stato detto rispetto alla natura coloniale del progetto sionista e alla miseria che esso ha arrecato al popolo palestinese, e ad altri, per più di 60 anni.

Tutti i problemi, secondo Netanyahu, provengono dall’esterno. Questo include i suoi proclami sulla minaccia nucleare iraniana. Se Netanyahu veramente condividesse la visione del Presidente Obama, allora dovrebbe parlare di un mondo senza armi nucleari, e sbarazzarsi dell’arsenale nucleare israeliano. E’ esattamente l’opposto di quanto richiesto da Netanyahu: il suo invito a “forti garanzie di sicurezza” è un eufemismo per far riferimento all’energia nucleare.

Il suo discorso al Begin-Sadat Center della Bar Ilan University ha rappresentato un ulteriore ironico colpo di scena. L’accordo tra Israele e l’Egitto si basava sul ritiro dal territorio egiziano occupato nel 1967. La stessa logica dovrebbe applicarsi al Golan siriano, alle fattorie di Shebaa in Libano, alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa. Invece di paragonarsi a Theodor Herzl, come se egli stesse pronunciando un discorso storico, Netanyahu avrebbe dovuto paragonarsi a Menachem Begin, che aveva ben compreso la formula “terra in cambio di pace”.

Le richieste di Netanyahu sono impossibili. Esse possono essere condivise solo dalla sua coalizione di destra. Se egli non cambia la sua posizione – cosa di per sé improbabile – il mondo dovrà aspettare fino al prossimo governo israeliano prima che le speranze di pace possano essere riaccese.

Il prof. Mustafa Abu Sway insegna all’Università di Gerusalemme

Titolo originale:
Thus spoke Netanyahu

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4 maggio 2009

Vignetta: Israele, un partner per la pace.

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12 novembre 2008

Israele ha bisogno di un esame di coscienza.

Il risultato delle elezioni politiche che si svolgeranno in Israele nel mese di febbraio del prossimo anno, unitamente a quello delle recenti elezioni presidenziali Usa, secondo molti commentatori dovrebbe portare importanti novità per il futuro del Medio Oriente.

Ci permettiamo di dubitarne, e in proposito riportiamo un articolo del giornalista arabo-americano George Hishmeh, pubblicato il 30 ottobre sul quotidiano on line Middle East Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Per limitarci al campo israeliano, Tzipi Livni, già ministro degli esteri nel governo Olmert e candidato premier di Kadima, in mesi e mesi di trattative con i Palestinesi non è riuscita a giungere ad alcuna intesa sui confini, ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e non ha assunto alcun impegno su Gerusalemme.

Ancora in questi giorni, la Livni ha sentito il bisogno di distanziarsi dalle dichiarazioni di Olmert in occasione delle celebrazioni commemorative in onore di Yitzhak Rabin, durante le quali il premier uscente aveva sostenuto la necessità del ritorno di Israele ai confini del 1967 (salvi alcuni aggiustamenti territoriali) e di restituire ai Palestinesi i quartieri arabi di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni alle prossime elezioni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu, è peraltro da sempre, e con più forza, fiero avversario di ogni concessione territoriale e della divisione di Gerusalemme.

Trovandosi in campagna elettorale, ha lievemente “addolcito” le sue posizioni, sostenendo di non essere contrario a colloqui di pace con i Palestinesi, ma di ritenerli solo” prematuri”; naturalmente, di condividere il controllo di Gerusalemme non se ne parla neppure.

A ciò aggiungasi la crescente aggressività dei coloni e le difficoltà incontrate dall’esercito israeliano nell’evacuare persino singoli insediamenti colonici illegali, il che fa prevedere che un eventuale sgombero dei settlers dall’intera Cisgiordania costituirebbe questione tutt’altro che agevole.

In buona sostanza, per Israele è ora di scegliere tra la soluzione a due stati, con la creazione di uno Stato palestinese che conviva accanto ad un Israele “ebraico”, e quella (invero aborrita) di un unico stato binazionale con eguali diritti per tutti i suoi cittadini, siano essi Arabi o Ebrei.

E, tuttavia, ora come sempre, sembra continuare a prevalere la “terza via” che vede uno Stato ebraico e democratico, da una parte, e uno Stato dell’apartheid in Cisgiordania (ma che dico, in Giudea e Samaria), fatto di checkpoint, colonie, strade ad uso esclusivo degli Ebrei, brutalità, aggressioni, omicidi. Il tutto con la complicità degli Usa e la sorprendente inerzia e indifferenza per i diritti umani dei Palestinesi mostrati dall’Europa.

E’ ovvio che sarebbe necessario un intervento risoluto della comunità internazionale, e in primis degli Usa, per ”costringere” i due contendenti a fare la pace e a raggiungere un equo compromesso su tutte le questioni sul tappeto.
Ma, viste anche le sue prime nomine, dubitiamo che Obama sia il Presidente degli Usa capace di imprimere una tale svolta.

NECESSITA’ DI UN PROFONDO ESAME DI COSCIENZA
di George Hishmeh

Ora è il turno di Israele di andare alle urne. Ciò che vale per l’America vale anche per lo stato ebraico. Gli israeliani eleggeranno il prossimo febbraio un nuovo parlamento di 120 membri.

I risultati delle elezioni in Israele e in America sono destinati a condizionare gli eventi in Medio Oriente; speriamo davvero che i nuovi leader dei due paesi portino buone notizie sia per gli arabi che per gli israeliani, entrambi così a lungo traumatizzati.

Le elezioni israeliane sono state anticipate a causa del fallimento di Tzipi Livni, il premier incaricato, nel suo tentativo di formare un nuovo governo di coalizione. Come ministro degli esteri uscente, la Livni è stata scelta dal suo partito in una elezione primaria a settembre affinché prendesse il posto del primo ministro Ehud Olmert, macchiatosi di corruzione, il quale a seguito del fallimento della Livni potrà continuare ad assolvere le sue funzioni, probabilmente fino a marzo, se non fino ad aprile, quando si sarà insediato un nuovo governo.

A suo credito bisogna dire che la Livni ha denunciato le condizioni poste dal partito ultra-ortodosso ‘Shas’, che controlla solo 12 seggi nella Knesset (il parlamento), per accettare di aderire al suo governo. Il partito voleva maggiore assistenza pubblica per i suoi elettori, nonché un impegno della Livni a non fare concessioni sul futuro di Gerusalemme. I palestinesi vogliono invece tornare nella Città Vecchia occupata dagli israeliani, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Reagendo indignata alle “irragionevoli richieste economiche e politiche” del partito Shas, la Livni ha abbandonato il suo tentativo di formare un governo e ha optato per le elezioni generali. “Chiunque sia disposto a vendere i propri principi per il posto di primo ministro non merita di occuparlo”, ha detto.

La cosa strana in tutto questo è che il partito Shas, riconosciuto come “un elemento cruciale nella costituzione delle coalizioni di governo”, è stato un membro del governo Olmert tuttora in carica che, a sua volta, ha negoziato per giungere ad un accordo israelo-palestinese, dal momento che si era impegnato a farlo alla conferenza di Annapolis nel novembre dell’anno scorso.

L’altra faccia della medaglia della Livni non è molto promettente. La Livni ha avuto colloqui con il suo omologo palestinese, Ahmed Qurei, per quasi un anno, ma Akiva Eldar, editorialista di spicco del quotidiano israeliano Haaretz, ha lamentato il fatto che essa “non ha fatto progressi significativi in direzione di un’intesa, in nessuna delle questioni in ballo”. In realtà, ha aggiunto, “non ha presentato una mappa che definisse i confini dello stato, ha dichiarato che a nessun rifugiato sarà consentito di tornare in Israele, e ha evitato un dibattito serio su Gerusalemme”.

Un serio rivale della Livni alle prossime elezioni israeliane è Benjamin Netanyahu, l’aggressivo leader del Likud, che ha dichiarato la sua indisponibilità a condividere Gerusalemme con i palestinesi ed a concordare il reinserimento dei profughi palestinesi che hanno lasciato la loro patria. Netanyahu, che è stato fino a questa settimana uno dei principali candidati nella corsa per la carica di primo ministro, è anche noto per la sua determinazione a non rinunciare all’occupazione delle alture del Golan in Siria, e delle principali aree della Cisgiordania occupata.

I coloni israeliani in Cisgiordania, che si oppongono a qualsiasi evacuazione, e che sono circa 460.000, sono diventati ultimamente un grave problema per la sicurezza. Attaccano i loro vicini palestinesi, e anche la polizia e i militari israeliani, ogniqualvolta questi ultimi provano ad intervenire per fermare gli scontri. Questo è esattamente ciò che è accaduto ultimamente a Hebron. I coloni israeliani sono insorti contro le forze armate israeliane e hanno tentato di incendiare uno dei veicoli della polizia; poi hanno rivolto la loro rabbia contro i palestinesi, danneggiando più di 80 delle loro automobili, infrangendo le finestre delle abitazioni palestinesi, nonché profanando un cimitero musulmano.

Il quotidiano Haaretz, in un editoriale, ha affermato che il comportamento dei coloni, “non può che essere definito ‘terrorismo’, nel senso letterale della parola: la volontà di diffondere la paura e l’intimidazione”.

La Banca Mondiale, in un rapporto pubblicato la scorsa settimana, ha condannato la violenza e il vandalismo dei coloni israeliani poiché scoraggiano gli investimenti in Cisgiordania. Nei territori occupati l’economia continua a “boccheggiare, nonostante l’incremento degli aiuti internazionali”, e la Banca Mondiale dà principalmente la colpa ad Israele, perché continua a tenere i territori palestinesi in una morsa soffocante.

Di recente si sono verificati anche gravi scontri nelle città miste arabo-ebraiche in Israele, come è accaduto ad Acri. Più di 50 negozi e oltre 150 autovetture di proprietà ebraica sono stati danneggiati, e sono stati anche segnalati 11 casi di incendio doloso di abitazioni arabe. Altri incidenti hanno avuto luogo nell’area di Tel Aviv e Jaffa, e vi è un crescente timore di possibili scontri sanguinosi nella città divisa di Lydda/Lod.

Il Mossawa Center, che rappresenta i cittadini arabi in Israele, ha denunciato che la comunità araba, costituita da più di 1 milione di cittadini, è stata discriminata in termini di accesso agli alloggi, all’istruzione e ai servizi pubblici. Questa è una protesta comune, sostenuta da molti gruppi che difendono i diritti umani.

A prescindere dal fatto che i recenti tumulti abbiano contribuito o meno, i leader israeliani sembrano aver scoperto in ritardo di sei anni l’iniziativa di pace araba. Il presidente israeliano Shimon Peres ha sollevato la questione durante la sua recente visita al presidente egiziano Hosni Mubarak; e l’ex primo ministro Ehud Barak, ora ministro della difesa nel governo uscente, ha anch’egli espresso interesse per la proposta araba.

Tuttavia, resta da vedere quanto facciano sul serio i leader israeliani. In risposta alle allusioni israeliane di voler negoziare la proposta, il presidente egiziano ha ribadito con forza a Peres che l’iniziativa non è negoziabile, e che tutto ciò che Israele deve fare è raggiungere un accordo con i palestinesi, con i siriani e con i libanesi. Una volta che ciò sarà stato fatto, tutti i paesi arabi, come promesso nell’iniziativa di pace, potranno stabilire normali relazioni con Israele.

Tanto quanto i loro omologhi americani, gli israeliani hanno bisogno di intraprendere un profondo esame di coscienza, se vogliono che la pace si diffonda in Medio Oriente.

George Hishmeh è un giornalista arabo-americano residente a Washington; collabora con diversi giornali arabi in lingua inglese, come il Gulf News, il Jordan Times, ed il Daily Star; è stato presidente della Washington Association of Arab Journalists (WAAJ); è nato a Nazareth, in Palestina

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