29 novembre 2011

I costi dell'occupazione israeliana

Uno dei “must” della propaganda filoisraeliana – oltre alla lista perennemente riproposta e aggiornata dei Premi Nobel vinti negli anni da Ebrei di tutto il mondo – è l’argomento più o meno formulato come segue: “vedete, gli Israeliani hanno fatto fiorire il deserto e creato una economia florida e in costante espansione, i Palestinesi invece sono solo dei buoni a nulla e dei piagnoni, e campano solo grazie agli aiuti internazionali”.

Tale tipo di argomentazione, tuttavia, omette di ricordare alcuni fattori che giocano a favore dell’economia dello stato israeliano, quali ad esempio i generosi aiuti finanziari dell’alleato Usa (circa 3 miliardi di dollari l’anno), ovvero la stretta partnership economica e culturale e le generose agevolazioni fiscali concesse ad Israele dall’Unione europea.

E, soprattutto, questa argomentazione evita accuratamente di ricordare come i successi dell’economia israeliana si basino in buona parte sul dominio coloniale imposto sui Territori palestinesi occupati, nella duplice forma dello sfruttamento delle risorse naturali delle popolazioni native e dei molteplici ostacoli frapposti all’attività e al normale funzionamento delle aziende palestinesi, che potrebbero costituire una temibile concorrenza per le imprese israeliane.

Sarebbe davvero interessante poter osservare come se la caverebbe l’economia israeliana alle prese con il blocco di un’intera e vasta porzione di territorio, con gli ostacoli alla circolazione di beni e persone, con la diseguale distribuzione delle risorse idriche, con il divieto all’importazione e all’esportazione di una serie infinita di materie prime e manufatti.

L’occupazione israeliana, peraltro, ha un costo indiretto anche per i contribuenti italiani ed europei, chiamati a contribuire con la fiscalità generale alle donazioni e agli aiuti finanziari, solo grazie ai quali l’intero apparato burocratico ed amministrativo dell’Anp riesce a funzionare.

Aiuti finanziari che, in realtà, costituiscono anch’essi un sostegno ad Israele e al regime di occupazione, in primo luogo perché mantengono in piedi, tra le altre cose, l’apparato repressivo dell’Autorità palestinese oramai divenuto, nelle zone a controllo palestinese, un vero e proprio braccio armato dell’occupante, in secondo luogo perché – in caso di eventuale dissolvimento delle strutture dell’Anp – dovrebbe essere Israele, quale potenza occupante, a farsi carico delle spese per il benessere ed il mantenimento della popolazione occupata.

Nell’articolo che segue, i costi dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi vengono quantificati in quasi 7 miliardi di dollari l’anno (circa l’85% dell’intero Pil palestinese!). Se i Paesi europei finalmente si impegnassero a premere su Israele per porre fine a questa immorale e illegale occupazione militare in stile apartheid della Cisgiordania e di Gaza, non solo i Palestinesi potrebbero godere di un’economia sufficiente a garantire un dignitoso tenore di vita alla popolazione, ma i contribuenti europei potrebbero pure evitare che parte dei loro soldi vada a finire – in maniera certamente indesiderata – nelle immeritevoli tasche del laborioso popolo di Israele.

L’occupazione israeliana esige un alto prezzo dall’economia palestinese, secondo un rapporto del Ministero dell’Economia nazionale palestinese e dell’Applied Research Institute di Gerusalemme – che valuta i danni in 6,9 miliardi di dollari l’anno – definita questa una stima prudente. Il dato corrisponde a circa l’85% del Pil palestinese per il 2010, pari a 8,124 miliardi di dollari.

Il calcolo include l’interruzione delle attività economiche nella Striscia di Gaza a causa del blocco israeliano, i mancati proventi derivanti dalle risorse naturali che Israele sfrutta in ragione del suo diretto controllo sulla maggior parte del territorio e i costi aggiuntivi che gravano sulle uscite palestinesi a causa delle restrizioni imposte da Israele alla circolazione, all’utilizzo della terra e alla produzione.

L’introduzione al rapporto afferma che il blocco dello sviluppo economico palestinese deriva dalla tendenza colonialista dell’occupazione israeliana dal 1967 in poi: lo sfruttamento delle risorse naturali accoppiato con la volontà di impedire all’economia palestinese di competere con quella israeliana.

Il rapporto è stato pubblicato alla fine di settembre, pochi giorni dopo che il Presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva avanzato richiesta di adesione a pieno titolo alle Nazioni Unite.

La sua pubblicazione durante il periodo delle High Holidays ha comportato che esso difficilmente è stato menzionato dai media israeliani.

Quantificando le perdite causate dall’occupazione israeliana, gli autori del rapporto hanno voluto dissipare l’erronea impressione che si è sviluppata negli ultimi due o tre anni che l’economia palestinese stia prosperando spontaneamente, mentre in realtà è sostenuta dalle donazioni che compensano i costi dell’occupazione.

La maggior parte delle perdite per l’economia palestinese è dovuta alla politica del blocco di Gaza, che impedisce ogni produzione ed esportazione. Il calcolo è stato fatto sulla base della comparazione con il tasso di crescita del Pil in Cisgiordania, che negli anni precedenti al blocco era simile al tasso di crescita a Gaza. Così, gli autori del rapporto stimano che nel 2010 il divario tra il Pil potenziale di Gaza (circa 3 miliardi di dollari) ed il Pil reale sia stato di oltre 1,9 miliardi di dollari. L’economia palestinese, e specialmente il settore agricolo, perde una somma equivalente a causa della discriminatoria ripartizione dell’acqua tra Palestinesi ed Israeliani operata da Israele. Basandosi su un rapporto del 2009 della Banca Mondiale, gli autori dello studio trovano non solo che gli accordi di Oslo hanno congelato una situazione di diseguale distribuzione dell’acqua pompata dalla Cisgiordania (un rapporto di 80 a 20), ma anche che Israele sta pompando più acqua dalla falda acquifera occidentale di quanto fosse consentito dall’accordo.

Allo stesso tempo Israele vende acqua ai Palestinesi per compensare la parte di cui essi abbisognano. Il controllo israeliano sulle risorse idriche e sull’accesso alla terra nell’Area C impedisce ai Palestinesi di sviluppare l’agricoltura irrigua, che oggi rappresenta solo il 9% della superficie coltivata.

Gli autori stimano che se non fosse per le restrizioni israeliane sarebbe certamente possibile sviluppare considerevolmente il settore agricolo, fino a quasi un quarto del Pil del 2010.

La politica israeliana di limitare l’accesso all’acqua provoca anche vari problemi sanitari. Gli autori dello studio hanno sommato i costi derivanti dal trattamento di questi problemi sanitari – 20 milioni di dollari – e li hanno aggiunti alle perdite totali.

L’economia palestinese perde anche i potenziali profitti che deriverebbero da altre risorse naturali, che oggi Israele sfrutta o impedisce ai Palestinesi di valorizzare: minerali dal Mar Morto, pietre e ghiaia nelle cave, gas naturale al largo delle coste di Gaza. Questi profitti negati sono stimati in circa 1,83 miliardi di dollari.

I siti naturali ed archeologici, quali risorse per il turismo, sono bloccati dal controllo israeliano sull’Area C e dalle restrizioni alla circolazione che esso impone all’interno dell’intera Cisgiordania. Ad esempio, solamente le perdite causate dal controllo israeliano del Mar Morto ammontano annualmente a 144 milioni di dollari.

Il rapporto quantifica anche i danni causati dallo sradicamento di 2,5 milioni di alberi di ulivo e di altri alberi da frutto dall’inizio dell’occupazione nel 1967 – una perdita annua di 138 milioni di dollari.

Il settore industriale soffre di restrizioni non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Ciò, in parte, è dovuto alle severe restrizioni all’importazione che Israele impone su una lista di 56 voci di materie prime e macchinari in quanto definiti a “duplice uso” – per la produzione industriale e per l’uso bellico.

L’elenco è stato redatto nel 2008 e include, tra le altre cose, fertilizzanti, varie materie prime, torni, levigatrici, tubi metallici, apparecchiature ottiche e strumenti per la navigazione. Il rapporto afferma che questi beni sono ancora fortemente limitati nonostante il miglioramento nella situazione della sicurezza e la cooperazione tra le forze di sicurezza palestinesi, l’esercito israeliano e il servizio di sicurezza Shin Bet.

Tali restrizioni danneggiano in maniera diretta una molteplicità di industrie quali quelle alimentari, delle bevande, metallurgiche, tessili, farmaceutiche, dell’abbigliamento e cosmetiche.

Il rapporto si basa sui risultati di uno studio presentato al Ministero dell’Economia nel 2010 riguardante le opportunità per il commercio palestinese. Esso afferma, ad esempio, che dopo che Israele nel 2007 ha vietato l’importazione della glicerina in Cisgiordania, un’azienda di cosmetici di Nablus non è più stata in grado di esportare in Israele. Secondo gli standard israeliani, i prodotti per la cura della pelle devono contenere glicerina.

A causa del controllo israeliano dei valichi e dell’Area C, il Tesoro palestinese non è in grado di riscuotere interamente le tasse e i dazi doganali su ogni prodotto venduto in Cisgiordania.

Il rapporto stima che i mancati introiti fiscali per le casse palestinesi ammontino annualmente a circa 400 milioni di dollari.

Il rapporto, inoltre, calcola una perdita fiscale indiretta; un Pil ridotto rispetto a quello potenziale significa meno entrate derivanti dalle imposte. “Secondo i nostri calcoli, senza l’occupazione l’economia sarebbe più grande dell’84,9%, quindi genererebbe 1,389 miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive. Aggiungendo questa cifra ai costi fiscali diretti si ottiene un totale dei costi fiscali derivanti dall’occupazione di 1,796 miliardi di dollari”.

Gli autori mettono in rilievo che si tratta di una stima delle perdite prudente. Essa non include vari calcoli congetturali come le perdite derivanti dal divieto di costruire nell’Area C, o le perdite economiche causate dalla barriera di separazione e dalle restrizioni ai commerci verso Gerusalemme est. “Considerato il deficit fiscale complessivo di Cisgiordania e Gaza pari a 1,358 miliardi di dollari nel 2010,” afferma il rapporto, “senza i costi fiscali diretti e indiretti imposti dall’occupazione, l’economia palestinese sarebbe in grado di mantenere un sano equilibrio di bilancio con un avanzo di 438 milioni di dollari. Essa non dovrebbe dipendere dagli aiuti dei donatori per mantenere l’equilibrio di bilancio e sarebbe in grado di ampliare in misura sostanziale la spesa finanziaria per stimolare il necessario sviluppo sociale ed economico”.

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1 settembre 2011

L'infamia di Israele, un paese che arresta e tortura i ragazzini

La politica di Israele nei confronti delle manifestazioni di protesta in Cisgiordania è molto semplice: repressione brutale e spietata. E questa politica si rivolge in buona parte contro quello che si ritiene il punto debole del fronte di lotta palestinese contro l’occupazione, i bambini e i ragazzi.

Così, nel cuore della notte, squadre della miglior feccia di Tsahal vengono inviate ad arrestare ragazzini anche dodicenni con l’accusa, il più delle volte campata in aria, di aver tirato delle pietre durante cortei e manifestazioni di protesta. Si tratta, in realtà, di un pretesto dal doppio scopo: spaventare e dissuadere dalla lotta contro l’occupazione i più piccoli e i più indifesi e, soprattutto, ottenere false confessioni per incriminare ed arrestare gli adulti.

E ciò avviene in piena violazione dei diritti umani di questi ragazzi, e in palese contrasto con norme e convenzioni internazionali e persino della stesse legge israeliana: ragazzini arrestati in piena notte, bendati e ammanettati, picchiati e torturati, interrogati senza la presenza di genitori o avvocati, costretti a firmare false confessioni, per di più scritte in lingua abraica.

Un record che fa orrore e desta sconcerto, persino per uno stato-canaglia come quello israeliano.

Come Israele si vendica dei ragazzi che tirano pietre.
Un video visionato da Catrina Stewart rivela i brutali interrogatori dei giovani palestinesi
26.8.2011

Il ragazzo, piccolo e fragile, lotta per restare sveglio. La testa gli ciondola da un lato, ad un certo punto gli crolla sul petto. “Alza la testa! Alzala!” grida uno di quelli che lo interrogano, schiaffeggiandolo. Ma il ragazzo ormai non se ne cura, perché è sveglio da almeno dodici ore da quando è stato separato dai suoi genitori sotto la minaccia delle armi alle due di quella mattina. “Vorrei che mi lasciaste andare”, piagnucola il ragazzo, “così posso dormire un poco.”

Nel video di quasi sei ore, il 14enne palestinese Islam Tamimi (nella foto, n.d.r.), esausto e spaventato, viene gradualmente logorato fino al punto in cui comincia ad accusare gli uomini del suo villaggio e a creare delle storie fantastiche che ritiene che i suoi aguzzini vogliano sentire.

Questo filmato quasi mai visto, visionato dall’Independent, offre uno scorcio di un interrogatorio israeliano, quasi un rito di passaggio che centinaia di ragazzini palestinesi accusati di aver lanciato pietre subiscono ogni anno.

Israele ha difeso con fermezza il suo comportamento, sostenendo che il trattamento dei minori è notevolmente migliorato con la creazione, due anni fa, di un tribunale militare minorile. Ma i ragazzi che hanno affrontato la dura giustizia dell’occupazione raccontano una storia molto diversa.

“I problemi nascono ben prima che i ragazzini vengano condotti in tribunale, cominciano con il loro arresto”, afferma Naomi Lalo, un’attivista di No Legal Frontiers, un’associazione israeliana che monitora i tribunali militari. E’ durante l’interrogatorio che il loro “destino è segnato”, sostiene.

Sameer Shilu, 12 anni, stava dormendo quando i soldati una notte hanno sfondato la porta d’ingresso della sua casa. Lui e suo fratello maggiore sono venuti fuori dalla camera da letto con gli occhi annebbiati per scoprire sei soldati mascherati nel loro salotto.

Controllando il nome del ragazzo sulla carta d’identità del padre, l’ufficiale sembrava “scioccato” quando ha visto che doveva arrestare un ragazzino, racconta il padre di Sameer, Saher. “Gli ho detto, ‘E’ troppo piccolo; perché lo ricercate?’ ‘Non lo so,’ rispose”. Bendato, e con le mani legate dolorosamente dietro la schiena con delle fascette di plastica, Sameer è stato spinto dentro ad una jeep, mentre il padre gli gridava di non spaventarsi. “Abbiamo pianto, tutti noi, “ racconta suo padre. “Conosco i miei figli, loro non tirano pietre”.

Nelle ore precedenti il suo interrogatorio, Sameer è stato tenuto bendato e ammanettato, e gli è stato impedito di dormire. Accompagnato finalmente per un interrogatorio senza la presenza di un avvocato o di un genitore, un uomo lo ha accusato di aver partecipato ad una manifestazione, e gli ha mostrato il filmato di un ragazzo che tirava pietre, sostenendo che era lui.

“Disse, ‘Questo sei tu’, e io risposi che non ero io. Poi mi chiese, ‘Chi sono questi?’ e io dissi che non lo sapevo”, racconta Sameer. “A un certo punto, l’uomo ha cominciato a gridare contro di me, e mi ha afferrato per il bavero, e ha detto ‘Ti butterò dalla finestra e ti picchierò con un bastone se non confessi’.”

Sameer, che protestava la sua innocenza, è stato fortunato; è stato rilasciato poche ore dopo. Ma la maggior parte dei ragazzi sono costretti a firmare una confessione, impauriti dalle minacce di violenza fisica o dalle minacce contro le loro famiglie, come il ritiro dei permessi di lavoro.

Quando viene firmata una confessione, gli avvocati solitamente consigliano ai ragazzi di accettare un patteggiamento e di scontare una pena detentiva stabilita anche se non colpevoli. Dichiararsi innocente significa provocare lunghi procedimenti giudiziari, durante i quali il ragazzo è quasi sempre detenuto in carcere. Le assoluzioni sono rare. “In un tribunale militare, devi sapere che non ti aspetti giustizia,” afferma Gabi Lasky, un avvocato israeliano che ha rappresentato molti ragazzi.

Vi sono molti ragazzini palestinesi nei villaggi della Cisgiordania sotto l’ombra del muro di separazione israeliano e delle colonie ebraiche sulle terre dei Palestinesi. Laddove sono nate manifestazioni di protesta in gran parte non-violente come forma di resistenza, vi sono dei ragazzini che tirano pietre, e le incursioni israeliane sono abituali. Ma gli avvocati e le associazioni per i diritti umani hanno criticato la politica israeliana degli arresti che nei villaggi che resistono all’occupazione hanno come obiettivo i ragazzini.

Nella maggior parte dei casi, bambini anche di dodici anni vengono buttati giù dai letti di notte, ammanettati e bendati, privati del sonno e del cibo, sottoposti a lunghi interrogatori, infine costretti a firmare una confessione scritta in ebraico, una lingua che pochi di loro sanno leggere.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha concluso che “i diritti dei minori vengono gravemente violati, che la legge non riesce quasi per nulla a proteggere i loro diritti, e che i pochi diritti garantiti dalla legge non sono resi effettivi”.

Israele afferma di trattare i minori palestinesi nello spirito del proprio diritto minorile ma, nella pratica, è raramente il caso. Per esempio, i ragazzini non dovrebbero essere arrestati di notte, gli avvocati e i genitori dovrebbero essere presenti durante gli interrogatori, e ai bambini dovrebbero essere letti i loro diritti. Ma queste sono considerate delle linee guida, piuttosto che un obbligo di legge, e spesso vengono ignorate. E Israele considera i propri giovani come ragazzi fino all’età di 18 anni, mentre i palestinesi sono visti come adulti dai 16.

Avvocati ed attivisti affermano che più di duecento ragazzi palestinesi si trovano nelle prigioni israeliane. “Volete arrestare questi ragazzini, volete processarli,” dice la Sig.ra Lalo. “Bene, ma fatelo secondo la legge israeliana. Dategli i loro diritti”.

Nel caso di Islam, il ragazzo del video, il suo avvocato, la Sig.ra Lasky, ritiene che il video fornisca la prima prova concreta di gravi irregolarità nel suo interrogatorio.

In particolare, la persona che interrogava Islam ha omesso di informarlo del suo diritto a restare in silenzio, proprio mentre il suo avvocato supplicava inutilmente di vederlo. Al contrario, l’interrogante ha spinto Islam a raccontare tutto a lui e ai suoi colleghi, facendo intendere che se lo avesse fatto, sarebbe stato rilasciato. Uno di quelli che lo interrogavano allusivamente colpiva il palmo della sua mano con il pugno chiuso.

Alla fine Islam, scoppiando a piangere singhiozzando, ha ceduto ai suoi inquisitori, mostrando di fornir loro tutte le informazioni che vogliono sentire. Mostratagli una pagina di fotografie, la sua mano si muove debolmente sopra di esso, identificando gli uomini del suo villaggio, che verranno tutti arrestati per aver partecipato alla protesta.

La Sig.ra Lasky spera che questo filmato cambierà il modo in cui vengono trattati i ragazzini nei territori occupati, in particolare convincendoli ad accusare altri, il che secondo gli avvocati costituisce l’obiettivo primario degli interrogatori. Il video ha aiutato ad ottenere il rilascio di Islam e gli arresti domiciliari, e potrebbe anche portare ad una piena assoluzione dall’accusa di aver lanciato pietre. Ma in questo momento, un curvo e silenzioso Islam non si sente fortunato. A qualche metro di distanza dalla sua casa a Nabi Saleh c’è l’abitazione di sua cugina, il cui marito si trova in prigione in attesa del processo insieme ad una dozzina di altri in forza della confessione di Islam.

La cugina è magnanima. “Lui è una vittima, è solo un ragazzino,” dice Nariman Tamimi, 35 anni, il cui marito Bassem, 45 anni, è in carcere. “Non dobbiamo biasimarlo per ciò che è accaduto. Era sotto una enorme pressione”.

La politica di Israele in un certo senso ha avuto successo, seminando la paura tra i ragazzi e dissuadendoli da future dimostrazioni. Ma i ragazzi sono rimasti traumatizzati, soggetti ad incubi e ad enuresi notturna. La maggior parte devono perdere un anno di scuola, o persino ritirarsi.

I critici nei confronti di Israele sostengono che la sua politica sta creando una nuova generazione di attivisti dal cuore pieno di odio verso Israele. Altri affermano che sta macchiando la reputazione del paese. “Israele non ha alcun motivo di arrestare questi ragazzi, di processarli, di opprimerli,” dice la Sig.ra Lalo, con gli occhi lucidi. “Non sono i nostri figli. Il mio paese sta facendo così tanti torti e li giustifica. Dovremmo essere un esempio, ma siamo diventati uno stato oppressivo”.

Dati sulla detenzione minorile

7.000 Il numero stimato di giovani palestinesi detenuti e processati dai tribunali militari israeliani dal 2000, secondo un rapporto di Defence for Children International Palestine.

87% La percentuale di minori sottoposti ad una qualche forma di violenza fisica durante la detenzione. Si stima anche che circa il 91% ad un certo punto della detenzione sia stato bendato.

12 anni L’età minima per la responsabilità penale, secondo quanto previsto dall’Ordine Militare n.1651.

62% La percentuale dei ragazzi arrestati tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

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30 luglio 2011

Continua inarrestabile la violenza dei coloni israeliani



Dal sito di Operazione Colomba apprendiamo che la mattina del 27 luglio quattro coloni israeliani dell'insediamento di Havat Ma'on (colline a sud di Hebron, Cisgiordania), a viso coperto e armati di sassi e di una spranga di ferro, hanno attaccato tre pastori palestinesi e due osservatori internazionali. I coloni hanno tirato pietre contro gli internazionali ed hanno colpito uno di loro alla testa con la spranga (vedi foto).

I Palestinesi stavano pascolando i greggi sulla propria terra vicino la collina di Mesheha, quando quattro coloni a viso coperto li hanno attaccati. I pastori sono riusciti a lasciare l'area ma i coloni hanno attaccato gli internazionali (un membro dei Christian Peacemaker Team ed un ospite in visita).


I coloni hanno danneggiato la videocamera del volontario dei CPT ed hanno costretto gli internazionali a ritornare verso il villaggio di At-Tuwani.


Il volontario dei CPT è stato portato all'ospedale e medicato con otto punti di sutura alla testa.Christian Peacemaker Team e Operazione Colomba (Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII) hanno già documentato sei episodi dal 22 giugno 2011, in cui i coloni dell'avamposto di Havat Ma'on hanno attaccato Palestinesi ed internazionali vicino la collina di Mesheha.


Si tratta solo dell’ultimo episodio di violenza e di intimidazione contro la popolazione palestinese ad opera della teppaglia colonica che infesta la West Bank.


Secondo l’UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), nel periodo 20-26 luglio 2011, si sono registrati quattro attacchi di coloni israeliani che hanno determinato il ferimento di Palestinesi o il danneggiamento di loro proprietà.


In uno di questi incidenti, avvenuto il 25 luglio, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro un autovettura con targa palestinese nei pressi dell’insediamento di Hallamish, ferendo tre donne e un bambino di 7 anni.


In altre due occasioni, i coloni hanno dato fuoco ad alcuni terreni coltivati nel villaggio di Burin, danneggiando una decina di alberi di ulivo, ed hanno ucciso una pecora appartenente ad un pastore del villaggio di Qusra.


Infine 15 famiglie di Beduini, per un totale di circa 110 persone, residenti nella comunità di Al Baqa’a (nei pressi della colonia di Ma’ale Mikhmas), sono state costrette a smontare le loro tende e a spostarsi in un'altra area a causa delle intimidazioni e delle violenze dei coloni israeliani, dopo che, nel corso dell’ultimo attacco, erano rimasti feriti tre bambini.


Salgono così a 257 gli attacchi compiuti dai coloni israeliani ai danni della popolazione palestinese dall’inizio del 2011, e il numero dei Palestinesi rimasti feriti nel corso degli attacchi è più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.


Crescono dunque le violenze e le intimidazioni dei coloni israeliani, resi spavaldi dal fatto che i soldati dell’Idf – che in teoria dovrebbero proteggere i Palestinesi e impedire gli attacchi – in realtà difendono e spalleggiano questa teppaglia che continua a infestare la Cisgiordania in palese violazione del diritto internazionale.

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15 luglio 2011

Coloni israeliani attaccano il villaggio di 'Asira al-Qibliya


Naturalmente, come abbiamo visto nel video che precede, si può anche ridere dei coloni israeliani. E, tuttavia, costoro solitamente non sono pittoreschi e tutto sommato inoffensivi come il "colono-zombie" che abbiamo visto all'opera, anzi.

Nel video qui sopra, girato da un volontario di B'tselem, si può assistere ad alcune fasi dell'attacco scatenato il 3 luglio scorso contro il villaggio palestinese di 'Asira al-Qibliya da alcuni coloni provenienti dall'insediamento di Yitzhar.

Gli aggressori erano armati di bastoni e pezzi di tubo, alcuni di loro avevano il volto coperto e due avevano con sé armi da fuoco; nel corso del raid, hanno picchiato un Palestinese inerme e hanno distrutto una ventina di alberi di ulivo, che costituiscono la sola fonte di reddito per molti agricoltori palestinesi.

I soldati israeliani, giunti sul posto con alcune jeep, non hanno mosso un dito per impedire la violenza e i danneggiamenti, ma non appena gli abitanti del villaggio hanno cominciato a reagire lanciando pietre contro i coloni, allora sono prontamente intervenuti lanciando gas lacrimogeni per disperdere i Palestinesi.

Perchè, va precisato, questi invasati che si credono investiti di una missione biblica operano costantemente con la connivenza e sotto la protezione dell'esercito israeliano, da quei vili criminali che in realtà essi sono.

Non si tratta, naturalmente, di un incidente isolato. Un altro video di B'tselem mostra le immagini di alcuni coloni che, lo scorso 30 giugno, hanno dato fuoco ad alcuni campi coltivati nei dintorni dei villaggi di Burin e di Huwara, distruggendo almeno 400 alberi di ulivo.

Secondo l'ultimo rapporto dello United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), nel solo periodo compreso tra il 29 giugno e il 5 luglio i coloni israeliani hanno ferito dieci Palestinesi e hanno danneggiato o distrutto almeno 1.500 alberi di ulivo.

Fino al 5 luglio, l'OCHA ha registrato ben 226 incidenti provocati dai coloni che hanno determinato il ferimento o l'uccisione di Palestinesi o il danneggiamento delle loro proprietà, con un incremento del 57% rispetto allo stesso periodo del 2010; 178 sono stati i Palestinesi fino ad oggi colpiti da pietre, investiti o presi a fucilate (176 in tutto il 2010), tre i morti.

E si continua a far finta di non capire che la presenza dei coloni in Cisgiordania e la pace tra Israeliani e Palestinesi sono tra loro del tutto incompatibili.

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11 luglio 2010

Di riffa e di raffa: come i coloni israeliani sono arrivati a controllare il 42% della Cisgiordania.

A sole 48 ore di distanza dall’incontro con il Presidente Usa Barack Obama – durante il quale aveva dichiarato di essere pronto “a fare molto per la pace” – il premier israeliano Netanyahu, di fronte all’assemblea amica dell’Aipac, ha subito chiarito quale sarà la prima cosa da fare, e cioè riprendere a costruire nelle colonie in Cisgiordania non appena sarà scaduta l’attuale moratoria (il 27 settembre, per l’esattezza). Moratoria che, peraltro, non ricomprendeva Gerusalemme est, dove si è continuato a costruire allegramente in quartieri come Ras Al Amud, Sheikh Jarrah, Silwan ed altri ancora.

Molti fingono di dimenticarlo, ma il primo – e forse nemmeno il maggiore – ostacolo verso la pace tra Israeliani e Palestinesi sono i quasi 500.000 coloni che attualmente (e illegalmente) vivono al di là della cd. green line, la linea di confine che secondo il diritto internazionale dovrebbe dividere Israele dai territori palestinesi Provvede opportunamente a ricordarlo un recente rapporto dell’ong israeliana B’tselem, secondo cui 301.200 settlers vivono in 121 colonie e circa un centinaio di avamposti, che controllano il 42% dell’intera superficie della Cisgiordania, mentre altri 184.700 coloni (il dato è del 2007) risiedono in 12 quartieri che le autorità israeliane hanno istituito su terreni annessi nel tempo alla municipalità di Gerusalemme (e che costituiscono parimenti degli insediamenti colonici).

L’iniziativa di colonizzazione della West Bank è stata caratterizzata, sin dall’inizio, da un approccio strumentale, cinico e persino criminale al diritto internazionale, alla legislazione locale, agli ordini militari e alla legge israeliana, che ha consentito la continua sottrazione di terre ai Palestinesi in Cisgiordania.

Il principale strumento che Israele ha utilizzato a questo scopo è stata la dichiarazione di “terra statale” un meccanismo che ha portato all’occupazione di oltre 900.000 dunam di terra (90.000 ettari, ovvero il 16% della Cisgiordania), con la maggior parte delle dichiarazioni che sono state effettuate nel periodo 1979-1992. L’interpretazione che l’Ufficio della Procura di Stato ha dato del concetto di “terra statale” contenuto nella Legge sulla terra del periodo ottomano contraddiceva esplicite disposizioni di legge e le sentenze della Suprema Corte del Mandato. Senza questa interpretazione distorta, Israele non avrebbe potuto destinare agli insediamenti colonici tali ampie zone di terreno.

Gli insediamenti, inoltre, hanno preso il controllo di terreni privati palestinesi. Attraverso un controllo incrociato dei dati dell’Amministrazione Civile, dell’area sotto la giurisdizione delle colonie, e delle fotografie aeree degli insediamenti scattate nel 2009, B’tselem ha scoperto che il 21% della superficie edificata degli insediamenti colonici è costituita da terreni che Israele riconosce come proprietà privata, proprietà dei Palestinesi.

Per incoraggiare gli Israeliani a trasferirsi negli insediamenti, Israele ha creato un meccanismo per fornire benefici ed incentivi alle colonie e ai coloni, a prescindere dalla loro condizione economica, che spesso era finanziariamente sicura. La maggior parte delle colonie nella West Bank ha lo status di Area di Priorità Nazionale A, che da diritto ad una serie di vantaggi: nell’edilizia abitativa, consentendo ai coloni di acquistare appartamenti di qualità a prezzi economici, con una concessione automatica di un mutuo agevolato; significativi vantaggi in materia di istruzione, quali l’istruzione gratuita dall’età di tre anni, giornate scolastiche prolungate, trasporto gratuito a scuola, e stipendi più elevati per gli insegnanti; per l’industria e l’agricoltura, attraverso sovvenzioni e sussidi, e l’indennizzo per le tasse imposte sui loro prodotti dall’Unione Europea; in materia fiscale, attraverso l’imposizione di tasse significativamente più basse rispetto alle comunità situate all’interno della green line, e offrendo maggiori stanziamenti di bilancio alle colonie, per aiutarle a coprire i deficit.

La costruzione delle colonie viola il diritto internazionale umanitario. Israele ha ignorato le più rilevanti regole del diritto, adottando una propria interpretazione che non viene accettata da pressoché tutti i più eminenti giuristi del mondo e dalla comunità internazionale. La colonizzazione ha causato una permanente e cumulativa violazione dei diritti umani dei Palestinesi, in particolare:

del diritto di proprietà, assumendo il controllo di ampie distese di terreno in Cisgiordania a favore delle colonie;

del diritto all’uguaglianza e al giusto processo, stabilendo sistemi giuridici differenti, in cui i diritti delle persone si fondano sulla loro nazione di origine, i coloni essendo soggetti alle leggi israeliane, basate sui diritti umani e su valori democratici, mentre i Palestinesi sono soggetti alle leggi militari, che sistematicamente li privano dei loro diritti;

del diritto ad un adeguato standard di vita, dal momento che gli insediamenti sono stati intenzionalmente costruiti in modo da impedire lo sviluppo urbano delle comunità palestinesi, e che il controllo israeliano delle fonti d’acqua impedisce lo sviluppo dell’agricoltura palestinese;

del diritto alla libertà di movimento, attraverso i posti di blocco e altri ostacoli alla mobilità dei Palestinesi nella West Bank, con lo scopo di proteggere gli insediamenti e le arterie di traffico dei coloni;

del diritto all’autodeterminazione, attraverso l’interruzione della contiguità territoriale palestinese e la creazione di decine di enclavi che impediscono la creazione di uno Stato palestinese indipendente ed autonomo.

Il manto di legalità che Israele ha cercato di dare al sistema della colonizzazione è volto a coprire il furto di terra che è in corso in Cisgiordania, eliminando in tal modo i valori fondamentali della legalità e della giustizia dal sistema israeliano di applicazione della legge nella West Bank. Il rapporto di B’tselem espone il sistema adottato da Israele come strumento per promuovere i propri obiettivi politici, consentendo la violazione sistematica dei diritti umani dei Palestinesi.

I rilevanti mutamenti geografici e territoriali che Israele ha determinato in Cisgiordania compromettono i negoziati che Israele ha condotto per 18 anni con i Palestinesi e violano i suoi obblighi internazionali. Il sistema delle colonie, essendo basato sulla discriminazione ai danni dei Palestinesi che vivono in Cisgiordania, indebolisce inoltre i pilastri dello Stato di Israele come paese democratico e sminuisce il suo status tra le nazioni del mondo.

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10 novembre 2009

Coloni israeliani chiedono la demolizione di una scuola palestinese. Perchè costruita senza permesso...


Continuano senza sosta le demolizioni di strutture abitative palestinesi “illegali” da parte delle autorità israeliane. Il 2 novembre scorso, la municipalità di Gerusalemme ha demolito tre case nei quartieri di Beit Hanina e di Ath Thuri, a Gerusalemme est, causando lo sfollamento di 42 persone, tra cui 23 bambini. L’ulteriore demolizione di un residence a Sur Bahir ha lasciato senza un tetto i sei Palestinesi che lo avevano in affitto, tra i quali due bambini.

Secondo dati forniti dall’Office for The Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA – cfr. The Humanitarian Monitor, settembre 2009), dall’inizio dell’anno e fino al 30 settembre del 2009 gli Israeliani hanno demolito ben 223 strutture di proprietà palestinese, incluse 92 strutture residenziali, tra Gerusalemme est e la cd. Area C, provocando lo sfollamento di ben 515 persone, tra le quali 262 bambini.

Nell’area C – la zona a totale controllo ed amministrazione israeliani che ricomprende gli insediamenti colonici – migliaia di abitazioni palestinesi sono state costruite senza permesso e, dato che nei loro riguardi sono già stati emessi gli ordini di demolizione, sono a rischio di essere buttate giù in ogni momento. La ragione è semplice, e consiste nella circostanza che la Israeli Civil Administration (ICA) porta avanti da anni una politica di pianificazione che rende virtualmente impossibile ai Palestinesi ottenere un permesso di costruzione, costringendo molti di loro a edificare costruzioni “illegali” per far fronte alle proprie esigenze abitative.

In questi giorni, in particolare, sono a rischio di demolizione ben 257 strutture appartenenti ad una comunità di Beduini dislocata nei pressi della colonia (illegale) di Kfar Adumim, la cui rimozione è stata chiesta all’Alta Corte di giustizia israeliana da parte di una organizzazione di coloni denominata “Regavim”.

Tra queste strutture, vi è la scuola di cui parla l’articolo che segue, pubblicato l’8 novembre scorso dal quotidiano Il Manifesto”, a firma di Michele Giorgio. Una scuola indispensabile alla comunità beduina, dato che i bambini, prima, erano costretti ad andare a scuola più lontano, seguendo la superstrada che collega Gerusalemme con il Mar Morto, con la conseguenza che 3 bambini erano morti, travolti dalle macchine, e 5 erano rimasti invalidi.

Ecco come vanno finire gli sforzi umanitari a favore dei Palestinesi da parte di tanti enti e ong, in questo caso italiani. Ecco la giustizia e il diritto assicurati in un territorio in cui, caso unico al mondo, un gruppo di residenti illegali all’interno di un territorio occupato può chiedere e ottenere la distruzione delle case e delle scuole della popolazione nativa, senza che nessuno abbia niente da ridire.

E questo accade solo quando di mezzo c'è quello Stato-canaglia e razzista che ha per nome Israele.

La bio-scuola italiana per i beduini minacciata dai coloni

Una scuola per 60 bambini delle famiglie beduine dei Jahalin, tra Gerusalemme e Gerico, senza fondamenta ma ugualmente stabile e resistente, fatta di 2.200 pneumatici, fango, travi di legno, lamiere e isolante. È costata appena 35mila euro ed è stata realizzata della onlus Vento di Terra con l'aiuto economico di tre comuni lombardi, delle suore comboniane e della Cei.

Ad inaugurarla c'erano giovedì scorso il console generale d'Italia Luciano Pezzotti, i sindaci di Corsico, Cesano Boscone e Rozzano, le autorità palestinesi, i responsabili di Vento di Terra e i rappresentanti delle famiglie Jahalin. Presente anche l'ingegnere 29enne Diego Torriani che, assieme a quattro colleghi, ha progettato i tre fabbricati speciali che accolgono decine di bambini prima costretti ad andare a scuola a Gerico.

Eppure questa iniziativa, senza precedenti nei Territori occupati, che si fonda su costi bassi e il riciclaggio di materiali, è destinata a interrompersi presto. I coloni israeliani del vicino insediamento di Kfar Adumim, illegale per le leggi internazionali, hanno presentato all'Alta Corte di Giustizia una richiesta di demolizione della scuola (e di tutte le casette di lamiera dei beduini) perché costruita «senza permesso». Ma i pericoli non si fermano qui.

«Le prospettive sono nere - spiega l'avvocato israeliano Shlomo Lecker, che assiste legalmente i Jahalin - accanto alla denuncia dei coloni c'è anche una richiesta di demolizione immediata fatta dalla società pubblica per lo sviluppo della rete stradale che, proprio nell'area della scuola, intende allargare la superstrada tra Gerico e Gerusalemme».

I bambini di Jahalin e i loro genitori, che a metà settimana festeggiavano assieme agli ospiti internazionali, rischiano perciò di rimanere senza la loro scuola se, lunedì prossimo, i giudici dell'Alta Corte daranno ragione ai coloni residenti nell'illegale Kfar Adumim. Per i Jahalin sarebbe un nuovo duro colpo. Questa comunità beduina, già costretta nel 1948 a lasciare il Neghev, da anni subisce evacuazioni forzate e demolizioni.

«Questa scuola rappresenta l'attaccamento allo nostra terra e la volontà di continuare a viverci» ha spiegato un rappresentante dei Jahalin durante la cerimonia di inaugurazione. E in questi giorni tremano anche i beduini di Kissan, a qualche km da Betlemme, dove l'esercito israeliano minaccia di demolire l'ambulatorio medico, l'unico a disposizione di centinaia di persone, aperto di recente dalla Ong italiana Disvi in collaborazione con il ministero della sanità palestinese. Anche in questo caso si parla di «costruzione illegale».

La «scuola di gomma» dei Jahalin, secondo l'avvocato Lecker, potrebbe essere abbattuta dalle ruspe nel giro di qualche settimana. Con essa verrà distrutto anche un progetto che ha destato molto interesse. Il pneumatico, lo confermano studi internazionali, è un materiale resistente nelle costruzioni. Le gomme riempite di terra e pietre, posizionate a file sfalsate, assicurano una elevata elasticità. L'intonacatura esterna inoltre garantisce la protezione dei pneumatici ai raggi solari, evitandone il deterioramento o il rilascio di sostanze nocive. L'utilizzo dei materiali riciclati nei fabbricati ha avuto successo in varie parti del mondo e potrebbe rivelarsi un vero e proprio investimento per i palestinesi privi di risorse. E il presidente di Vento di Terra, Massimo Rossi, già pensa a Gaza. «Questo tipo di edifici - ci spiega - potrebbero essere una valida alternativa alle costruzioni ordinarie, visto che Israele non lascia entrare il cemento in quel territorio».

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13 agosto 2009

In carcere per aver turbato la quiete delle demolizioni.

Abbiamo già parlato della vicenda di Ezra Nawi, un ebreo israeliano di origini irachene attivista dell’organizzazione pacifista Ta’ayush, arrestato a giugno per aver tentato di impedire che i bulldozer dell’esercito israeliano demolissero alcune povere baracche che costituivano la casa di alcuni Beduini nel villaggio di Um El Hir, nel sud della Cisgiordania.

Domenica prossima verrà pronunciata la sentenza relativa al suo caso, che tuttavia appare già segnato.

Ezra, infatti, si sarebbe macchiato del gravissimo crimine di aver spinto le persone dentro la casa incoraggiandole alla resistenza, di aver rimproverato la polizia, di essersi sdraiato davanti al bulldozer insieme ad altri e di aver fatto irruzione nella baracca dopo che il bulldozer aveva già iniziato a demolirla. Secondo il giudice, “gli atti e la condotta dell’imputato costituiscono gravi interferenze volte a turbare la quiete pubblica”.

Quale “quiete”, quella in cui le case dei Palestinesi possono essere demolite impunemente, lasciando centinaia di persone, donne, bambini e anziani compresi, senza un tetto sotto cui vivere? Quale “quiete”, quella in cui la disobbedienza civile viene definita “rivolta”?

Il quotidiano israeliano Ha’aretz ha paragonato la resistenza non violenta di Ezra Nawi a quelle del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King, entrambi imprigionati per le loro convinzioni e le loro idee. Il giudice israeliano, evidentemente, vuole essere sicuro che Ezra segua lo stesso destino.

E tutti noi siamo chiamati a impedire che ciò accada.

Già 19.000 persone (io tra questi) hanno inviato le loro email di protesta per chiedere a Israele di non condannare Ezra Nawi alla detenzione. Continuiamo a sostenere Ezra Nawi, un uomo buono e gentile che ha scelto di dedicare la sua vita alla difesa dei diritti dei poveri e degli oppressi, e che per ciò stesso dovrebbe essere oggetto di ammirazione e di gratitudine, non certo buttato nella cella di un carcere israeliano.

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11 febbraio 2009

Nel frattempo, in Cisgiordania.

“Israele manterrà tutte le sue promesse riguardanti la costruzione nelle colonie. Non vi sarà alcuna costruzione al di là delle esistenti linee di edificazione, alcuna confisca di terre finalizzata alla costruzione, alcun incentivo economico speciale né alcuna costruzione di nuove colonie” (Ariel Sharon, Conferenza di Herzliya, 18 dicembre 2003).

“Israele deve dimostrare il suo sostegno alla creazione di un riuscito e prospero Stato palestinese rimuovendo gli avamposti non autorizzati, ponendo fine all’espansione delle colonie…” (Dichiarazione congiunta di Bush, Olmert e Abbas alla Conferenza di Annapolis, 27 novembre 2007).

“Israele non confisca più terra in Cisgiordania, chiaro e semplice” (Ehud Olmert, conferenza stampa, 17 marzo 2008).

Uno dei principali impegni di Israele derivanti dalla road map, più e più volte riaffermato prima, dopo e durante la farsa di Annapolis - la conferenza che avrebbe dovuto portare alla pace tra Israeliani e Palestinesi entro la fine del 2008 (!) - era ed è costituito dall’obbligo di smantellare gli avamposti illegali costruiti dai coloni nella West Bank a partire dal marzo del 2001, nonché dal divieto di espansione degli insediamenti colonici, ivi incluso il cd. “sviluppo naturale”, e cioè l’espansione dettata da motivi demografici.

Un impegno rispettato? Assolutamente no (al pari, del resto, di ogni altro che Israele ha assunto nel corso degli anni nei confronti del popolo palestinese), come ci dimostra il recente
rapporto di Peace Now sull’espansione degli insediamenti e degli avamposti colonici in Cisgiordania nel corso del 2008 (Summary of Construction in the West Bank 2008, gennaio 2009).

Secondo Peace Now, nel corso del 2008, i coloni israeliani (in numero di 285.800, non considerando Gerusalemme est) hanno costruito in Cisgiordania 1.518 nuove strutture, di cui 1.257 negli insediamenti colonici e 261 negli avamposti; tra le strutture di nuova costruzione, il 61% (pari a 927) sono state edificate a ovest del muro di “sicurezza” e il 39% (pari a 591) a est del muro stesso.

Per avere un’idea dell’accelerazione imposta da Israele all’attività edilizia in Cisgiordania dopo Annapolis, nonostante ogni impegno ivi solennemente assunto, basterà ricordare che le nuove costruzioni all’interno delle colonie erano state “solo” 800 nel corso del 2007 (con un incremento registrato nel 2008 pari, dunque, al 57%), mentre le nuove costruzioni negli avamposti, nel corso del 2008, risultano addirittura più che raddoppiate rispetto all’anno precedente, passando da 98 a 261 (più 166,3%).

Il vero è che Israele, se da una parte dichiarava fraudolentemente di voler raggiungere un accordo di pace con i Palestinesi e di voler congelare, a tal fine, ogni attività di edificazione di nuove costruzioni in Cisgiordania, dall’altra perseguiva senza sosta l’espansione delle colonie, in tre modi diversi:
1) iniziando e dando impulso a costruzioni e a progetti negli insediamenti a ovest del muro;
2) approvando permessi e licenze di costruzione, o addirittura la costruzione di
nuovi insediamenti, dietro richiesta dei coloni e come parte di accordi intervenuti tra questi e il governo israeliano;
3) ignorando ed evitando di smantellare le costruzioni non autorizzate e le espansioni degli avamposti illegali.

Così ad esempio, nel corso del 2008, sono state bandite gare per la costruzione di 539 nuovi alloggi in vari insediamenti colonici (Ariel, Efrat, Alfei Menashe, etc.) ed è stato dato il via libera all’inizio dei lavori in relazione a vasti progetti edilizi approvati in precedenza (950 unità abitative a Ma’aleh Adumim, 800 a Giv’at Ze’ev, 100 ad Ariel e così via).

Ma l’attività edilizia più rilevante è senz’altro quella che ha avuto luogo a Gerusalemme est, certamente da un punto di vista numerico ma, soprattutto, in considerazione dell’importanza che le questioni legate a detta area rivestono nel quadro di un accordo di pace definitivo tra Israeliani e Palestinesi.

Ebbene, secondo Peace Now, nel corso del 2008 a Gerusalemme est sono stati resi pubblici, per le eventuali osservazioni, i progetti relativi a 5.431 unità abitative e, di queste, ben 2.730 hanno ricevuto l’approvazione finale (nel 2007, ad ottenerla erano stati solamente 391 alloggi!).

Nello stesso periodo, inoltre, sono state pubblicate gare d’appalto per la costruzione di 1.184 nuove unità abitative, con un incremento del 49% rispetto al dato di 793 relativo all’anno precedente; degno di nota – e rivelatore del carattere puramente dilatorio e fraudolento che per Israele rivestono le “trattative” di pace – è il fatto che, negli undici mesi del 2007 precedenti Annapolis, erano state pubblicate gare per soli 46 alloggi, mentre le gare relative ai restanti 747 sono state pubblicate subito dopo Annapolis!

Non è peregrino ricordare che, nello stesso periodo, nessun permesso o licenza di costruzione è stato concesso ai Palestinesi residenti a Gerusalemme est, come del resto accade ormai da molti anni, ed anzi, dall’inizio del 2009, Israele ha già proceduto alla demolizione di ben 15 case di proprietà di Palestinesi: l’ultimo caso ha riguardato la demolizione di quattro edifici nel quartiere di al-Isawiya, che ha lasciato senza un tetto sotto cui stare una trentina di persone.

Fin qui il quadro delineato dal rapporto di Peace Now che, per questo, ha ancora una volta dovuto subire la
solita dose di ingiurie e di minacce.

Ma è di questi giorni la
notizia secondo cui Israele starebbe pianificando la costruzione del quartiere di Mevasseret Adumim – un imponente blocco di ben 3.500 unità abitative sito nella cd. Area E1 – e, a tal fine, ha già investito 200 milioni di shekel (circa 38,3 milioni di euro) per la costruzione delle necessarie infrastrutture preliminari, quali strade, punti di osservazione, barriere divisorie.

Se un progetto di tal genere venisse completato, si creerebbe un blocco abitato privo di soluzioni di continuità tra Gerusalemme est e l’insediamento di Ma’aleh Adumim, ma contemporaneamente si verrebbe a spezzare la continuità territoriale tra la parte araba di Gerusalemme e Ramallah, rendendo, come è ovvio, praticamente impossibile ogni intesa sui futuri confini e ogni accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi.

E’ questo l’argomento dell’editoriale di Ha’aretz del 3 febbraio scorso, pubblicato nella preziosa traduzione offerta da
Arabnews.

Qui voglio solo aggiungere che, ancora una volta, si dimostra come il reale ostacolo al processo di pace tra Israeliani e Palestinesi sia costituito dalla devastante opera di
colonizzazione della Cisgiordania, condotta in tutti questi anni al riparo di infinite, fraudolente e dilatorie trattative di “pace”.

Tra qualche ora conosceremo i risultati definitivi delle elezioni politiche in Israele, ma già sin d’ora sappiamo – chiunque venga nominato premier e qualunque governo si formi – che nulla cambierà sotto quest’aspetto, e che i coloni continueranno a prosperare, ad aumentare di numero, a costruire nuove, linde casette nella terra che Dio ha destinato loro, non certo a questi Arabi cenciosi.

Tzipi Livni, il candidato premier di Kadima (partito che gli exit poll danno in testa con la previsione di una trentina di seggi), in mesi e mesi di trattative non solo non è riuscita a raggiungere uno straccio di accordo con i Palestinesi riguardo ai confini definitivi, ma ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e ha accuratamente evitato di assumere alcun impegno riguardo alla questione di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu (previsione 28 seggi), è sempre stato ed è tuttora fiero avversario di ogni “concessione” territoriale ai Palestinesi e della divisione di Gerusalemme; trovandosi in campagna elettorale, ha un po’ aggiustato il tiro affermando di non essere contrario a colloqui di pace definitivi, ma di ritenerli soltanto “prematuri”, proponendo in cambio ai Palestinesi dei benefici esclusivamente economici.

Del terzo incomodo Lieberman e della sua formazione “Israele casa nostra” (previsione 15 seggi) non vale neanche la pena di parlare, essendone ben noto il carattere razzista e anti-arabo; mancava soltanto la notizia che Lieberman, anni addietro,fosse stato membro del
gruppo terrorista Kach.

A seconda del governo che si verrà a formare, dunque, Israele potrà o meno continuare a fingere di negoziare un accordo di pace con i Palestinesi, ma è certo che proseguirà a creare quei “fatti sul terreno” che allontanano ogni giorno di più quella pace che si finge di voler ricercare, impedendo la costituzione di uno Stato palestinese che non sia un mero aggregato di bantustan, privo della necessaria continuità territoriale e di adeguate risorse.

E questo vale soprattutto per Gerusalemme est, area all’interno della quale Israele – fin dal 1967 – ha cercato di creare una realtà geografica e demografica tale da frustrare ogni futuro tentativo di modificarne la sovranità territoriale, attraverso:
- l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania;
- la mancata concessione di nuove autorizzazioni edilizie alla popolazione araba e la demolizione delle costruzioni “abusive”;
- la revoca della residenza ai Palestinesi che si siano allontanati da Gerusalemme per almeno 7 anni, e sia pure se ivi erano nati e avevano sempre vissuto;
- la ineguale e discriminatoria allocazione del budget municipale tra le due parti della città.

La costruzione del nuovo quartiere di Mevasseret Adumim darebbe probabilmente il colpo di grazia ad ogni residua speranza palestinese di avere Gerusalemme est come capitale di un proprio Stato sovrano e, dunque, ad ogni accordo di pace che si voglia realisticamente condiviso e duraturo.

Toccherebbe agli Usa e alla Ue, gli “amici” di Israele, impedire che ciò avvenga e imporre un cambiamento di rotta attraverso l’avvio di un serio piano di demolizione degli avamposti e di sgombero delle colonie; perché, talvolta, anche agli amici si può dire – o si può far capire con atti concludenti (leggi: sanzioni) - che stanno sbagliando, per il nostro e per il loro stesso bene e, soprattutto, per il bene della pace e della giustizia tra i popoli.

Ne avranno la volontà e la forza?

CATTIVE NOTIZIE DA UN NUOVO QUARTIERE
3.2.2009

La notizia secondo cui Israele ha investito circa 200 milioni di shekel a Mevasseret Adumim, un nuovo quartiere ebraico ad est di Gerusalemme dove è prevista la costruzione di 3.500 unità abitative, rivela le reali intenzioni del governo uscente. Come ha riferito Amos Harel nell’edizione di ieri di Haaretz , negli ultimi due anni Israele ha investito enormi quantità di denaro in infrastrutture per la costruzione di unità abitative al fine di creare un blocco continuo fra Ma’aleh Adumim e Gerusalemme Est.
Nell’ultimo decennio, il governo americano si è opposto ad ogni costruzione israeliana nell’area. Ma ancor più preoccupanti del fatto di danneggiare gli interessi americani, o di investire il denaro pubblico in un progetto dal futuro incerto, sono le serie contraddizioni fra la politica dichiarata del governo e le sue azioni. In maniera ancora più allarmante, questo progetto edilizio rivela che il governo ha cercato di consolidare l’occupazione israeliana della Cisgiordania nello stesso momento in cui parlava del raggiungimento di un accordo con i palestinesi.

Durante il suo mandato di primo ministro, Ehud Olmert ha condotto prolungati colloqui con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, ed il ministro degli esteri Tzipi Livni si è impegnato in negoziati paralleli con il negoziatore palestinese Ahmed Qureia. L’obiettivo apparente di questi colloqui era di giungere ad un compromesso concordato – ma ora è chiaro che si trattava di un mero espediente. Mentre si avvicinava la scadenza del suo mandato, Olmert ha fatto alcune fra le più coraggiose dichiarazioni mai rilasciate da un primo ministro a proposito della necessità di porre fine all’occupazione e di giungere ad un accordo – ma ora è chiaro che si trattava di un inganno. Mentre egli continuava a parlare, e mentre i negoziati si trascinavano stancamente, il governo ha fatto l’opposto rispetto a quello che affermava essere il suo obiettivo.

L’unico obiettivo di Mevasseret Adumim è quello di spezzare la Cisgiordania, rompendo i legami fra Gerusalemme e Ramallah, e facendo naufragare l’ultima possibilità di giungere ad una soluzione pacifica.

Non si può parlare di soluzione dei due stati mentre si fa di tutto per distruggere ogni possibilità che questa soluzione si realizzi. Non si può parlare di porre fine all’occupazione mentre si continua a costruire in Cisgiordania. Le azioni, dopotutto, sono più eloquenti delle parole.

Le possibilità di creare uno stato palestinese in mezzo agli insediamenti ebraici in Cisgiordania sono scarse anche senza l’ulteriore complicazione di Mevasseret Adumim. Una simile ipocrisia da parte del governo, e le contraddizioni fra le politiche dichiarate e le azioni sul terreno, devono giungere ad una fine prima che la nuova amministrazione americana venga coinvolta. Se volete la pace, non investite nella costruzione di Mevasseret Adumim.

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9 febbraio 2009

La pace irraggiungibile e gli scudi umani.




Segnalato dal blog di Mirumir, questo interessante reportage della Cbs evidenzia come meglio non si potrebbe le devastanti conseguenze della colonizzazione in Cisgiordania, che ogni giorno di più allontana ogni realistica prospettiva di pace tra Israeliani e Palestinesi basata sulla cd. soluzione a due stati.

Ed anzi, ogni realistica prospettiva di pace tout court.

Il reportage della Cbs è ben realizzato ed argomentato, e nulla vi è da aggiungere al riguardo; qui voglio sottolineare, tuttavia, l'aspetto riguardante la vicenda, narrata nel video, del sequestro dell'abitazione di Nablus e dei Palestinesi ivi residenti, per scopi militari, da parte dell'esercito israeliano.

Secondo Donatella Rovera, una investigatrice di Amnesty International, "è una prassi standard per i soldati israeliani entrare in una abitazione, rinchiudere la famiglia in una stanza a piano terra e usare il resto della casa come una installazione militare, o come una postazione per cecchini. Questo è un caso assolutamente da manuale di (utilizzo di) scudi umani".

La propaganda israeliana - al fine di giustificare gli orribili massacri di civili commessi dal proprio esercito a Gaza - ha sempre usato come scusante, e continua a farlo, il fatto che Hamas abbia utilizzato i civili palestinesi come scudi umani nel corso dell'operazione "Piombo Fuso", "costringendo" i soldati israeliani all'uccisione di Palestinesi inermi ed innocenti, derubricata in tal modo a "errore scusabile"; propaganda cinica e spregiudicata questa, peraltro rilanciata con entusiasmo dai media di regime e dai politici filosionisti di casa nostra (vero, ministro Frattini?).

Ma, anche laddove Hamas avesse effettivamente commesso crimini di guerra - perchè è tale l'utilizzo forzoso di civili per scopi militari - questo non assolve affatto Israele per l'uccisione in massa di civili inermi e gli svariati crimini di guerra commessi durante la recente aggressione alla Striscia di Gaza; l'uso di "scudi umani" da parte di Hamas, peraltro, non risulta affatto provato in alcun modo, ed anzi in varie occasioni osservatori indipendenti come i funzionari Onu o i ricercatori delle ong per la tutela dei diritti umani, come ad esempio B'tselem, hanno potuto smentire le asserzioni propagandistiche dell'esercito israeliano.

Quello che risulta provato senza ombra di dubbio, da numerose testimonianze e da filmati, è al contrario l'utilizzo di scudi umani da parte del valoroso esercito israeliano, prima, durante e - ora lo sappiamo - anche dopo l'attacco a Gaza.

Ma, naturalmente, tutto è consentito in nome della "sicurezza" di Israele, e così facciamo finta di non vedere all'opera questi spietati e biechi criminali.

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12 novembre 2008

Israele ha bisogno di un esame di coscienza.

Il risultato delle elezioni politiche che si svolgeranno in Israele nel mese di febbraio del prossimo anno, unitamente a quello delle recenti elezioni presidenziali Usa, secondo molti commentatori dovrebbe portare importanti novità per il futuro del Medio Oriente.

Ci permettiamo di dubitarne, e in proposito riportiamo un articolo del giornalista arabo-americano George Hishmeh, pubblicato il 30 ottobre sul quotidiano on line Middle East Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Per limitarci al campo israeliano, Tzipi Livni, già ministro degli esteri nel governo Olmert e candidato premier di Kadima, in mesi e mesi di trattative con i Palestinesi non è riuscita a giungere ad alcuna intesa sui confini, ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e non ha assunto alcun impegno su Gerusalemme.

Ancora in questi giorni, la Livni ha sentito il bisogno di distanziarsi dalle dichiarazioni di Olmert in occasione delle celebrazioni commemorative in onore di Yitzhak Rabin, durante le quali il premier uscente aveva sostenuto la necessità del ritorno di Israele ai confini del 1967 (salvi alcuni aggiustamenti territoriali) e di restituire ai Palestinesi i quartieri arabi di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni alle prossime elezioni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu, è peraltro da sempre, e con più forza, fiero avversario di ogni concessione territoriale e della divisione di Gerusalemme.

Trovandosi in campagna elettorale, ha lievemente “addolcito” le sue posizioni, sostenendo di non essere contrario a colloqui di pace con i Palestinesi, ma di ritenerli solo” prematuri”; naturalmente, di condividere il controllo di Gerusalemme non se ne parla neppure.

A ciò aggiungasi la crescente aggressività dei coloni e le difficoltà incontrate dall’esercito israeliano nell’evacuare persino singoli insediamenti colonici illegali, il che fa prevedere che un eventuale sgombero dei settlers dall’intera Cisgiordania costituirebbe questione tutt’altro che agevole.

In buona sostanza, per Israele è ora di scegliere tra la soluzione a due stati, con la creazione di uno Stato palestinese che conviva accanto ad un Israele “ebraico”, e quella (invero aborrita) di un unico stato binazionale con eguali diritti per tutti i suoi cittadini, siano essi Arabi o Ebrei.

E, tuttavia, ora come sempre, sembra continuare a prevalere la “terza via” che vede uno Stato ebraico e democratico, da una parte, e uno Stato dell’apartheid in Cisgiordania (ma che dico, in Giudea e Samaria), fatto di checkpoint, colonie, strade ad uso esclusivo degli Ebrei, brutalità, aggressioni, omicidi. Il tutto con la complicità degli Usa e la sorprendente inerzia e indifferenza per i diritti umani dei Palestinesi mostrati dall’Europa.

E’ ovvio che sarebbe necessario un intervento risoluto della comunità internazionale, e in primis degli Usa, per ”costringere” i due contendenti a fare la pace e a raggiungere un equo compromesso su tutte le questioni sul tappeto.
Ma, viste anche le sue prime nomine, dubitiamo che Obama sia il Presidente degli Usa capace di imprimere una tale svolta.

NECESSITA’ DI UN PROFONDO ESAME DI COSCIENZA
di George Hishmeh

Ora è il turno di Israele di andare alle urne. Ciò che vale per l’America vale anche per lo stato ebraico. Gli israeliani eleggeranno il prossimo febbraio un nuovo parlamento di 120 membri.

I risultati delle elezioni in Israele e in America sono destinati a condizionare gli eventi in Medio Oriente; speriamo davvero che i nuovi leader dei due paesi portino buone notizie sia per gli arabi che per gli israeliani, entrambi così a lungo traumatizzati.

Le elezioni israeliane sono state anticipate a causa del fallimento di Tzipi Livni, il premier incaricato, nel suo tentativo di formare un nuovo governo di coalizione. Come ministro degli esteri uscente, la Livni è stata scelta dal suo partito in una elezione primaria a settembre affinché prendesse il posto del primo ministro Ehud Olmert, macchiatosi di corruzione, il quale a seguito del fallimento della Livni potrà continuare ad assolvere le sue funzioni, probabilmente fino a marzo, se non fino ad aprile, quando si sarà insediato un nuovo governo.

A suo credito bisogna dire che la Livni ha denunciato le condizioni poste dal partito ultra-ortodosso ‘Shas’, che controlla solo 12 seggi nella Knesset (il parlamento), per accettare di aderire al suo governo. Il partito voleva maggiore assistenza pubblica per i suoi elettori, nonché un impegno della Livni a non fare concessioni sul futuro di Gerusalemme. I palestinesi vogliono invece tornare nella Città Vecchia occupata dagli israeliani, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Reagendo indignata alle “irragionevoli richieste economiche e politiche” del partito Shas, la Livni ha abbandonato il suo tentativo di formare un governo e ha optato per le elezioni generali. “Chiunque sia disposto a vendere i propri principi per il posto di primo ministro non merita di occuparlo”, ha detto.

La cosa strana in tutto questo è che il partito Shas, riconosciuto come “un elemento cruciale nella costituzione delle coalizioni di governo”, è stato un membro del governo Olmert tuttora in carica che, a sua volta, ha negoziato per giungere ad un accordo israelo-palestinese, dal momento che si era impegnato a farlo alla conferenza di Annapolis nel novembre dell’anno scorso.

L’altra faccia della medaglia della Livni non è molto promettente. La Livni ha avuto colloqui con il suo omologo palestinese, Ahmed Qurei, per quasi un anno, ma Akiva Eldar, editorialista di spicco del quotidiano israeliano Haaretz, ha lamentato il fatto che essa “non ha fatto progressi significativi in direzione di un’intesa, in nessuna delle questioni in ballo”. In realtà, ha aggiunto, “non ha presentato una mappa che definisse i confini dello stato, ha dichiarato che a nessun rifugiato sarà consentito di tornare in Israele, e ha evitato un dibattito serio su Gerusalemme”.

Un serio rivale della Livni alle prossime elezioni israeliane è Benjamin Netanyahu, l’aggressivo leader del Likud, che ha dichiarato la sua indisponibilità a condividere Gerusalemme con i palestinesi ed a concordare il reinserimento dei profughi palestinesi che hanno lasciato la loro patria. Netanyahu, che è stato fino a questa settimana uno dei principali candidati nella corsa per la carica di primo ministro, è anche noto per la sua determinazione a non rinunciare all’occupazione delle alture del Golan in Siria, e delle principali aree della Cisgiordania occupata.

I coloni israeliani in Cisgiordania, che si oppongono a qualsiasi evacuazione, e che sono circa 460.000, sono diventati ultimamente un grave problema per la sicurezza. Attaccano i loro vicini palestinesi, e anche la polizia e i militari israeliani, ogniqualvolta questi ultimi provano ad intervenire per fermare gli scontri. Questo è esattamente ciò che è accaduto ultimamente a Hebron. I coloni israeliani sono insorti contro le forze armate israeliane e hanno tentato di incendiare uno dei veicoli della polizia; poi hanno rivolto la loro rabbia contro i palestinesi, danneggiando più di 80 delle loro automobili, infrangendo le finestre delle abitazioni palestinesi, nonché profanando un cimitero musulmano.

Il quotidiano Haaretz, in un editoriale, ha affermato che il comportamento dei coloni, “non può che essere definito ‘terrorismo’, nel senso letterale della parola: la volontà di diffondere la paura e l’intimidazione”.

La Banca Mondiale, in un rapporto pubblicato la scorsa settimana, ha condannato la violenza e il vandalismo dei coloni israeliani poiché scoraggiano gli investimenti in Cisgiordania. Nei territori occupati l’economia continua a “boccheggiare, nonostante l’incremento degli aiuti internazionali”, e la Banca Mondiale dà principalmente la colpa ad Israele, perché continua a tenere i territori palestinesi in una morsa soffocante.

Di recente si sono verificati anche gravi scontri nelle città miste arabo-ebraiche in Israele, come è accaduto ad Acri. Più di 50 negozi e oltre 150 autovetture di proprietà ebraica sono stati danneggiati, e sono stati anche segnalati 11 casi di incendio doloso di abitazioni arabe. Altri incidenti hanno avuto luogo nell’area di Tel Aviv e Jaffa, e vi è un crescente timore di possibili scontri sanguinosi nella città divisa di Lydda/Lod.

Il Mossawa Center, che rappresenta i cittadini arabi in Israele, ha denunciato che la comunità araba, costituita da più di 1 milione di cittadini, è stata discriminata in termini di accesso agli alloggi, all’istruzione e ai servizi pubblici. Questa è una protesta comune, sostenuta da molti gruppi che difendono i diritti umani.

A prescindere dal fatto che i recenti tumulti abbiano contribuito o meno, i leader israeliani sembrano aver scoperto in ritardo di sei anni l’iniziativa di pace araba. Il presidente israeliano Shimon Peres ha sollevato la questione durante la sua recente visita al presidente egiziano Hosni Mubarak; e l’ex primo ministro Ehud Barak, ora ministro della difesa nel governo uscente, ha anch’egli espresso interesse per la proposta araba.

Tuttavia, resta da vedere quanto facciano sul serio i leader israeliani. In risposta alle allusioni israeliane di voler negoziare la proposta, il presidente egiziano ha ribadito con forza a Peres che l’iniziativa non è negoziabile, e che tutto ciò che Israele deve fare è raggiungere un accordo con i palestinesi, con i siriani e con i libanesi. Una volta che ciò sarà stato fatto, tutti i paesi arabi, come promesso nell’iniziativa di pace, potranno stabilire normali relazioni con Israele.

Tanto quanto i loro omologhi americani, gli israeliani hanno bisogno di intraprendere un profondo esame di coscienza, se vogliono che la pace si diffonda in Medio Oriente.

George Hishmeh è un giornalista arabo-americano residente a Washington; collabora con diversi giornali arabi in lingua inglese, come il Gulf News, il Jordan Times, ed il Daily Star; è stato presidente della Washington Association of Arab Journalists (WAAJ); è nato a Nazareth, in Palestina

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7 novembre 2008

Senza parole.

Il canale televisivo israeliano Channel 10 ha diffuso ieri un filmato che mostra alcuni soldati della brigata Golani, in servizio ad un checkpoint in Cisgiordania, nell’atto di umiliare un Palestinese legato e bendato.

Il filmato, girato dagli stessi soldati, mostra il Palestinese costretto a stare in ginocchio e a ripetere frasi suggeritegli con scherno dai soldati stessi, che ad ogni frase ripetuta dall’uomo (sovente corretto) ridono fragorosamente.

Una delle frasi recita: “La Golani ti porterà un pezzo di legno per ficcartelo su per il culo”.

Si rimane davvero senza parole di fronte a questo ennesimo episodio di umiliazione inflitta ad un pover’uomo del tutto inerme e indifeso.

E il fatto che il video sia stato girato dagli stessi soldati dimostra, di tutta evidenza, come essi siano fieri di una tale condotta riprovevole, come considerino “normale” umiliare e violare la dignità di un essere umano (che dovrebbe essere) loro pari.

L’ennesimo episodio che mostra il preoccupante degrado dei valori morali e il senso dell’onore proprio dei membri delle forze di occupazione israeliane, vero vanto di una nazione razzista e colonialista.

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15 ottobre 2008

La Giordania: una "patria alternativa" per i Palestinesi?

Nonostante la promessa di Bush di assicurare la creazione di uno Stato palestinese entro la fine del suo mandato, e nonostante le rassicuranti conclusioni a cui era giunto il vertice di Annapolis, la fine del 2008 si avvicina a grandi passi e un accordo di pace tra Palestinesi e Israeliani appare più lontano che mai.

La continua, ed anzi accelerata, espansione degli insediamenti colonici nella West Bank, il processo di “giudaizzazione” di Gerusalemme est, le continue frizioni e gli scontri tra Ebrei e Palestinesi nei Territori occupati e, ora, anche all’interno di Israele (vedi le violenze in corso a S. Giovanni d’Acri) costituiscono preoccupanti segnali di un aumento della tensione e delle spinte che, all’opposto, allontanano sempre più il traguardo di una pacifica convivenza di due popoli in due Stati confinanti dai confini certi e internazionalmente riconosciuti.

Da un punto di vista politico, le difficoltà della Livni a formare un nuovo governo e la necessità di imbarcare nella compagine governativa anche lo Shas implicano il congelamento di ogni discussione riguardo al futuro di Gerusalemme e, dunque, di fatto escludono ogni possibilità di accordo con i Palestinesi.

Prendono così quota le soluzioni “alternative” alla questione israelo-palestinese, quella che vorrebbe un unico Stato binazionale in cui Arabi ed Ebrei convivano insieme con eguali diritti e quella, tanto più cara ad Israele (ma non solo, come abbiamo
visto), che ritiene che già esista uno Stato palestinese, identificandolo con la Giordania, con tanti saluti per il diritto al ritorno e per la prevedibile gioia di re Abdullah II.

E, tuttavia, entrambe queste soluzioni alternative presentano delle difficoltà di attuazione pressoché insormontabili, di cui intendiamo qui occuparci esaminando dapprima l’opzione giordana nell’analisi svolta da Mohammed Hussein al-Momani in un articolo apparso il 10 ottobre sulla testata al-Ghad e qui proposto nella traduzione del sito Arabnews.

Vogliamo qui solo segnalare che, a nostro giudizio correttamente, l’autore si schiera senza tentennamenti a favore della soluzione a due Stati, l’unica pragmaticamente percorribile, individuando nella Ue il soggetto politico con le credenziali giuste per “costringere” alla pace i due popoli, aiutandoli e, se del caso, forzandoli a superare quel gap tra le rispettive posizioni che oggi appare assolutamente incolmabile.

Partendo, è il caso di ribadire, dalle previsioni della risoluzione Onu n.242 del 1967 e dall’applicazione del generale principio della inammissibilità dell’acquisizione di territori a mezzo della guerra, che non è in alcun modo negoziabile.


IL RULLO DI TAMBURI DELLA “PATRIA ALTERNATIVA”
10/10/2008

E’ un’aspirazione segreta di Israele e della comunità internazionale quella di affidare alla Giordania la soluzione della questione palestinese, attraverso l’assunzione, da parte di Amman, di un ruolo politico e di sicurezza in Cisgiordania [1]. Ciò rappresenterebbe per lo stato ebraico e per gli altri paesi del mondo la soluzione ideale della storica crisi mediorientale, che continua a far parte dell’agenda politica dei leader interessati alla sicurezza ed alla stabilità del Medio Oriente.

Un ruolo giordano in Cisgiordania tradurrebbe in realtà il desiderio del mondo di “esportare” il problema del popolo palestinese al di fuori del contesto politico israeliano, lontano dalle pressioni emotive che sono sempre presenti quando si ha a che fare con Israele. Ma – cosa ancora più importante – un ruolo giordano nella questione palestinese sarebbe visto con fiducia dalla comunità internazionale, a causa della credibilità e della tradizione politica e di sicurezza che può vantare lo stato giordano.

Questo sogno è sostenuto da una logica secondo cui, in sostanza, il divario fra il livello minimo di diritti che i palestinesi potrebbero accettare ed il livello massimo di concessioni che gli israeliani potrebbero fare è ormai molto grande, e continua a crescere giorno dopo giorno. Ciò spiega i timori dei sostenitori della pace di entrambi i fronti per il fatto che il tempo continua a passare, senza che si giunga ad un compromesso pacifico e condiviso. A causa di questa situazione di stallo e di questa contrapposizione radicata che continua ad aggravarsi, alcuni sostengono che una soluzione potrà essere trovata soltanto attraverso una terza parte che giochi un ruolo tale da permettere di colmare il baratro esistente fra le posizioni politiche delle due controparti.

Una teoria di questo genere è intrinsecamente insostenibile. Essa porta in sé i germi di una boria e di una presunzione politica inaccettabile, e non è sostenuta neanche da quel livello minimo di pragmatismo politico che ha conosciuto in passato il conflitto arabo-israeliano; così come non tiene conto del supremo interesse che Israele dovrebbe nutrire per l’esistenza di uno stato palestinese che rappresenti i diritti politici ed umani del popolo palestinese, poiché questa è l’unica garanzia al fatto che Israele continui ad essere una democrazia a maggioranza ebraica.

I fautori della teoria di un ruolo giordano in Cisgiordania non si rendono conto del fatto che un ruolo di questo genere non realizzerebbe le aspirazioni nazionali palestinesi, e che fra i palestinesi vi è chi ha cominciato a chiedere uno stato democratico binazionale unitario [2] rendendosi conto che Israele sta inconsapevolmente andando verso quest’unica soluzione possibile.

La teoria della “patria alternativa” incontra una opposizione salda e ferma da parte dell’interessato principale (cioè la Giordania (N.d.T.) ), sia a livello ufficiale che a livello popolare. Chiunque dia un’occhiata al panorama politico giordano si renderà conto che la posizione di rifiuto della Giordania nei confronti della questione della “patria alternativa” è la più netta da molti anni a questa parte, e che uscire da questa elementare verità nazionale equivarrebbe al suicidio politico per chiunque volesse tradurre in pratica questa idea [3].

E’ diritto della Giordania puntare il dito dell’accusa contro chiunque intenda proporre il progetto della “patria alternativa”, poiché tale progetto non tiene conto degli interessi politici fondamentali dello stato giordano, compreso il diritto all’esistenza. Il progetto della “patria alternativa” è infatti destinato a porre fine all’entità giordana così come la conosciamo oggi, per trasformarla in qualcosa di differente che potrebbe non rientrare nelle aspettative della comunità internazionale [4].

Ciò di cui Israele e la comunità internazionale si devono rendere conto è che la Giordania moderata ed equilibrata nei suoi rapporti internazionali, dedita alla sua credibilità e sostenibilità, è come una pietra focaia, piacevole al tatto ed alla vista, ma in grado di fare scintille se sfregata contro qualcosa di duro. Dall’applicazione della teoria della “patria alternativa” potrebbe emergere un aspetto della Giordania che il mondo non conosceva, qualcosa in grado di provocare pericolose scintille. La teoria della “patria alternativa” è per i giordani come l’invito a tornare al periodo della schiavitù per la società americana, o come esaltare la figura di Hitler davanti agli europei, o come negare l’Olocausto di fronte agli israeliani o agli ebrei del mondo.

Il ruolo giordano ed egiziano nell’ambito del conflitto arabo-israeliano è costruttivo e sufficiente, e si esplica nel compito giordano di addestrare le forze di sicurezza in Cisgiordania e nel ruolo di mediazione politica dell’Egitto. Ciò che serve non è sviluppare ulteriormente questo ruolo, poiché una cosa del genere si tradurrebbe in un ulteriore fardello per la soluzione del conflitto. Ciò che è necessario è invece un ruolo europeo che spinga verso la realizzazione della soluzione dei due stati, che rappresenta ormai un interesse prioritario per i palestinesi, per la Giordania, e per Israele.

Mohammed Hussein al-Momani è professore di Scienze Politiche presso la Yarmouk University, che ha sede a Irbid, in Giordania
[1] Questa ipotesi, generalmente definita come ‘opzione giordana’ o teoria della ‘patria alternativa’, in riferimento ai Palestinesi residenti in Cisgiordania, è quella che prevede l’annessione alla Giordania di quel che resta della Cisgiordania palestinese; nella sua versione più estrema, quella a lungo sostenuta da Ariel Sharon, l’opzione giordana equivale all’affermazione che lo Stato deiPalestinesi è la Giordania stessa, cioè il territorio a est del Giordano (N.d.T.)

[2] uno stato, cioè, che riunisca ebrei e palestinesi in un’unica nazione democratica (N.d.T.)

[3] il dibattito intorno alla teoria della ‘patria alternativa’ è tornato al centro dell’attenzione in Giordania nel giugno di quest’anno, a seguito delle dichiarazioni fatte da Robert Kagan, consigliere di politica estera del candidato repubblicano John McCain; in queste dichiarazioni, poi smentite, Kagan avrebbe affermato che la Giordania è la patria naturale dei palestinesi ed è la migliore soluzione per la questione dei profughi palestinesi; nonostante la successiva smentita, questi dichiarazioni hanno suscitato in Giordania condanne e polemiche protrattesi per lungo tempo; a proposito di tale vicenda si può consultare l’articolo apparso su ‘The National’, quotidiano degli Emirati Arabi Uniti, con il titolo: [2] “Jordanian option worries politicians” (N.d.T.)

[4] dopo che la Cisgiordania era stata sottoposta all’amministrazione giordana fino alla guerra del 1967, quando fu occupata da Israele, nel 1988 la Giordania decise di annunciare ufficialmente e definitivamente la rottura di ogni legame giuridico ed amministrativo con la Cisgiordania; per un resoconto sulla storia dei rapporti giordano-palestinesi si può consultare l’articolo [3] “Le relazioni giordano-palestinesi fra presente e futuro” (N.d.T.)

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18 settembre 2008

Due destini separati per Gaza e la Cisgiordania?

In questi giorni in cui cade il 15° anniversario degli accordi di Oslo, la soluzione del conflitto israelo-palestinese secondo la formula “due stati per due popoli” appare più lontana che mai, e solo gli Usa restano, almeno ufficialmente, aggrappati alla speranza che un accordo di pace possa essere raggiunto entro la fine del 2008.

Il pericolo piuttosto, vista la distanza tra le parti ed il rifiuto di Israele di discutere i nodi fondamentali del conflitto (Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi, in particolare), è che un accordo di pace non potrà mai essere raggiunto.

Nel campo palestinese si comincia a guardare con sempre maggior favore ad una soluzione che preveda, all’opposto, un unico stato binazionale all’interno del quale arabi ed ebrei godano di eguali diritti, vuoi per intima convinzione, vuoi in maniera strumentale, brandendo questa ipotesi come una minaccia contro gli Israeliani, che tale soluzione hanno sempre aborrito.

Ma, secondo l’analisi svolta da Ghassan Khatib nell’articolo che segue, pubblicato il 13 settembre su Bitterlemons.org e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews, anche la strategia di Israele nei confronti della questione palestinese tende ad abbandonare, non da ora, la strada della soluzione negoziata a due stati, ma con un punto d’arrivo ben diverso: rendere definitiva la separazione tra Gaza e West Bank assegnando il controllo e la responsabilità di questi territori, rispettivamente, all’Egitto e alla Giordania.

Con quale gioia per Mubarak e, soprattutto, per il re Abdullah II si può facilmente immaginare.

In questo quadro assume nuova luce la denuncia delle ong B’tselem e HaMoked, che recentemente hanno sottolineato come Israele tenda sempre più a istituzionalizzare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, attraverso il “congelamento” di fatto dei registri della popolazione civile.

Israele, in sostanza, nega ogni validità ai cambi di residenza da Gaza alla West Bank e viceversa, richiedendo ad esempio a chi risulta registrato nella Striscia un apposito permesso militare per poter rimanere nella propria casa in Cisgiordania, oppure richiedendo un deposito in denaro a chi, da Gaza, deve recarsi in Cisgiordania per sposarsi, a garanzia di un rientro immediato nella Striscia dopo la cerimonia!

E, naturalmente, Israele si riserva di deportare a Gaza chiunque si trovi a risiedere “illegalmente” in Cisgiordania, in spregio a tutti quegli accordi e dichiarazioni che, a partire da Oslo, hanno sempre riaffermato il principio dell’unicità dei territori palestinesi.

Ma sembrano acquistare una luce diversa anche le dichiarazioni di vari esponenti politici occidentali, da ultimo l’ottimo amico di Israele che risponde al nome di Franco Frattini, il quale – in occasione di un convegno all’Aspen Institute – dopo aver ricordato per l’ennesima volta come l’antisemitismo stia dilagando in Europa, confondendosi “con la legittima critica politica” (e dagli!), ha aggiunto che la soluzione del conflitto israelo-palestinese passa attraverso l’adozione di un nuovo “Piano Marshall”, “che nasca da interessi condivisi tra israeliani, palestinesi, ma anche giordani ed egiziani…”.

Nessuno che si preoccupi – nemmeno per sbaglio – di ricordare che la pacificazione tra israeliani e palestinesi deve passare, ancor prima e necessariamente, attraverso il rispetto dei diritti umani, del principio di autodeterminazione dei popoli, della legalità internazionale.

Nessuno che si preoccupi – nemmeno per sbaglio – di propugnare la piena applicazione della risoluzione Onu n.242 del 1967, che oltre a prevedere una soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base di due stati dalle frontiere certe e riconosciute, aveva scolpito quel principio fondamentale per la convivenza tra i popoli che è, o dovrebbe essere, quello dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori altrui attraverso la guerra.


EGITTO E GIORDANIA: DUE DESTINI SEPARATI PER GAZA E LA CISGIORDANIA?
13/9/2008

La strategia di Israele nei confronti dei territori palestinesi è cambiata in maniera significativa dopo il primo accordo raggiunto tra le due parti nel 1993. Tale cambiamento sta costringendo la Giordania e l’Egitto, controvoglia, ad adattarsi.

Prima dell’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1995 da parte di un estremista ebreo, la visione israeliana di una soluzione consisteva nel porre fine all’occupazione di Gaza e della Cisgiordania e di permettere la creazione di uno stato palestinese. Una visione sicuramente non in linea con il diritto internazionale. Al tavolo dei negoziati, Israele continuava a mercanteggiare sull’esatta collocazione dei confini, nonché su alcuni aspetti relativi a Gerusalemme ed alla questione dei profughi. Ma lontano dal tavolo negoziale Israele creava fatti compiuti, costruendo ed espandendo insediamenti, nel tentativo di pilotare il risultato dei negoziati.

Ciò nonostante, le due parti in causa, e terze parti interessate ed impegnate nella questione palestinese, nonché la comunità internazionale in generale, continuavano a promuovere il conseguimento di una soluzione tramite negoziati che implicavano la creazione di due stati sulla base dei confini del 1967. Una strategia perseguita, sebbene in maniera più cauta, anche negli anni intercorsi fra l’omicidio di Rabin e l’ascesa al potere di Ariel Sharon.

Da un punto di vista storico, la soluzione a due stati liberava dal fardello della questione palestinese sia l’Egitto che la Giordania. Il conflitto palestinese era, e rimane, un conflitto dalle notevoli implicazioni emotive per le società arabe, e specialmente per l’opinione pubblica di questi due paesi. Tuttavia, il processo di Oslo ha permesso a entrambi i paesi di fare un passo indietro rispetto a questo conflitto – atteggiamento che è culminato con la decisione presa dal re Hussein (di Giordania, (N.d.T.) ) di disimpegnarsi dalla Cisgiordania, limitandosi ad appoggiare l’OLP come unico rappresentante del popolo palestinese con l’obiettivo di ottenere uno stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza.

Eppure, anche durante tutti questi anni in cui il Likud non ha dominato l’agenda politica israeliana, Ariel Sharon è rimasto saldo nella sua antica convinzione che, se fosse stata necessaria la creazione di uno stato palestinese indipendente, questo stato sarebbe dovuto essere la Giordania. Sharon considerava la Cisgiordania come una parte di Israele e, in ogni caso, riteneva che la popolazione della Giordania fosse a maggioranza palestinese, per cui una soluzione del genere si conciliava con la sua impostazione di estrema destra.

Di conseguenza, quando Sharon salì al potere nel 2001, vi fu una ‘evoluzione’ nella visione strategica israeliana. I leader di Israele continuarono a rispettare solo a parole la soluzione a due stati. Ma, sul terreno, Israele ha in effetti compiuto passi unilaterali per determinare il futuro dei territori occupati e modellare i loro rapporti non solo con lo stato ebraico ma anche con l’Egitto e la Giordania. Mentre i negoziati sono ripresi e sono tuttora in corso, d’altra parte essi servono, principalmente, a dare a Israele il tempo di implementare questa nuova strategia.

Infatti, le pratiche di Israele contraddicono fortemente gli impegni verbali presi dallo stato ebraico nel corso dei negoziati. Israele sta gradualmente separando le politiche di Gaza e della Cisgiordania l’una dall’altra. Allo stesso tempo, sta riducendo la dipendenza di queste due regioni da Israele. Ciò è manifesto nel caso di Gaza, sebbene stia diventando lentamente più evidente anche in Cisgiordania.

La separazione di fatto di Gaza sia dalla Cisgiordania che da Israele, combinata con l’assedio brutale che Israele ha imposto su quella striscia di terra ormai impoverita, ha lasciato ben poche alternative agli abitanti di Gaza oltre a quella di intensificare in un modo o nell’altro i contatti con l’Egitto. E, se da un lato l’Egitto non ha nessun interesse in questo processo, dall’altro non può che adeguarvisi.

Questo spiega il ruolo attivo che l’Egitto ha assunto sia verso la politica interna di Gaza sia nel mediare le relazioni tra Israele e Gaza e, in generale, tra palestinesi, promuovendo il dialogo tra Fatah, Hamas e la altre fazioni.

Ci si può aspettare qualcosa di simile in Cisgiordania, specialmente una volta che Israele avrà finito di costruire il muro di separazione. Questo muro, oltre a separare le aree palestinesi l’una dall’altra, separerà le parti popolate della Cisgiordania da Israele. In questo modo, i palestinesi dovranno necessariamente dipendere da qualcun altro, e questo qualcun altro dovrà per forza essere la Giordania, o quantomeno passare per la Giordania.

Sebbene la Giordania sia meno coinvolta nella politica interna palestinese di quanto lo sia l’Egitto, stiamo assistendo ad un aumento della circolazione tra Giordania e Palestina, oltre che ad una crescita delle relazioni economiche e delle interazioni attraverso il fiume Giordano. Ci sono nuovi progetti; la Giordania fornisce energia elettrica alla parte palestinese della valle del Giordano, compresa la città di Gerico. Inoltre, ci sono notizie, confermate da Hamas, secondo cui l’Egitto starebbe fornendo carburante a Gaza. E’ possibile che il recente riavvio degli sforzi di riconciliazione tra Hamas e il governo giordano faccia parte di questi sintomi di cambiamento.

La Giordania e l’Egitto stanno adattandosi a questo mutamento nella visione israeliana perché non hanno molte alternative. Questi due paesi si trovano a prendere parte, controvoglia, ad una strategia israeliana unilaterale che segna la fine di una soluzione negoziata a due stati.

Ghassan Khatib è vicepresidente della Birzeit University, ed è stato ministro palestinese della pianificazione

Titolo originale:
[1] Forcing the neighbors into play

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