21 dicembre 2011

E' primavera anche per la destra israeliana

Le paure suscitate ad arte in Israele, che si sente minacciato dalla primavera araba e dai fondamentalisti alle porte, hanno consentito al premier Netanyahu di tacitare le proteste di piazza e di rafforzare la sua ideologia e il suo governo.

Purtroppo questo comporta l’incremento dell’attività di espansione delle colonie, delle demolizioni e degli espropri, anche e soprattutto a Gerusalemme est: in una parola, insomma, la fine di ogni realistica possibilità di componimento pacifico del conflitto israelo-palestinese.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, scritto per Ha’aretz dal giornalista Aluf Benn e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.

Springtime for the Israeli right as well
di Aluf Benn – 16.12.2011

La reazione di Israele agli sconvolgimenti della primavera araba è stata un attacco di panico i cui sintomi si sono progressivamente aggravati via via che le manifestazioni di Facebook e Twitter negli Stati arabi si sono trasformate in violente guerre civili e hanno rafforzato i movimenti islamisti. La paura lungamente repressa di Israele che la caduta di Hosni Mubarak avrebbe fatto emergere i Fratelli Musulmani al suo posto e che l’Egitto sarebbe diventato un nuovo Iran – o, nel migliore dei casi, una Turchia in stile Erdogan – si sta realizzando, e la preoccupazione sta crescendo.

L’apprensione di Israele non riflette soltanto un’istintiva repulsione per l’Islam politico: essa riguarda anche gli equilibri di potere regionali. La situazione strategica di Israele è peggiorata nell’ultimo anno. Le alleanze regionali con la Turchia e l’Egitto sono crollate. Inoltre, non è chiaro per quanto tempo ancora esisterà quella con il regno hascemita di Giordania; nel frattempo, anche quest’ultimo sta tenendo a distanza Israele. Gli Stati Uniti, indeboliti sotto la traballante leadership di Barack Obama, non comandano più in Medio Oriente. La Grecia, nuovo alleato di Israele, sta cadendo a pezzi a causa della crisi economica. L’Iran ignora le minacce e le sanzioni, e prosegue la sua corsa al nucleare. L’Autorità Palestinese si sta avvicinando sempre più ad Hamas.

Questo fosco scenario è punteggiato da qualche sprazzo di luce. Il regime di Assad in Siria si è avvitato in una crisi senza uscita, a seguito della quale anche Hezbollah si è indebolito. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas voleva che le Nazioni Unite riconoscessero la Palestina, ma Israele ha fatto naufragare la sua iniziativa. L’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, che, come Israele, sono affezionati al vecchio ordine regionale e temono i cambi di regime e la crescente potenza dell’Iran, stanno tacitamente collaborando con Israele su questioni di interesse comune.

Ma tutto questo è magra consolazione. A fronte di un crescente isolamento, Israele ha reagito come il bullo della classe quando viene spaventato, scoprendo i denti e minacciando guerra. Ha compiuto un test di missili balistici ed esercitazioni di attacco a lungo raggio, creando l’impressione che fosse sul punto di colpire gli impianti nucleari iraniani. Il messaggio rivolto ai vicini e alla comunità internazionale è: “Israele è ancora importante, e può combinare guai”.

Gli sconvolgimenti regionali di quest’anno hanno preoccupato la maggior parte degli israeliani, ma fra essi ve n’è uno che ha trasformato la paura in un’opportunità politica senza precedenti. Fin dall’avvento della primavera araba, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha compreso che la caduta di Mubarak poneva fine alla dottrina “terra in cambio di pace”. Dal punto di vista di Netanyahu e dei suoi colleghi di destra, era stato ormai dimostrato oltre ogni dubbio che non vi è nessuno con cui dialogare e niente di cui parlare, e che qualunque territorio evacuato da Israele alla fine diventerà una base per attacchi terroristici contro lo Stato ebraico – come sta accadendo ora nel Sinai. Da un giorno all’altro, la sinistra israeliana ha perso l’ideologia alla base della sua proposta per risolvere il conflitto con gli arabi, che aveva predicato per anni. Una merce che non ha più acquirenti ora.

In una dichiarazione davanti alla Knesset il 23 novembre, Netanyahu si è vantato dicendo che era stata confermata la sua valutazione secondo cui, invece che dalla democrazia liberale, gli Stati arabi sarebbero stati sommersi da un’ “ondata islamista”. Avevo ragione – ha dichiarato compiacendosi – quando ho chiesto di essere cauti nei colloqui con i palestinesi e di non affrettarsi a fare concessioni.

Né egli si è limitato ai semplici commenti. Incoraggiato dall’indebolimento del suo rivale Barack Obama, Netanyahu ha accelerato l’attività edilizia negli insediamenti e intensificato gli espropri intorno a Gerusalemme.

Un altro piccolo sforzo, altri due o tre anni al potere, e il sogno della destra si realizzerà: ebrei in numero sufficiente saranno insediati lungo il crinale della Cisgiordania per tagliare la strada una volta per tutte all’idea di due Stati per due popoli.

Partendo dalla Cisgiordania, negli ultimi mesi Netanyahu ha spostato la sua attenzione all’interno di Israele, lanciando una campagna per sopprimere i propri rivali nei settori della politica, della magistratura e dell’informazione. Egli ha liberato Gilad Shalit raggiungendo un accordo con Hamas, cosa che gli ha fatto recuperare il sostegno del centro, e si è posizionato come un leader popolare senza veri concorrenti. Incoraggiato dalla sua ascesa nei sondaggi, il premier ha compiuto passi volti ad anticipare le prossime elezioni generali, in modo da ottenere un altro mandato prima che la recessione si aggravi e che i suoi rivali abbiano la possibilità di riorganizzarsi, e in modo da prevenire possibili ingerenze americane in occasione delle elezioni israeliane qualora Obama dovesse sorprendere le aspettative vincendo un secondo mandato.

Le paure scatenate dalla primavera araba hanno portato Netanyahu più vicino che mai all’obiettivo di perpetuare il suo dominio e di schiacciare le “vecchie élite” di Israele. Negli Stati arabi, i fiori della primavera sono appassiti rapidamente. Invece nell’ufficio del primo ministro a Gerusalemme, e nelle sale riunioni delle fazioni della destra nella Knesset, i suoi alleati stanno fiorendo in vivaci espressioni di auto-compiacimento, nell’attesa di una schiacciante vittoria ideologica e politica sulla sinistra.

Aluf Benn è un giornalista israeliano; è corrispondente diplomatico del quotidiano israeliano ‘Haaretz’; segue la politica estera israeliana ed il processo di pace israelo-palestinese dal 1993

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27 ottobre 2010

Guerra eterna.

Abbiamo visto come l’irrompere della questione della “ebraicità” di Israele da un lato serva a procrastinare sine die il processo di pace – data la irricevibilità da parte dell’Anp di un simile riconoscimento – ma, dall’altro, rifletta l’intima convinzione propria di gran parte degli Ebrei israeliani di godere di un vero e proprio “diritto divino” sull’intero territorio della Palestina storica.

Nell’articolo che segue (proposto nella traduzione di Medarabnews), Zeev Sternhell – dalle colonne di Ha’aretz – ci invita a inquadrare la questione sotto un aspetto più ampio, la necessità dello stato ebraico, ai fini della sua stessa esistenza, di una condizione di guerra perenne, all’esterno ma anche al suo interno.

All’esterno, perché i negoziati, e la necessità di una spartizione della terra con i Palestinesi per poter arrivare ad un accordo di pace, implicano il riconoscimento di eguali diritti in capo al popolo palestinese (ed anche per poter lucrare la solidarietà dell’Occidente nei confronti di uno stato “assediato” e “aggredito”).

All’interno, perché – come è stato autorevolmente affermato persino in Israele – uno stato può essere “ebraico” o “democratico”, ma non le due cose insieme.

Occorre ammettere la verità: i leader dei partiti di destra hanno una visione strategica e la capacità di guardare a lungo termine, e sanno anche come scegliere gli strumenti adatti per portare avanti la propria missione.

La proposta di emendamento alla legge sulla cittadinanza, il cui scopo è fomentare uno stato di ostilità costante tra gli ebrei e tutti gli altri, è solo un aspetto del più vasto piano di cui il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman è portavoce ufficiale. L’altro aspetto è la promessa fatta dal Ministro degli Esteri alle nazioni del mondo che la nostra guerra con i Palestinesi è una guerra eterna. Israele ha bisogno sia di un nemico interno che di un nemico esterno, di un constante senso dell’emergenza, perché la pace – non importa che sia con i Palestinesi nei Territori o in Israele – probabilmente lo indebolirebbe fino al punto di mettere in pericolo la sua esistenza.

E in effetti la destra, la quale include la maggior parte dei leader del Likud, è pienamente consapevole che la società israeliana vive sotto la minaccia di un crollo dall’interno. Infatti il virus democratico ed egualitario sta consumando la nazione dall’interno. Questo virus si basa sul principio universale dei diritti umani, e genera un denominatore comune fra tutti gli esseri umani semplicemente perché sono tali. E cosa hanno in comune di più gli esseri umani se non il diritto di essere padroni del proprio destino e uguali fra di loro?

Secondo la destra, il problema è proprio questo: i negoziati sulla divisione della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono gli uguali diritti dei Palestinesi, e perciò compromettono lo status unico degli Ebrei nella Terra di Israele. Di conseguenza, per preparare i cuori e le menti al controllo esclusivo degli ebrei sulla popolazione di tutto il territorio, è necessario attenersi al principio secondo cui ciò che conta veramente nella vita degli esseri umani non è ciò che li unisce, ma ciò che li divide. E cosa divide le persone più della storia e della religione?

Al di là di ciò, vi è una chiara gerarchia di valori. Siamo prima di tutto Ebrei, e solo se riceviamo assicurazioni che non vi sarà alcun conflitto tra la nostra identità tribale-religiosa e i bisogni del dominio ebraico, da una parte, e i valori della democrazia, dall’altra, Israele può anche essere democratico. Ma ad ogni modo, la sua natura ebraica riceverà sempre chiara preferenza. Questo fatto comporta una lotta senza fine, perché gli Arabi si rifiuteranno di accettare la sentenza di inferiorità che lo Stato di Lieberman e del Ministro della Giustizia Yaakov Neeman hanno preparato per loro.

È per questo motivo che questi due ministri, con il tacito sostegno del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, hanno rifiutato la proposta che il giuramento di fedeltà fosse “nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza”. Secondo loro, la Dichiarazione di Indipendenza, la quale promette uguaglianza per tutti a prescindere dalla religione e dall’appartenenza etnica, è un documento distruttivo il cui scopo reale all’epoca era di placare i non-Ebrei e guadagnarsi il loro appoggio nella Guerra di Indipendenza. Oggi, in un Israele armato fino ai denti, solo dei nemici del popolo potrebbero desiderare che venisse conferito valore giuridico ad una dichiarazione che in ogni caso quasi nessuno aveva mai preso sul serio.

È qui che la dimensione religiosa naturalmente acquisisce rilevanza. Come per i conservatori rivoluzionari dei primi anni del XX secolo e i nazionalisti neoconservatori dei nostri giorni, la religione gioca un ruolo decisivo nel consolidamento della solidarietà nazionale e nel preservare la forza della società.

La religione viene percepita, naturalmente, come sistema di controllo sociale senza contenuto metafisico. Di conseguenza, le persone che odiano la religione e il suo contenuto morale possono benissimo stare accanto a personaggi come Neeman, il quale spera che un giorno potrà imporre la legge rabbinica in Israele. Dalla loro prospettiva, il ruolo della religione è quello di consacrare l’unicità ebraica e di spingere i principi universali oltre i limiti dell’esistenza nazionale.

In questo modo, la discriminazione e la disuguaglianza etnica e religiosa sono diventate la norma in questo paese, e il processo di delegittimizzazione di Israele ha raggiunto un nuovo livello. E tutto ciò è conseguenza dell’operato di mani ebree.

Zeev Sternhell è uno storico israeliano di origine polacca; scrive abitualmente sul quotidiano Haaretz

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