26 aprile 2010

Gli Israeliani usano anche i morti per rinviare la demolizione delle case dei coloni.

La cd. Area C dei territori palestinesi occupati, in base agli Accordi di Oslo II del 1995, è quella sulla quale gli Israeliani mantengono tutt’ora il pieno controllo. Si tratta dell’area maggiormente estesa della West Bank (circa il 61% del totale), nella quale i Palestinesi devono convivere con i più importanti e popolosi insediamenti colonici illegali e, soprattutto, con le implacabili pratiche di pulizia etnica messe in atto da Israele.

Tali pratiche si attuano essenzialmente in due modi.

Da una parte gli Israeliani rendono estremamente difficoltoso l’accesso ai pascoli e il movimento di persone e merci, e impediscono ogni sviluppo alle essenziali infrastrutture idriche. Si spiegano in questo modo i risultati di una ricerca condotta nell’ottobre del 2009 dall’UNRWA, dal WFP e dall’Unicef tra le comunità di pastori e di beduini che vivono nell’Area C: il 79% dei nuclei familiari risulta affetto da insicurezza alimentare, il 5,9% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta, il 15,3% risulta sottopeso e il 28,5% soffre di arresto della crescita, dati davvero impressionanti e che non necessitano di alcun commento (cfr. OCHA – The Humanitarian Monitor, marzo 2010).

Dall’altra parte, è praticamente impossibile per i Palestinesi residenti in quest’area ottenere un permesso edilizio, foss’anche per il semplice ampliamento dell’abitazione necessitata dall’aumento del nucleo familiare.

E poiché i Palestinesi fanno figli come tutti e i nuclei familiari si accrescono, conseguenza di ciò è il fatto – testimoniato dall’OCHA – che le autorità israeliane, soltanto nei primi tre mesi del 2010, hanno demolito 57 strutture di proprietà di Palestinesi residenti nell’Area C, incluse 24 costruzioni di tipo residenziale, causando l’evacuazione di 118 Palestinesi. Solo nel mese di marzo, inoltre, gli Israeliani hanno notificato gli ordini di demolizione relativi ad ulteriori 20 strutture, di cui 14 di tipo residenziale, mettendo a rischio di evacuazione altri 121 Palestinesi residenti nei governatorati di Betlemme, Gerico ed Hebron.

E mentre le autorità israeliane sono così solerti nel demolire le case costruite senza permesso dai Palestinesi, sulla terra di loro proprietà, non altrettanto accade per le costruzioni illegali edificate dai coloni israeliani, presenti in gran numero nell’area. E non stiamo parlando della generalità delle costruzioni coloniche – tutte illegali secondo il diritto internazionale in quanto costruite su territori occupati manu militari – ma di quelle belle casette costruite su terreni di proprietà privata di Palestinesi e, dunque, illegali secondo la stessa legge israeliana.

E, per evitare la demolizione di questi edifici, gli Israeliani non lasciano nulla di intentato, arrivando persino a strumentalizzare i morti per raggiungere questo scopo. E’ questo il tema dell’amara riflessione del giornalista israeliano Gideon Levy per Ha’aretz.

Chi ha detto che Ehud Barak è insensibile? Chi ha accusato falsamente Gabi Ashkenazi di essere un tipo di poche parole? E chi li sospetta di non essere in grado di lavorare insieme? Il ministro della difesa e il capo di stato maggiore hanno assunto una posizione comune alla fine della scorsa settimana per impedire la demolizione di alcune abitazioni illegali nell’avamposto illegale di Givat Hayovel. Alcune di queste case sono state costruite su terreni privati palestinesi, in altre parole, su terra sottratta illegalmente, e altre sono state costruite su “terreni statali” o su “terreni sotto indagine” (survey land è un termine che sta ad indicare il terreno la cui proprietà deve ancora essere accertata e su cui ogni costruzione è proibita, n.d.r.), altri termini ingannevoli che spuntano dalla scorta infinita di trucchi israeliani.

L’esercito israeliano ha persino tirato fuori dal magazzino una scusa particolarmente ridicola che non sentivamo da tempo: queste case sono “importanti per la sicurezza” in quanto sono “punti di controllo” dove è “importante” la presenza dell’Idf. Come se l’Idf non possa presidiare un luogo senza tali abitazioni.

Barak e Ashkenazi si sono uniti in questo compito perché in due di queste case vivono delle famiglie in lutto: la famiglia del Maggiore Ro’i Klein, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, e la famiglia del Maggiore Eliraz Peretz, ucciso tre settimane fa lungo il confine con Gaza. Non è chiaro se questo fronte unito ai vertici aveva lo scopo di impedire solo la demolizione delle abitazioni di queste due famiglie o quella di tutte e 18 le case ordinata dall’Alta Corte di Giustizia. Entrambe le possibilità sollevano seri interrogativi. Il sangue di coloro che muoiono in combattimento lava via le loro colpe? Come possiamo fare discriminazioni tra un colono illegale ed un altro? Perché mai a quel Palestinese il cui terreno è stato occupato dovrebbe interessare se uno di quei coloni viene ucciso in azione? Ed ecco il fatto diabolico: di tutti i giorni, proprio nel giorno in cui Barak e Ashkenazi hanno reso nota una commovente lettera indirizzata al Presidente dell’Alta Corte Dorit Beinisch chiedendo “riguardo e sensibilità”, l’Idf demoliva altre case. I bulldozer dell’Amministrazione Civile hanno distrutto un edificio di due piani e due negozi a Kafr Hares, demolendo anche una casa ed una fabbrica a Beit Sahur e un’altra casa ad Al-Khader. Sedici persone sono adesso senzatetto, tra cui ragazzini e un bambino di un anno. La gente dell’Amministrazione Civile si è presa la briga di sottolineare che questo è stato solo l’inizio delle operazioni di demolizione. Non è venuto in mente a nessuno nell’Idf di verificare se magari la famiglia Sultan ad Hares o la famiglia Musa ad Al-Khader erano in grado di addurre circostanze attenuanti tali da giustificare “riguardo e sensibilità”. Potevano anch’essi aver perso un figlio? E, in tal caso, qualcuno avrebbe pensato di fermare la demolizione per questo motivo? Non fate ridere l’Idf, l’Amministrazione Civile, Barak, Ashkenazi e tutti quanti noi. Quelli sono Palestinesi, mica esseri umani.

La demolizione delle case a Givat Hayovel era stata decisa nel 2001, quando tutti in queste famiglie erano ancora vivi. Costoro hanno costruito le loro case irresponsabilmente, senza permessi, e sapevano che stavano rubando la terra. Vi sono molti altri coloni come loro.

Questo è il peccato originale a cui è seguito il peccato del deliberato ritardo delle autorità, che in questo caso è durato per circa nove anni come periodo per dare attuazione alla sentenza sulla petizione di Peace Now. Il Segretario generale di Peace Now Yariv Oppenheimer adesso dice che sta cedendo sulla demolizione delle case dei Klein e dei Peretz. Lo si può capire. E’ difficile distruggere una casa i cui residenti hanno appena concluso la loro settimana di lutto.

In effetti, non è umano. Ma, come al solito, ci occupiamo delle questioni marginali piuttosto che di quelle importanti. Mentre l’evacuazione degli avamposti non ha mai avuto un termine operativo, mentre il rapporto Sasson è diventato un manufatto archeologico senza nessun valore, perché di tutti i luoghi ci stiamo occupando proprio di Givat Hayovel? Ci mancano altri avamposti da evacuare, senza famiglie in lutto? Inoltre, l’intera faccenda degli avamposti “illegali” – come se anche un solo insediamento fosse legale – non è mai stata il nocciolo del problema. E’ molto comodo per tutti trasformare la vicenda di Givat Hayovel in un’altra foglia di fico ipocrita e fuorviante.

I coloni stanno sbandierando in giro il problema di queste case per il proprio bisogno di spillare ancor più la simpatia del pubblico e di aumentare l’opposizione a tutte le evacuazioni. Barak e Ashkenazi stanno sbandierando in giro il problema di queste case per mostrare quanto vorrebbero far rispettare la legge nei territori, solo che non ci riescono. Persino il sistema giudiziario di tanto in tanto cerca di dimostrare che è prudente nell’applicare la legge e non fare discriminazioni quando si tratta di coloni. Tutto ciò non è niente di meno che ridicolo.

Queste due case dovrebbero essere lasciate stare – persino l’intero avamposto. Finché resta l’insediamento principale, Eli, che differenza fa se resta questa sua appendice?

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10 novembre 2009

Coloni israeliani chiedono la demolizione di una scuola palestinese. Perchè costruita senza permesso...


Continuano senza sosta le demolizioni di strutture abitative palestinesi “illegali” da parte delle autorità israeliane. Il 2 novembre scorso, la municipalità di Gerusalemme ha demolito tre case nei quartieri di Beit Hanina e di Ath Thuri, a Gerusalemme est, causando lo sfollamento di 42 persone, tra cui 23 bambini. L’ulteriore demolizione di un residence a Sur Bahir ha lasciato senza un tetto i sei Palestinesi che lo avevano in affitto, tra i quali due bambini.

Secondo dati forniti dall’Office for The Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA – cfr. The Humanitarian Monitor, settembre 2009), dall’inizio dell’anno e fino al 30 settembre del 2009 gli Israeliani hanno demolito ben 223 strutture di proprietà palestinese, incluse 92 strutture residenziali, tra Gerusalemme est e la cd. Area C, provocando lo sfollamento di ben 515 persone, tra le quali 262 bambini.

Nell’area C – la zona a totale controllo ed amministrazione israeliani che ricomprende gli insediamenti colonici – migliaia di abitazioni palestinesi sono state costruite senza permesso e, dato che nei loro riguardi sono già stati emessi gli ordini di demolizione, sono a rischio di essere buttate giù in ogni momento. La ragione è semplice, e consiste nella circostanza che la Israeli Civil Administration (ICA) porta avanti da anni una politica di pianificazione che rende virtualmente impossibile ai Palestinesi ottenere un permesso di costruzione, costringendo molti di loro a edificare costruzioni “illegali” per far fronte alle proprie esigenze abitative.

In questi giorni, in particolare, sono a rischio di demolizione ben 257 strutture appartenenti ad una comunità di Beduini dislocata nei pressi della colonia (illegale) di Kfar Adumim, la cui rimozione è stata chiesta all’Alta Corte di giustizia israeliana da parte di una organizzazione di coloni denominata “Regavim”.

Tra queste strutture, vi è la scuola di cui parla l’articolo che segue, pubblicato l’8 novembre scorso dal quotidiano Il Manifesto”, a firma di Michele Giorgio. Una scuola indispensabile alla comunità beduina, dato che i bambini, prima, erano costretti ad andare a scuola più lontano, seguendo la superstrada che collega Gerusalemme con il Mar Morto, con la conseguenza che 3 bambini erano morti, travolti dalle macchine, e 5 erano rimasti invalidi.

Ecco come vanno finire gli sforzi umanitari a favore dei Palestinesi da parte di tanti enti e ong, in questo caso italiani. Ecco la giustizia e il diritto assicurati in un territorio in cui, caso unico al mondo, un gruppo di residenti illegali all’interno di un territorio occupato può chiedere e ottenere la distruzione delle case e delle scuole della popolazione nativa, senza che nessuno abbia niente da ridire.

E questo accade solo quando di mezzo c'è quello Stato-canaglia e razzista che ha per nome Israele.

La bio-scuola italiana per i beduini minacciata dai coloni

Una scuola per 60 bambini delle famiglie beduine dei Jahalin, tra Gerusalemme e Gerico, senza fondamenta ma ugualmente stabile e resistente, fatta di 2.200 pneumatici, fango, travi di legno, lamiere e isolante. È costata appena 35mila euro ed è stata realizzata della onlus Vento di Terra con l'aiuto economico di tre comuni lombardi, delle suore comboniane e della Cei.

Ad inaugurarla c'erano giovedì scorso il console generale d'Italia Luciano Pezzotti, i sindaci di Corsico, Cesano Boscone e Rozzano, le autorità palestinesi, i responsabili di Vento di Terra e i rappresentanti delle famiglie Jahalin. Presente anche l'ingegnere 29enne Diego Torriani che, assieme a quattro colleghi, ha progettato i tre fabbricati speciali che accolgono decine di bambini prima costretti ad andare a scuola a Gerico.

Eppure questa iniziativa, senza precedenti nei Territori occupati, che si fonda su costi bassi e il riciclaggio di materiali, è destinata a interrompersi presto. I coloni israeliani del vicino insediamento di Kfar Adumim, illegale per le leggi internazionali, hanno presentato all'Alta Corte di Giustizia una richiesta di demolizione della scuola (e di tutte le casette di lamiera dei beduini) perché costruita «senza permesso». Ma i pericoli non si fermano qui.

«Le prospettive sono nere - spiega l'avvocato israeliano Shlomo Lecker, che assiste legalmente i Jahalin - accanto alla denuncia dei coloni c'è anche una richiesta di demolizione immediata fatta dalla società pubblica per lo sviluppo della rete stradale che, proprio nell'area della scuola, intende allargare la superstrada tra Gerico e Gerusalemme».

I bambini di Jahalin e i loro genitori, che a metà settimana festeggiavano assieme agli ospiti internazionali, rischiano perciò di rimanere senza la loro scuola se, lunedì prossimo, i giudici dell'Alta Corte daranno ragione ai coloni residenti nell'illegale Kfar Adumim. Per i Jahalin sarebbe un nuovo duro colpo. Questa comunità beduina, già costretta nel 1948 a lasciare il Neghev, da anni subisce evacuazioni forzate e demolizioni.

«Questa scuola rappresenta l'attaccamento allo nostra terra e la volontà di continuare a viverci» ha spiegato un rappresentante dei Jahalin durante la cerimonia di inaugurazione. E in questi giorni tremano anche i beduini di Kissan, a qualche km da Betlemme, dove l'esercito israeliano minaccia di demolire l'ambulatorio medico, l'unico a disposizione di centinaia di persone, aperto di recente dalla Ong italiana Disvi in collaborazione con il ministero della sanità palestinese. Anche in questo caso si parla di «costruzione illegale».

La «scuola di gomma» dei Jahalin, secondo l'avvocato Lecker, potrebbe essere abbattuta dalle ruspe nel giro di qualche settimana. Con essa verrà distrutto anche un progetto che ha destato molto interesse. Il pneumatico, lo confermano studi internazionali, è un materiale resistente nelle costruzioni. Le gomme riempite di terra e pietre, posizionate a file sfalsate, assicurano una elevata elasticità. L'intonacatura esterna inoltre garantisce la protezione dei pneumatici ai raggi solari, evitandone il deterioramento o il rilascio di sostanze nocive. L'utilizzo dei materiali riciclati nei fabbricati ha avuto successo in varie parti del mondo e potrebbe rivelarsi un vero e proprio investimento per i palestinesi privi di risorse. E il presidente di Vento di Terra, Massimo Rossi, già pensa a Gaza. «Questo tipo di edifici - ci spiega - potrebbero essere una valida alternativa alle costruzioni ordinarie, visto che Israele non lascia entrare il cemento in quel territorio».

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