11 novembre 2011

Deputato israeliano: per ogni Qassam che cade su Israele cancelliamo un quartiere di Gaza!


Gli Israeliani - lo hanno imparato sulla loro pelle i Palestinesi di Gaza - sono dei veri specialisti in rappresaglie e ritorsioni.

Si, perché naturalmente – secondo la propaganda ebraica – nella Striscia di Gaza ci sono i “terroristi”, in Israele c’è invece solo gente laboriosa e pacifica, costretta purtroppo, quasi suo malgrado, a “difendersi” e a organizzare saltuari raid di “risposta”. Persino Obama, in uno dei suoi tanti, retorici discorsi, ebbe a dire nel 2008 di comprendere gli Israeliani, perché “se qualcuno sparasse dei razzi contro la mia casa, dove dormono le mie due figlie, farei qualsiasi cosa in mio potere per fermarli, e mi aspetterei che gli Israeliani facessero altrettanto”.

Quando però si scende nel dettaglio e si vanno a vedere i numeri, si scopre – oh meraviglia – che la “pioggia” di razzi Qassam nel sud di Israele, a partire dalla fine dell’operazione “Piombo Fuso” (19.1.2009) e fino al 30 settembre di quest’anno, ha causato ben … 1 (UNA) vittima su un totale di 4 civili uccisi dai Palestinesi in territorio israeliano nel periodo considerato (fonte: B’Tselem).

Di contro, nello stesso periodo, i Palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 192 (CENTONOVANTADUE), di cui 24 minori di 18 anni: le “rappresaglie” israeliane, dunque, si rivelano nella realtà un vero e proprio massacro, ingiustificato e ingiustificabile.

Ma poiché nella vita non si è mai contenti, arriva adesso la proposta scioccante di un deputato israeliano del Likud, Danny Danon, il quale – sulla sua pagina Facebook – ha candidamente proposto di alzare l’asticella: “per ogni missile che cade sulle nostre città del sud, noi (dobbiamo) per rappresaglia cancellare un quartiere di Gaza”.

Cioè, davvero uno fa fatica a credere ai propri occhi, radere al suolo un quartiere del luogo con la più alta densità abitativa al mondo, peraltro neanche per ogni Israeliano ucciso, ma “per ogni razzo che cade” sulle città israeliane, roba che neanche il delirio nazista aveva saputo ipotizzare!

Una voce isolata quella del deputato del Likud? Non proprio, considerando che l’ultimo sondaggio svolto in materia dall’Israel Democracy Institute mostra che due terzi dell’opinione pubblica ebraica in Israele si mostra favorevole ad una “dura risposta” ai recenti attacchi “terroristici” provenienti dalla Striscia di Gaza.

Chissà che cosa ne penserebbe Obama, se le sue due figlie dormissero in un quartiere di Gaza…

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28 gennaio 2009

Quei terroristi di Tijuana.


Uno dei leit-motiv della propaganda sionista per giustificare gli atroci crimini commessi da Israele nella Striscia di Gaza – ossessivamente ripetuto sui media, sui blog e in ogni luogo di pubblica discussione – suona più o meno così: “Nessuno Stato potrebbe accettare che i propri cittadini vengano messi in pericolo e uccisi dal lancio di missili contro il proprio territorio. Cosa avreste fatto voi, al posto di Israele?”.

Lasciamo da parte qui ogni discussione sulla pericolosità di armi temibili come i Qassam, razzi artigianali a base di fertilizzante che, dal 2000 a oggi, hanno fatto all’incirca una decina di vittime.

Quello che qui interessa evidenziare è il carattere ingannevole e mistificante del paragone utilizzato da Israele e dai suoi sostenitori (sempre meno…) all over the world.

E’ questo l’argomento dell’articolo che segue, pubblicato il 14 gennaio dal professor Randall Kuhn sul The Washington Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Se mi posso permettere, un bellissimo articolo. Che dovremmo utilmente inviare a ciascuno dei nostri rappresentanti in Parlamento e al caro ministro Frattini.

QUANDO ISRAELE ESPULSE I PALESTINESI
14.1.2009

A seguito dell’invasione israeliana di Gaza, il ministro della difesa Ehud Barak fece questa analogia: “Pensate a ciò che accadrebbe se per sette anni fossero stati lanciati razzi da Tijuana, in Messico, contro San Diego, in California”.

In poche ore, decine di esperti e politici americani avevano ripetuto il paragone di Barak quasi alla lettera. Su questo stesso giornale, il 9 gennaio, Steny Hoyer, leader della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ed Eric Cantor, capogruppo della minoranza, avevano concluso un articolo di opinione affermando che “l’America non rimarrebbe certamente oziosa, se dei terroristi lanciassero missili oltre il nostro confine in direzione del Texas o del Montana”. Ma vediamo se la nostra classe politica ed i nostri esperti riusciranno a ripetere a pappagallo anche la seguente analogia.

Pensate a cosa accadrebbe se San Diego espellesse gran parte della sua popolazione ispanica, afroamericana, asiatico-americana, e nativa americana, circa il 48% del totale, e la trasferisse con la forza a Tijuana. Non solo gli immigrati, ma anche coloro che vivono in questo paese da molte generazioni. Non solo i disoccupati, i criminali, o coloro che odiano l’America, ma anche professori di scuola, proprietari di piccole imprese, soldati, e perfino i giocatori di baseball.

E cosa accadrebbe se creassimo degli enti governativi basati sulla fede religiosa per contribuire a trasferire dei bianchi nelle case di coloro che abbiamo cacciato? E se radessimo al suolo centinaia delle loro case nelle aree rurali e, con l’aiuto di donazioni caritatevoli provenienti da persone negli Stati Uniti e all’estero, piantassimo foreste là dove in precedenza sorgevano i loro villaggi, creando riserve naturali per il piacere dei bianchi? Sembra abbastanza orribile, non è vero? Potrei essere definito antisemita per il fatto di dire queste verità. Ebbene, io sono ebreo, e lo scenario appena descritto è ciò che molti importanti studiosi israeliani dicono che è realmente accaduto quando Israele espulse i palestinesi dal sud del futuro stato ebraico, spingendoli a forza dentro Gaza. Ma questa analogia è appena all’inizio.

Cosa accadrebbe se le Nazioni Unite tenessero le minoranze scacciate da San Diego in affollati e malsani campi profughi per 19 anni? E se poi gli Stati Uniti invadessero il Messico, occupassero Tijuana e cominciassero a costruire vasti complessi edilizi a Tijuana, nei quali potrebbero vivere solo i bianchi?

E cosa accadrebbe se gli Stati Uniti costruissero una rete di superstrade per collegare i cittadini americani di Tijuana agli Stati Uniti? E se costruissero dei posti di blocco, non solo fra il Messico e gli Stati Uniti, ma anche attorno ad ogni quartiere di Tijuana? Cosa accadrebbe se chiedessimo ad ogni residente di Tijuana, profugo o nativo, di mostrare una carta di identità ai militari americani a discrezione di questi ultimi? Cosa accadrebbe se migliaia di residenti di Tijuana perdessero le loro case, il loro posto di lavoro, i loro affari, i loro figli, la loro dignità a causa di questa occupazione? Sareste sorpresi di venire a sapere dell’esistenza di un movimento di protesta a Tijuana, che a volte diventa violento e carico d’odio? Okay, ora andiamo alla parte incredibile.

Pensate a cosa accadrebbe se, dopo aver espulso tutte le minoranze da San Diego a Tijuana, e dopo averle assoggettate a 40 anni di brutale occupazione militare, semplicemente lasciassimo Tijuana, rimuovendo tutti i coloni bianchi e tutti i soldati; ma, invece di dar loro la libertà, costruissimo un muro elettrificato alto sei metri intorno a Tijuana. Non soltanto sui lati che confinano con San Diego, ma anche attorno a tutti i valichi con il Messico. Cosa accadrebbe se costruissimo delle torri di guardia alte 15 metri, dotate di mitragliatrici, e dicessimo loro che spareremo loro a vista se dovessero avvicinarsi a meno di 100 metri da questo muro? E se quattro giorni su cinque tenessimo chiuso ciascuno di questi valichi di confine, impedendo che arrivino perfino il cibo, i vestiti e le medicine? E se pattugliassimo il loro spazio aereo con i nostri modernissimi caccia, e non permettessimo loro neanche di avere un aereo per spruzzare dall’alto i pesticidi? E se controllassimo le loro acque territoriali con sottomarini e cacciatorpediniere, e non permettessimo loro neanche di pescare?

Sareste del tutto sorpresi di venire a sapere che questi gruppi di resistenza a Tijuana, anche dopo essere stati “liberati” dalla loro occupazione, ma lasciati mezzo morti di fame, continuano a lanciare razzi contro gli Stati Uniti? Probabilmente no. Ma potreste rimanere sorpresi venendo a sapere che la maggioranza della popolazione a Tijuana non ha mai preso in mano un razzo, o un’arma di nessun tipo.

La maggioranza ha invece appoggiato, contro ogni speranza, dei negoziati per una soluzione pacifica che garantirebbe sicurezza, libertà, ed uguali diritti ad entrambi i popoli, in due stati indipendenti che vivrebbero fianco a fianco come vicini. Questa è un’analogia accurata dell’aggressione militare israeliana a Gaza di questi giorni. Forse, molto presto, il buon senso prevarrà, e nessun “corpus” di analogie fuorvianti su Tijuana, o su qualcos’altro, sarà in grado di oscurare la verità. Se quel momento arriverà, può darsi che, in un paese la cui popolazione ha gridato “We Shall Overcome” (canzone simbolo del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti (N.d.T.) ), “Ich bin ein Berliner”, “fermiamo l’apartheid”, “Tibet libero”, “salviamo il Darfur”, ci uniremo e grideremo “Gaza libera. Palestina libera”. E siccome siamo americani, il mondo prenderà nota ed i palestinesi saranno liberi, e forse la pace prevarrà per tutti i residenti della Terra Santa.

Randall Kuhn è direttore del Global Health Affairs Program presso la Josef Korbel School of International Studies dell’Università di Denver; ha scritto questo articolo il 14/01/2009, di ritorno da un viaggio in Israele ed in Cisgiordania

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25 novembre 2008

Invadere Gaza? No, costa troppo!

Periodicamente, soprattutto in periodi come questo in cui Israele è sottoposto al tiro costante di mortai e razzi Qassam provenienti dalla Striscia di Gaza (più di 100 razzi e granate di mortaio nel periodo 5-16 novembre, secondo l’OCHA), si accendono le polemiche sull’opportunità di un intervento in forze dell’esercito israeliano all’interno della Striscia di Gaza, e talora si invoca la rioccupazione della Striscia al fine di risolvere il problema alla radice.

La scorsa settimana centinaia di persone hanno organizzato una manifestazione allo svincolo principale d’ingresso per la città di Ashkelon, per protestare contro l’inerzia del governo israeliano e la mancanza di rifugi fortificati per difendere l’incolumità dei residenti.

Secondo il vicesindaco di Ashkelon, Avi Vaknin, l’Idf “ha lasciato per mesi che Hamas si riarmasse e diventasse più forte, e adesso questi dirigono la loro rabbia contro di noi e non c’è nessuna risposta”.

In realtà, non solo la risposta c’è stata, ma il vicesindaco sorvola sul fatto che a rompere la tregua è stato proprio Israele, con l’incursione avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 novembre in cui, nel corso di diversi raid, l’esercito israeliano ha ucciso 7 militanti palestinesi.

Come ha osservato venerdì scorso il ministro della difesa israeliano Barak, “le recenti ondate di lanci di razzi sono il risultato delle nostre azioni, che hanno portato all’uccisione di 20 membri di Hamas; noi continueremo ad usare la forza, ma se l’altra parte lavora per mantenere la tregua, noi saremo pronti a fare altrettanto”.

Dunque, nonostante tutto, attualmente non vi è sul tavolo alcuna opzione relativa ad un’estesa operazione militare di terra a Gaza, preferendo il governo israeliano ricorrere a sporadici raid e, soprattutto, alla abominevole punizione collettiva consistente nella totale chiusura degli accessi alla Striscia, arrivata oggi al 21° giorno, che sta riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di Palestinesi.

La contrarietà all’opzione di un rientro in forze dell’esercito israeliano a Gaza, solitamente, viene motivata con l’alto numero di perdite che un’operazione militare di tal genere provocherebbe sia tra le fila dell’esercito israeliano sia tra la popolazione civile palestinese.

E tuttavia, come si è potuto osservare in occasione della guerra in Libano che ha contrapposto l’Idf alle milizie di Hezbollah, il governo israeliano non si è poi preoccupato così tanto né delle vite dei soldati di Tsahal né, tanto meno, di quelle dei civili libanesi, come è provato soprattutto dall’uso criminale e indiscriminato delle cluster bomb da parte dell’esercito israeliano.

Ma adesso conosciamo il vero motivo per cui Israele non intende rioccupare la Striscia di Gaza, e ce lo svela Ha’aretz: secondo l’esercito israeliano, la rioccupazione di parte della Striscia di Gaza costerebbe ad Israele 17 milioni di shekel al giorno (poco più di 3,3 milioni di euro).

Questa somma servirebbe soltanto a coprire i bisogni umanitari più immediati della popolazione palestinese che verrebbe a trovarsi sotto il controllo israeliano e che una forza occupante è tenuta a soddisfare in base al diritto umanitario: latte in polvere per i bambini, pannolini, razioni di cibo per tutti i residenti.

Il costo di questi beni ammonterebbe a circa 500 milioni di shekel al mese, e non includerebbe alcuno dei costi associati al fatto di mantenere nella Striscia un largo spiegamento di truppe, ivi incluse le unità della riserva.

Ecco perché è preferibile limitarsi ad assediare la Striscia di Gaza anziché entrarvi, e pazienza se a pagare sono centinaia di migliaia di civili innocenti, privati per mesi – secondo le parole dell’Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani Navi Pillay – “dei più basilari diritti umani”.

Il che dovrebbe far riflettere, ancora una volta, come gli aiuti umanitari alla popolazione palestinese rappresentino, in realtà, aiuti finanziari ad Israele a sostegno della sua illegale occupazione dei territori palestinesi, in quanto lo assolvono dall’obbligo di provvedere ai bisogni della popolazione civile sotto occupazione, secondo quanto previsto dal diritto umanitario.

Forse sarebbe ora di chiedere il conto agli Israeliani.

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