9 luglio 2014

Israele non vuole la pace

L’atteggiamento di rifiuto è intrinseco alle convinzioni più radicate di Israele. Qui risiede, a livello più profondo, il concetto che questa terra è destinata solo agli ebrei.
di Gideon Levy - 4 luglio 2014

Israele non vuole la pace. Non c’è niente di quello che ho scritto finora di cui sarei più contento di essere smentito. Ma le prove si sono accumulate a dismisura. In effetti, si può dire che Israele non ha mai voluto la pace – una pace giusta, cioè basata su un compromesso equo per entrambe le parti. È vero che l’abituale saluto in ebraico è “Shalom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. E, di primo acchitto, praticamente ogni israeliano direbbe di volere la pace, è ovvio. Ma non farebbe riferimento al tipo di pace che porterebbe anche alla giustizia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere. Gli israeliani vogliono la pace, non la giustizia, certamente non basata su principi universali. Quindi, “Pace, pace, quando pace non c‘è.” Non soltanto non c’è pace: negli anni recenti, Israele si è allontanato persino dall’aspirare a fare la pace. Ha perso totalmente lil desiderio di farla. La pace è scomparsa dalla prospettiva di Israele, e il suo posto è stato preso da un’ansietà collettiva che si è sistematicamente impiantata, e da questioni personali, private che ora hanno la prevalenza su tutto il resto.
Verosimilmente il desiderio di pace di Israele è morto circa dieci anni fa, dopo il fallimento del summit di Camp David nel 2000, la diffusione della menzogna secondo cui non ci sono partner palestinesi per fare la pace, e, ovviamente, l’orribile periodo intriso di sangue della Seconda Intifada. Ma la verità è che, persino prima di tutto questo, Israele non ha mai veramente voluto la pace. Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale. 
Anche il campo pacifista israeliano- se pure è mai esistito qualcosa del genere – è morto anche lui di una lunga agonia tra le sconvolgenti scene della Seconda Intifada e la menzogna della mancanza di una controparte. Tutto ciò che è rimasto è stato un pugno di organizzazioni tanto determinate e impegnate quanto inefficaci nel contrastare le campagne di delegittimazione costruite contro di loro. Perciò Israele è rimasto con il suo atteggiamento di rifiuto.
Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione. Fin dalle sue origini, non c’è mai stato una più attendibile o più evidente prova inconfutabile delle reali intenzioni di Israele che questa particolare iniziativa. In poche parole: chi costruisce gli insediamenti vuole consolidare l’occupazione, e chi vuole consolidare l’occupazione non vuole la pace. Questa in sintesi è la questione.
Ammettendo che le decisioni di Israele siano razionali, è impossibile accettare la costruzione delle colonie e l’aspirazione alla pace come mutualmente coesistenti. Ogni attività di costruzione degli insediamenti dei coloni, ogni roulotte e ogni balcone trasmette rifiuto. Se Israele avesse voluto raggiungere la pace attraverso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloccato la costruzione di colonie di sua spontanea iniziativa. Il fatto che non sia avvenuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipotesi la cronaca di un fallimento annunciato. Se Israele avesse voluto ottenere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washington o a Gerusalemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qualunque tipo di edificazione nei Territori [occupati]. Senza porre condizioni. Senza contropartita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta.
Ma le colonie sono state solo la pietra di paragone delle intenzioni di Israele. Il suo atteggiamento di rifiuto è molto più profondamente radicato nel suo DNA, nelle sue vene, nella sua ragione d’essere, nelle sue originarie convinzioni. Lì, a livello più profondo, risiede il concetto che questa terra è destinata solo agli Ebrei. Lì, a livello più profondo, è fondata la valenza di “am sgula” – “il prezioso popolo” di Dio – e “siamo gli eletti da Dio”. In pratica, ciò viene inteso con il significato che, in questo territorio, gli ebrei possono fare quello che agli altri è vietato. Questo è il punto di partenza, e non c’è modo di passare da questo concetto ad una pace giusta. Non c’è modo di arrivare ad una pace giusta quando il gioco consiste nella de-umanizzazione dei palestinesi. Non c’è modo di arrivare ad una giusta pace quando la demonizzazione dei palestinesi è inculcata quotidianamente nelle menti della gente. Quelli che sono convinti che ogni palestinese è una persona sospetta e che ogni palestinese vuole “gettare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i palestinesi. La maggioranza degli Israeliani è convinta della verità di entrambe queste affermazioni.
Nell’ultimo decennio, i due popoli sono stati separati gli uni dagli altri. Il giovane israeliano medio non incontrerà mai un suo coetaneo palestinese, se non durante il servizio militare (e solo se farà il servizio militare nei Territori [occupati]). Neanche il giovane palestinese medio incontra mai un suo coetaneo israeliano, se non il soldato che brontola e sbuffa ai checkpoint, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incendia i suoi alberi.
Di conseguenza, l’unico incontro tra i due popoli avviene tra gli occupanti, che sono armati e violenti, e gli occupati, che sono disperati e anche loro tendenzialmente violenti. Sono passati i tempi in cui i palestinesi lavoravano in Israele e gli israeliani facevano la spesa in Palestina. E’ passato il tempo delle relazioni quasi normali e quasi paritarie che sono esistite per pochi decenni tra i due popoli che condividono lo stesso territorio. E’ molto facile, in questa situazione, incitare e infiammare i due popoli uno contro l’altro, spargere paure e instillare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche questa è una sicura ricetta contro la pace.
Così è sorto un nuovo desiderio di Israele, quello della separazione: “Loro se ne staranno là e noi qua (e anche là).” Proprio quando la maggioranza dei palestinesi – una constatazione che mi permetto di fare dopo decenni di corrispondenze dai Territori occupati – ancora desidera la coesistenza, anche se sempre meno, la maggioranza degli israeliani vuole il disimpegno e la separazione, ma senza pagarne il prezzo. La visione dei due Stati ha guadagnato una diffusa adesione, ma senza la minima intenzione di metterla in pratica. La maggioranza degli israeliani è favorevole, ma non ora e forse neppure qui. Sono stati abituati a credere che non ci sono partner per la pace – ossia una controparte palestinese – ma che ce n’è una israeliana.
Sfortunatamente, la verità è l’esatto contrario. I non partner palestinesi non hanno più la minima possibilità di dimostrare di essere delle controparti; i non partner israeliani sono convinti di esserlo. Così è iniziato un processo nel quale condizioni, ostacoli e difficoltà [posti] da Israele, sono andati aumentando, un’altra pietra miliare dell’atteggiamento di rifiuto israeliano. Prima viene la richiesta di cessare gli attacchi terroristici; poi quella di un cambiamento dei dirigenti (Yasser Arafat come un ostacolo [alla pace]); e poi lo scoglio diventa Hamas. Ora è il rifiuto da parte dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico. Israele considera ogni suo passo – a partire dagli arresti di massa degli oppositori politici nei Territori [occupati] – come legittimi, mentre ogni mossa palestinese è “unilaterale”.
L’unico paese al mondo che non ha confini [definiti] non è assolutamente intenzionato a definire quale compromesso sui [propri] confini sia pronto ad accettare. Israele non ha interiorizzato il fatto che per i palestinesi i confini del 1967 sono la base di ogni compromesso, la linea rossa della giustizia (o di una giustizia relativa). Per gli israeliani, sono “confini suicidi”. Questa è la ragione per cui la salvaguardia dello status quo è diventato il vero obiettivo di Israele, il principale scopo della sua politica, praticamente fondamentale e unico. Il problema è che l’attuale situazione non può durare per sempre. Storicamente, poche nazioni hanno accettato di vivere per sempre sotto occupazione senza resistere. E pure la comunità internazionale sarà un giorno disposta ad esprimere una ferma condanna di questo stato di cose, accompagnata da misure punitive. Ne consegue che l’obiettivo di Israele è irrealistico.
Slegata dalla realtà, la maggioranza degli israeliani continua nel proprio modo di vita quotidiano. Nella loro visione della situazione, il mondo è sempre contro di loro, e le zone occupate nel giardino di casa sono lontane dal loro campo di interesse. Chiunque osi criticare la politica di occupazione è etichettato come antisemita, ogni atto di resistenza è interpretato come una sfida esiziale. Ogni opposizione internazionale all’occupazione è letto come una “delegittimazione” di Israele e come una minaccia all’esistenza stessa del paese. I sette miliardi di abitanti del pianeta – la maggior parte dei quali sono contrari all’occupazione – sbagliano, e i sei milioni di ebrei israeliani – la maggior parte favorevole all’occupazione – sono nel giusto. Questa è la realtà dal punto di vista dell’israeliano medio.
Si aggiunga a questo la repressione, l’occultamento e l’offuscamento [della realtà], ed ecco un’altra spiegazione dell’atteggiamento di rifiuto: perché ci si dovrebbe impegnare per la pace finché la vita in Israele è buona, la tranquillità prevale e la realtà è nascosta? L’unico modo che la Striscia di Gaza assediata ha per ricordare alla gente della sua esistenza è di sparare razzi, e la Cisgiordania torna a fare notizia nei giorni in cui vi scorre il sangue. Allo stesso modo, il punto di vista della comunità internazionale è preso in considerazione solo quando cerca di imporre il boicottaggio e le sanzioni, che a loro volta generano immediatamente una campagna di autocommiserazione costellata di ottuse – e a volte anche fuori luogo – accuse che fanno riferimento alla storia.
Questa è dunque la cupa immagine [della situazione]. Non ci si trova neanche un raggio di speranza. Il cambiamento non avverrà dall’interno, dalla società israeliana, finché questa società continuerà a comportarsi in questo modo. I palestinesi hanno fatto più di un errore, ma i loro errori sono marginali. Fondamentalmente la giustizia è dalla loro parte, e un fondamentale atteggiamento di rifiuto è appannaggio degli israeliani. Gli israeliani vogliono l’occupazione, non la pace. Spero solo di sbagliarmi.
Israel does not want peace Traduzione di Amedeo Rossi per Nena News

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10 maggio 2010

Anche le istituzioni (a volte) si muovono...

IL COMUNE DI VICENZA - Assessorato alla famiglia e alla pace

nell'ambito delle iniziative assunte con l'adesione al Progetto "Adotta un popolo"e la partecipazione alla Marcia per la Pace Perugia-Assisi del prossimo 16 maggio 2010

in collaborazione con l'Associazione Salaam Ragazzi dell'olivo - Vicenza propone

TESTIMONI DA BIL'IN
il villaggio resistente nella Palestina occupata
una serata con Iyad Burnat e Raz Bar David Veron
martedì 11 maggio alle ore 20.45
nella Sala dei Chiostri di Santa Corona

Una ragazza israeliana di vent'anni dal viso pulito, Raz Bar David Veron, ha già fatto l'esperienza del carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell'esercito.

Iyad Burnat, coordinatore del Bil'in Popular Committee,una delle principali figure della lotta contro il MURO, anch'egli arrestato più volte.

Il loro punto d'incontro è credere nella pace, nell'azione non violenta.Il loro luogo d'incontro è Bil'In, che da cinque anni resiste contro il MURO ed è diventata la bandiera della resistenza non violenta all'occupazione.

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17 marzo 2010

Per la pace preventiva.

CONTRO TUTTE LE GUERRE – PER LA PACE PREVENTIVA
19 marzo 2003 - 19 marzo 2010

NON IN NOSTRO NOME

CHIEDIAMO

Il ritiro immediato di tutte le truppe occupanti dall’Afghanistan e dall’Iraq (inclusi i contractors)

La fine della pulizia etnica israeliana a Gerusalemme Est e nelle altre città della Cisgiordania, dell’assedio di Gaza, della repressione in Kurdistan

Lo stop ai preparativi di guerra contro l’Iran

Nell’anniversario dei bombardamenti sull’Iraq nel 2003 scendiamo in piazza in Italia come negli Stati Uniti per dire basta alla complicità dei nostri paesi con la guerra, le occupazioni e l’oppressione coloniale contro altri popoli.

Venerdi 19 marzo scendiamo in piazza in Italia insieme a chi il 20 marzo manifesterà nelle città degli Stati Uniti (Washington, San Francisco, Los Angeles, Chicago) per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq; insieme a chi in Gran Bretagna sostiene la battaglia di Joe Glenton e degli altri soldati che si rifiutano di continuare a uccidere ed essere uccisi in Afghanistan, insieme ai palestinesi che si stanno opponendo alla pulizia etnica israeliana a Gerusalemme e nelle altre città della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, insieme al popolo curdo che resiste alla repressione turca.


CHIEDIAMO


La riduzione delle astronomiche spese militari – sempre in aumento – in favore di maggiori investimenti sociali e la sostituzione della cultura di guerra al terrorismo (che ha prodotto Guantanamo, prigioni segrete e soppressione di molti diritti civili) con una cultura fondata sulla pace, il diritto e l’equa condivisione delle risorse attraverso veri negoziati

Che il governo italiano ritiri le truppe nel mattatoio afghano, smantelli le armi nucleari stoccate nelle basi militari di Aviano e Ghedi, cessi di sperperare miliardi di euro per armamenti e di fornire ufficialmente armi, investimenti economici, collaborazioni scientifiche al governo israeliano condannato dalle istituzioni internazionali per la costruzione del Muro di segregazione, per i crimini di guerra a Gaza e l’occupazione coloniale dei Territori Palestinesi. Chiediamo la revoca degli accordi militari, commerciali, scientifici, culturali tra le istituzioni italiane e quelle israeliane;

Noi, in quanto cittadini italiani, statunitensi, europei, palestinesi, israeliani, curdi non accettiamo di essere considerati complici di questa politica di oppressione e di guerre preventive, chiediamo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq, la cessazione di ogni complicità con gli apparati di guerra (basi militari, nuovi armamenti, spese militari), la revoca della partecipazione statunitense, italiana ed europea al vergognoso embargo contro la popolazione palestinese di Gaza ormai da quattro anni sotto assedio

Venerdi 19 marzo, ore 17.00 Manifestazione a piazza Montecitorio

Circolo Arci Arcobaleno, Statunitensi per la pace e la giustizia, Rete Disarmiamoli, Rete Sempreocontrolaguerra, Forum Palestina, Un Ponte per…, Campagna Stop Agrexco, Coordinamento Kurdistan… (altre adesioni si stanno raccogliendo)

http://www.forumpalestina.org/

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28 gennaio 2009

Quei terroristi di Tijuana.


Uno dei leit-motiv della propaganda sionista per giustificare gli atroci crimini commessi da Israele nella Striscia di Gaza – ossessivamente ripetuto sui media, sui blog e in ogni luogo di pubblica discussione – suona più o meno così: “Nessuno Stato potrebbe accettare che i propri cittadini vengano messi in pericolo e uccisi dal lancio di missili contro il proprio territorio. Cosa avreste fatto voi, al posto di Israele?”.

Lasciamo da parte qui ogni discussione sulla pericolosità di armi temibili come i Qassam, razzi artigianali a base di fertilizzante che, dal 2000 a oggi, hanno fatto all’incirca una decina di vittime.

Quello che qui interessa evidenziare è il carattere ingannevole e mistificante del paragone utilizzato da Israele e dai suoi sostenitori (sempre meno…) all over the world.

E’ questo l’argomento dell’articolo che segue, pubblicato il 14 gennaio dal professor Randall Kuhn sul The Washington Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Se mi posso permettere, un bellissimo articolo. Che dovremmo utilmente inviare a ciascuno dei nostri rappresentanti in Parlamento e al caro ministro Frattini.

QUANDO ISRAELE ESPULSE I PALESTINESI
14.1.2009

A seguito dell’invasione israeliana di Gaza, il ministro della difesa Ehud Barak fece questa analogia: “Pensate a ciò che accadrebbe se per sette anni fossero stati lanciati razzi da Tijuana, in Messico, contro San Diego, in California”.

In poche ore, decine di esperti e politici americani avevano ripetuto il paragone di Barak quasi alla lettera. Su questo stesso giornale, il 9 gennaio, Steny Hoyer, leader della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ed Eric Cantor, capogruppo della minoranza, avevano concluso un articolo di opinione affermando che “l’America non rimarrebbe certamente oziosa, se dei terroristi lanciassero missili oltre il nostro confine in direzione del Texas o del Montana”. Ma vediamo se la nostra classe politica ed i nostri esperti riusciranno a ripetere a pappagallo anche la seguente analogia.

Pensate a cosa accadrebbe se San Diego espellesse gran parte della sua popolazione ispanica, afroamericana, asiatico-americana, e nativa americana, circa il 48% del totale, e la trasferisse con la forza a Tijuana. Non solo gli immigrati, ma anche coloro che vivono in questo paese da molte generazioni. Non solo i disoccupati, i criminali, o coloro che odiano l’America, ma anche professori di scuola, proprietari di piccole imprese, soldati, e perfino i giocatori di baseball.

E cosa accadrebbe se creassimo degli enti governativi basati sulla fede religiosa per contribuire a trasferire dei bianchi nelle case di coloro che abbiamo cacciato? E se radessimo al suolo centinaia delle loro case nelle aree rurali e, con l’aiuto di donazioni caritatevoli provenienti da persone negli Stati Uniti e all’estero, piantassimo foreste là dove in precedenza sorgevano i loro villaggi, creando riserve naturali per il piacere dei bianchi? Sembra abbastanza orribile, non è vero? Potrei essere definito antisemita per il fatto di dire queste verità. Ebbene, io sono ebreo, e lo scenario appena descritto è ciò che molti importanti studiosi israeliani dicono che è realmente accaduto quando Israele espulse i palestinesi dal sud del futuro stato ebraico, spingendoli a forza dentro Gaza. Ma questa analogia è appena all’inizio.

Cosa accadrebbe se le Nazioni Unite tenessero le minoranze scacciate da San Diego in affollati e malsani campi profughi per 19 anni? E se poi gli Stati Uniti invadessero il Messico, occupassero Tijuana e cominciassero a costruire vasti complessi edilizi a Tijuana, nei quali potrebbero vivere solo i bianchi?

E cosa accadrebbe se gli Stati Uniti costruissero una rete di superstrade per collegare i cittadini americani di Tijuana agli Stati Uniti? E se costruissero dei posti di blocco, non solo fra il Messico e gli Stati Uniti, ma anche attorno ad ogni quartiere di Tijuana? Cosa accadrebbe se chiedessimo ad ogni residente di Tijuana, profugo o nativo, di mostrare una carta di identità ai militari americani a discrezione di questi ultimi? Cosa accadrebbe se migliaia di residenti di Tijuana perdessero le loro case, il loro posto di lavoro, i loro affari, i loro figli, la loro dignità a causa di questa occupazione? Sareste sorpresi di venire a sapere dell’esistenza di un movimento di protesta a Tijuana, che a volte diventa violento e carico d’odio? Okay, ora andiamo alla parte incredibile.

Pensate a cosa accadrebbe se, dopo aver espulso tutte le minoranze da San Diego a Tijuana, e dopo averle assoggettate a 40 anni di brutale occupazione militare, semplicemente lasciassimo Tijuana, rimuovendo tutti i coloni bianchi e tutti i soldati; ma, invece di dar loro la libertà, costruissimo un muro elettrificato alto sei metri intorno a Tijuana. Non soltanto sui lati che confinano con San Diego, ma anche attorno a tutti i valichi con il Messico. Cosa accadrebbe se costruissimo delle torri di guardia alte 15 metri, dotate di mitragliatrici, e dicessimo loro che spareremo loro a vista se dovessero avvicinarsi a meno di 100 metri da questo muro? E se quattro giorni su cinque tenessimo chiuso ciascuno di questi valichi di confine, impedendo che arrivino perfino il cibo, i vestiti e le medicine? E se pattugliassimo il loro spazio aereo con i nostri modernissimi caccia, e non permettessimo loro neanche di avere un aereo per spruzzare dall’alto i pesticidi? E se controllassimo le loro acque territoriali con sottomarini e cacciatorpediniere, e non permettessimo loro neanche di pescare?

Sareste del tutto sorpresi di venire a sapere che questi gruppi di resistenza a Tijuana, anche dopo essere stati “liberati” dalla loro occupazione, ma lasciati mezzo morti di fame, continuano a lanciare razzi contro gli Stati Uniti? Probabilmente no. Ma potreste rimanere sorpresi venendo a sapere che la maggioranza della popolazione a Tijuana non ha mai preso in mano un razzo, o un’arma di nessun tipo.

La maggioranza ha invece appoggiato, contro ogni speranza, dei negoziati per una soluzione pacifica che garantirebbe sicurezza, libertà, ed uguali diritti ad entrambi i popoli, in due stati indipendenti che vivrebbero fianco a fianco come vicini. Questa è un’analogia accurata dell’aggressione militare israeliana a Gaza di questi giorni. Forse, molto presto, il buon senso prevarrà, e nessun “corpus” di analogie fuorvianti su Tijuana, o su qualcos’altro, sarà in grado di oscurare la verità. Se quel momento arriverà, può darsi che, in un paese la cui popolazione ha gridato “We Shall Overcome” (canzone simbolo del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti (N.d.T.) ), “Ich bin ein Berliner”, “fermiamo l’apartheid”, “Tibet libero”, “salviamo il Darfur”, ci uniremo e grideremo “Gaza libera. Palestina libera”. E siccome siamo americani, il mondo prenderà nota ed i palestinesi saranno liberi, e forse la pace prevarrà per tutti i residenti della Terra Santa.

Randall Kuhn è direttore del Global Health Affairs Program presso la Josef Korbel School of International Studies dell’Università di Denver; ha scritto questo articolo il 14/01/2009, di ritorno da un viaggio in Israele ed in Cisgiordania

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2 ottobre 2008

Come si educano alla pace i bambini israeliani...




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6 dicembre 2007

Il cuore dolente della Palestina.

Lunedì 10 dicembre il Comune di Sorrento organizza una manifestazione sui diritti umani, nel corso della quale interverranno Souzan Fatayers, premio della Regione Campania per la Pace e i Diritti Umani, ed Adriana Sabbatini, responsabile per la Palestina dell’Associazione "Altri Mondi ”. Nel corso dell'evento verra' presentato il libro documento ”Non se ne parla: bambini palestinesi nelle carceri israeliane” della giornalista Ansa Alessandra Antonelli, edito dalla Biblioteca di Tolbà.
Il fenomeno dei minori incarcerati nelle prigioni israeliane costituisce una vera barbarie, una tra le tante che lo stato di Israele riserva al popolo palestinese, ed una vergogna che pesa sulle coscienze di noi occidentali, così bravi a far finta di non vedere.
Secondo i dati forniti da B'tselem, alla fine di settembre erano ben 341 i minori palestinesi detenuti nelle carceri dell'Idf e dell'Israel Prisons Service, senza contare i neonati e i bimbi piccolissimi detenuti insieme alle loro madri.
Dunque, chi si trovasse da quelle parti...
Giornata dei Diritti Umani: il cuore dolente della Palestina.
Lunedì 10 dicembre l’Assessorato alla Pace e ai Diritti Umani del Comune di Sorrento e l’Associazione Culturale Cypraea, in collaborazione con l’Istituto d’Arte di Sorrento, dedicano una particolare attenzione a questa giornata che esalta i valori inalienabili dei Diritti Umani, fra cui quello basilare della Pace.
La manifestazione di solidarietà è stata intitolata “Il cuore dolente della Palestina” e l’Assessore Rosario Fiorentino spiega che ”Si è deciso di dare risalto ai gravi avvenimenti della guerra che affliggono molte nazioni del mondo, in particolare la Palestina, e si è voluto accanto a noi l’Associazione Cypraea che collabora con le scuole Palestinesi e ne ospita delegazioni di studenti per creare nella coscienza dei nostri ragazzi che la Pace è un diritto di ogni essere umano e che ai bambini si deve offrire un futuro diverso perché non siano più vittime della politica dei potenti".
Cecilia Coppola, presidente della Cypraea, ha spiegato che “E' stata naturale l’adesione alla giornata della Pace dal momento che scopo della Cypraea è diffondere fra i giovani di diverse etnie nel mondo il desiderio di vivere in una nazione senza conflitti e fili spinati, in una terra dove l’amicizia e la convivenza nel reciproco rispetto siano pilastri fondamentali”.
Sede della manifestazione è l’Istituto Statale d’Arte di Sorrento “ F. Grandi”, la cui dirigente Clotilde Paisio ha evidenziato quanto sia necessario che le scuole diventino una palestra formativa per preparare le futuregenerazioni a seguire un percorso di solidarietà e sostegno verso chi è stato colpito da ingiustizie e dalla violenza della guerra.
La manifestazione si apre alle ore 10.00 nella sede storica dell’Istituto d’Arte di Sorrento nel Chiostro di San Francesco, Sala esposizione con l’inaugurazione della Mostra “Immagini del cuore dolente della Palestina” curata da Adriana Sabbatini.
Porteranno il saluto delle Istituzioni, tra gli altri, Marco Fiorentino, sindaco di Sorrento, Rosario Fiorentino, Assessore alla Cultura, alla Pace e ai Diritti Umani, Souzan Fatayer, premio della Regione Campania per la Pace e i Diritti Umani, che donerà alla città di Sorrento la bandiera della Palestina e riceverà lo stemma del Comune.
Alle ore 10.30 il trenino lillipuziano percorrerà le strade di Sorrento portando il messaggio di Pace delle delegazioni dei bambini e dei giovani della Palestina, della Somalia, dell’Eritrea, del Senegal e delle scuole sorrentine.
Alle ore 11.00 presso l’ Istituto d’Arte “ F. Grandi ” in vico 1° Rotaa Sorrento Angela Cortese, Assessore all’Istruzione della Provincia di Napoli, interverrà alla presentazione del dossier ”Non se ne parla: bambini palestinesi nelle carceri israeliane” della giornalista Ansa Alessandra Antonelli, editore la Biblioteca di Tolbà. Seguirà la proiezione del video “Arresti ”, curata da Adriana Sabbatini, responsabile per la Palestina dell’ “Associazione Altri Mondi ”.
Parteciperanno varie delegazioni studentesche campane e la rappresentanza palestinese, somala, senegalese ed eritrea, che porteranno la loro voce di pace attraverso il canto, la musica e vari momenti culturali, perché si comprenda come si possa elaborare in modo creativo la rinascita dei popoli nella pace e nella giustizia, in un percorso di solidarietà e sostegno, di cui la scuola deve essere la fucina.
Ricordiamo la frase di Nelson Mandela “A volte spetta a una generazione essere grande. Voi potete essere una grande generazione. Lasciate fiorire la vostra grandezza. Certo il compito non sarà facile. Ma non farlo sarebbe un crimine contro l’umanità….fate dellaguerra una storia passata”.

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