29 febbraio 2012

Il Palestinian Centre for Human Rights chiede il rilascio di Hana' Shalabi


Il Palestinian Centre for Human Rights (PCHR) è preoccupato per la vita di Hana’ Shalabi, detenuta nelle carceri israeliane in sciopero della fame da circa due settimane. Il PCHR chiede alla comunità internazionale di fare pressioni su Israele affinché rilasci la Shalabi, che è stata posta in detenzione amministrativa, inizialmente per sei mesi rinnovabili, senza processo.

Il 16 febbraio 2012, l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella casa della 30enne Hana’ Yehya Saber Shalabi nel villaggio di Bourqin, nei pressi della città di Jenin, nel nord della Cisgiordania. L’esercito ha arrestato la Shalabi e l’ha trasferita nella prigione femminile di Hasharon. Le forze di occupazione hanno emesso l’ordine di porre la Shalabi sotto detenzione amministrativa per sei mesi. La Shalabi è entrata in sciopero della fame sin dal primo giorno di detenzione. Va sottolineato che la Shalabi era stata rilasciata dalle carceri israeliane nel recente scambio di prigionieri, dopo aver scontato due anni in regime di detenzione amministrativa.

Secondo Fawwaz Shalloudi, un avvocato della Palestinian Prisoner Club Society, che l’ha vista domenica 26 febbraio, nel corso del suo arresto la Shalabi è stata picchiata, maltrattata ed è stata fatta spogliare completamente per essere perquisita. Shalloudi ha riferito che l’Israeli Prison Service (IPS) ha messo in isolamento la Shalabi.

Sherin Iraqi, avvocatessa del Ministero dei Detenuti ed Ex-Detenuti, ha fatto visita in carcere alla Shalabi. Iraqi ha riferito che le condizioni di salute della Shalabi stanno peggiorando e che si trova in isolamento e non è stata sottoposta ad alcun esame medico da quando ha iniziato il suo sciopero della fame. Ha anche riferito che la Shalabi è stata picchiata e sottoposta a maltrattamenti durante il suo arresto e che l’IPS ha minacciato di trasferirla nella sezione penale del carcere di al-Ramla qualora continui lo sciopero della fame.

Il caso della Shalabi ricorda quello di Khader Adnan che è stato in sciopero della fame per 66 giorni a partire dal 17 dicembre 2011, dopo che un tribunale israeliano aveva deciso di metterlo in detenzione amministrativa per quattro mesi. Adnan ha cessato lo sciopero della fame il 66esimo giorno in cambio del suo rilascio il prossimo 17 aprile.

Il caso della Shalabi mette in luce le condizioni di più di 300 palestinesi attualmente posti in detenzione amministrativa nelle prigioni e nelle strutture di detenzione israeliane, ivi compresi il Presidente e 20 membri del Consiglio legislativo palestinese. Tali atti sono in violazione del diritto di ciascun detenuto ad un giusto processo, compreso il diritto di ricevere una difesa adeguata e di essere informato delle accuse contro di lui. La detenzione amministrativa viene applicata mediante un semplice provvedimento amministrativo, senza rivolgersi ad un tribunale, violando in tal modo gli standard di un procedimento giudiziario imparziale, incluso un giusto processo.

Il PCHR è preoccupato per la vita della Shalabi, detenuta nelle carceri israeliane, e:

1) Chiede alla comunità internazionale di fare pressioni su Israele affinché rilasci la Shalabi e non metta a rischio la sua vita;

2) Chiede alle organizzazioni internazionali per i diritti umani e la solidarietà di esercitare i più ampi sforzi per costringere lo Stato di Israele a porre fine alla politica della detenzione amministrativa che viola il diritto fondamentale ad un giusto processo.

3) Fa’ riferimento con preoccupazione al continuo deterioramento delle condizioni di vita degli oltre 5.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.        

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24 febbraio 2012

Un grazie da Medici per i Diritti Umani - Israele per la battaglia a favore di Khader Adnan


Come ormai è noto, il 21 febbraio scorso l’attivista palestinese Khader Adnan ha posto fine al suo sciopero della fame durato ben 66 giorni, avendo avuto rassicurazione che la sua detenzione amministrativa non sarà rinnovata alla scadenza, prevista per il 17 aprile.

Si tratta di una importante vittoria che Adnan, con il suo” sciopero per la dignità”, ha combattuto per sé stesso ma anche per tutti gli altri prigionieri che, come lui, si trovano ad essere detenuti attraverso quel meccanismo di barbarie giuridica che prende il nome di “detenzione amministrativa”.

Una battaglia che ha avuto il merito di accendere i riflettori su quel simulacro di “giustizia” che lo stato ebraico applica al popolo palestinese sotto occupazione, combattuta soprattutto sul web vista la latitanza e l’incredibile disattenzione dei media tradizionali sull’argomento.

La “detenzione amministrativa” è una procedura mediante la quale un uomo può essere incarcerato senza conoscere le accuse che gli vengono rivolte e senza che subisca un regolare processo per un periodo di sei mesi, che può essere prolungato indefinitamente.

Alla fine di dicembre 2011, secondo i dati forniti da B’tselem, erano ben 307 i palestinesi incarcerati in regime di detenzione amministrativa, 17 dei quali per un periodo continuativo compreso tra i due e i quattro anni e mezzo, uno addirittura da oltre cinque anni!

La detenzione amministrativa  viola gravemente i diritti della difesa, in primo luogo quello spettante a ciascun detenuto di essere sottoposto ad un equo e regolare processo, in chiara violazione dell’art.14 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici. Tale barbarie giuridica, pertanto, deve cessare immediatamente.

Resta lo sconcerto per la poca o nulla attenzione dedicata allo sciopero della fame di Khader Adnan e alla questione della detenzione amministrativa da parte dei media e del mondo politico italiani.

Sembra incredibile, ma siamo in grado di attribuire cittadinanze onorarie ed encomi ad un soldato di un esercito di occupazione, mentre ignoriamo del tutto le sofferenze e le battaglie di chi lotta soltanto per chiedere l’applicazione dei diritti basilari di ciascun essere umano.

A note of thanks from PHR-Israel: the case of Khader Adnan

Cari amici,

come Medici per i Diritti Umani – Israele ha confermato all’inizio di questa settimana, Khader Adnan ha concluso martedì, 21 febbraio, il suo sciopero della fame durato 66 giorni, dopo aver raggiunto un accordo con l’Ufficio del Procuratore di Stato. Secondo l’accordo, Khader Adnan verrà rilasciato dalla sua detenzione amministrativa il 17 aprile del 2012. Escludendo l’introduzione di nuove prove contro di lui, la sua detenzione non verrà rinnovata.

Vorremmo ringraziarvi tutti per il prezioso sostegno, le azioni e l’impegno a favore di Khader Adnan. Apprezziamo moltissimo i molti modi in cui ci avete aiutato nei nostri sforzi per proteggere i diritti di Khader durante il periodo del suo sciopero della fame e vi siete uniti nella sua lotta contro l’ingiusta pratica della detenzione amministrativa.

Si prevede che Khader Adnan debba passare attraverso un complicato processo di recupero. Il medico affiliato a PHR - Israel continuerà ad accompagnare Khader nel suo trattamento per le settimane ed i mesi a venire.

Il tipo di lotta che Khader ha scelto di combattere contro le torture ed il trattamento degradante ai quali è stato sottoposto durante l’arresto e l’interrogatorio e successivamente, mentre contestava la sua detenzione arbitraria, non solo è riuscito a denunciare l’ingiustizia fatta a lui personalmente, ma ha avuto anche la conseguenza di generare una maggiore consapevolezza sulla questione della detenzione amministrativa ed una opposizione ad essa sia in Israele sia in tutto il mondo.

Nel corso delle ultime settimane, Medici per i Diritti Umani – Israele ha dovuto confrontarsi con sfide importanti e dilemmi etici. Nel prossimo periodo, speriamo di condividere con voi una sintesi ed una valutazione delle varie problematiche che sono derivate dal nostro coinvolgimento in questo caso.

Ancora una volta, grazie per il vostro sostegno.

Gila Norich, Direttore per lo Sviluppo
a nome di Anat, Amani e Doron, Dipartimento Prigionieri e Detenuti di PHR - Israel  

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16 febbraio 2012

Demolizioni record nel 2011 in Cisgiordania: il crimine impunito di Israele


Secondo una scheda informativa dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), pubblicata a gennaio di quest’anno, nel 2011 il numero dei palestinesi costretto a sfollare a causa della demolizione delle loro case da parte dell’esercito israeliano è aumentato dell’80% rispetto all’anno precedente. Il numero delle strutture demolite è aumentato del 42% rispetto al 2010, e le persone direttamente o indirettamente colpite da tali demolizioni sono oltre 5.300, buona parte delle quali bambini.

Sono dati ben noti e ampiamente divulgati, e tuttavia passati senza alcun particolare clamore o conseguenza, l’ennesimo dato statistico che certifica le sofferenze del popolo palestinese e i crimini perpetrati dalle autorità israeliane.

La demolizione delle case dei palestinesi residenti nella West Bank, nonché quella di strutture quali cisterne per l’acqua o ricoveri per animali, è anzitutto un crimine umanitario: il diritto internazionale, infatti, vieta il trasferimento forzato dei civili residenti nel territorio occupato, nonché la distruzione delle proprietà private a meno che non strettamente collegate e necessitate da un’operazione militare in corso.

Ma la politica delle demolizioni sistematiche è anche, e soprattutto, un’atrocità ed un abominio da un punto di vista morale, ovvero – per dirla nel linguaggio più diplomatico del Coordinatore umanitario dell’Onu per i Territori occupati Maxwell Gaylard, è totalmente contraria agli “ideali umanitari”.

Chi scrive, per il racconto di persone care che hanno vissuto la triste condizione del profugo, sa bene cosa significa perdere la propria casa - sovente per i palestinesi l’unica fonte di certezze fisiche ed economiche - i propri beni, dover abbandonare la propria terra ed essere costretto a vivere in campi profughi, con la totale incertezza del proprio futuro e di quello dei propri figli.

L’OCHA ci ricorda che l’impatto della demolizione delle case per le famiglie che lo subiscono è psicologicamente devastante: le mogli provano un accresciuto senso di insicurezza, i mariti stress ed ansia, i bambini sono costretti a interrompere gli studi e soffrono di depressione, ansia e sintomi da stress post-traumatico.

Di recente, a proposito del veto di Russia e Cina ad una risoluzione di condanna contro il regime siriano, molte sono state le reazioni irate dei governanti occidentali e dello stesso Segretario Onu Ban Ki-moon, si è parlato di “farsa” e di “scandalo, e si è affermato che, di tal guisa, l’Onu perderebbe ogni ragion d’essere.

Ma ciò è altrettanto vero se si guarda alla scandalosa inerzia dell’Onu e della comunità internazionale a fronte dei crimini israeliani e dell’occupazione illegale dei Territori palestinesi.

Appare incomprensibile come sia stata creata e tutt’ora esista un’apposita agenzia dell’Onu per l’assistenza ai profughi, e che nel contempo nulla si faccia contro quegli stati-canaglia che con il loro operato e le loro politiche di pulizia etnica contribuiscono ad accrescere senza posa il numero delle persone che sono costrette a vivere l’infelice esperienza del rifugiato.

Ma evidentemente anche questi sono gli ignobili dividendi assicurati ad Israele dall’industria dell’Olocausto.

OCHA  Gennaio 2012
FATTI SALIENTI
- Quasi 1.100 palestinesi, oltre la metà bambini, sono stati sfollati nel 2011 a causa della demolizione delle case da parte dell’esercito israeliano, oltre l’80% in più rispetto al 2010.
- Altre 4.200 persone sono state interessate dalla demolizione di strutture connesse al loro sostentamento.
- Le forze israeliane hanno demolito 622 strutture di proprietà di palestinesi, un incremento del 42% rispetto al 2010. Ciò ha incluso 222 case, 170 ricoveri per animali, due aule scolastiche e due moschee (una demolita due volte).  
- Il numero di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e di vasche distrutte nel 2011 (46) è stato più del doppio dell’anno precedente (21), con decine di altre strutture connesse esposte a future demolizioni.
- La maggior parte delle demolizioni (il 90%) e dei trasferimenti (il 92%)si sono verificati nelle già vulnerabili comunità agricole e della pastorizia nell’Area C; migliaia di altre rimangono a rischio di sfollamento a causa di ordini di demolizione non ancora eseguiti.
- A Gerusalemme est c’è stata una significativa diminuzione rispetto agli anni precedenti, con 42 strutture demolite. Tuttavia, almeno 93.100 residenti, che vivono in strutture costruite senza permesso, rimangono a rischio di sfollamento.
- Oltre il 60% delle strutture di proprietà di palestinesi demolite nel 2011 erano situate in aree destinate alle colonie.
- Il 70% dell’Area C è vietato all’attività edilizia dei palestinesi, ed è invece destinato alle colonie o all’esercito israeliano; un ulteriore 29% soffre di pesanti restrizioni.
- Solo il 13% del territorio di Gerusalemme est è lottizzato ad uso edificabile dei palestinesi, gran parte del quale risulta già costruito, rispetto al 35% che è stato espropriato e destinato ad uso degli insediamenti colonici israeliani.
Dieci sulle tredici comunità nell’Area C visitate dall’OCHA hanno riferito che delle famiglie vengono costrette a trasferirsi a causa delle politiche israeliane che rendono difficile soddisfare i loro bisogni primari. L’impossibilità di costruire è uno dei principali fattori scatenanti di questi trasferimenti forzati.
1. Il trasferimento forzato delle famiglie palestinesi e la distruzione di abitazioni civili e di altre proprietà da parte dell’esercito israeliano in Cisgiordania, ivi inclusa Gerusalemme est, hanno un grave impatto umanitario. Le demolizioni privano le persone delle loro abitazioni, che spesso costituiscono la loro principale fonte di sicurezza fisica ed economica. Esse inoltre creano gravi disagi, riducendo il loro tenore di vita e compromettendo le loro possibilità di accesso ai servizi di base quali l’acqua e l’igiene, l’istruzione e l’assistenza sanitaria.
2. L’impatto sul benessere psicosociale delle famiglie può essere devastante. Spesso le donne sentono di perdere il controllo sulle faccende domestiche e provano un accresciuto senso di insicurezza mentre gli uomini sperimentano maggiori stress ed ansia. Per molti bambini le demolizioni, unitamente all’interruzione della frequenza scolastica ed alle accresciute tensioni familiari, si traducono in depressione, ansia e sintomi di disturbi da stress post-traumatico.
3. Secondo le autorità israeliane, le demolizioni vengono effettuate a causa del fatto che le strutture sono prive dei necessari permessi di edificabilità. In realtà, per i palestinesi è quasi impossibile ottenere i permessi. La zonizzazione e il regime di pianificazione urbanistica applicati da Israele nell’Area C e a Gerusalemme est limita la crescita e lo sviluppo dei palestinesi, mentre assicura un trattamento preferenziale per le colonie israeliane illegali. Questo trattamento include l’approvazione di piani regolatori e la fornitura di infrastrutture essenziali, la partecipazione al processo di pianificazione urbanistica, e l’assegnazione di terreni e risorse idriche.  
4. Nell’Area C, una combinazione di linee di condotta e di pratiche israeliane, tra cui zonizzazioni e pianificazioni urbanistiche restrittive, l’espansione degli insediamenti colonici, le violenze dei coloni, e le restrizioni alla circolazione e agli accessi, hanno avuto come risultato la frammentazione del territorio e il restringimento dello spazio per i palestinesi, compromettendo la loro presenza. Le autorità israeliane hanno inoltre segnalato la loro intenzione di trasferire numerose comunità palestinesi al di fuori di settori strategici dell’Area C, sollevando ulteriori preoccupazioni di carattere umanitario e giuridico.
5. Israele, quale potenza occupante la Cisgiordania, ha l’obbligo di proteggere la popolazione civile palestinese e di amministrare il territorio a vantaggio di essa. Il diritto internazionale vieta lo spostamento forzato o il trasferimento dei civili, al pari della distruzione di proprietà private se non assolutamente necessarie ai fini di operazioni militari. Le demolizioni delle case e di altre strutture ad uso civile dovrebbero cessare immediatamente e i palestinesi dovrebbero ottenere imparziali ed effettive zonizzazioni e pianificazioni urbanistiche per le loro comunità.  

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1 febbraio 2012

Ad Anata va in scena la distruzione delle case e dei diritti umani dei palestinesi

Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…

Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.

Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.

Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per
Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.

Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.

RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012

Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.

Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.

In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.

Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.

Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.

Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?

Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)

Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre

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