26 ottobre 2004

La farsa del ritiro israeliano da Gaza.

Questa sera, intorno alle 20:00, dopo due giorni di acceso dibattito, andrà in votazione il piano di ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti della Cisgiordania, meglio noto come "disengagement plan".
Il piano è stato fortemente voluto da Sharon, a costo di spaccare letteralmente in due il suo partito, il Likud; quelli che si profilano, infatti, sono due schieramenti assolutamente inediti: da una parte, a favore del provvedimento, dovrebbero esserci 22 parlamentari del Likud, 19 del Labour di Peres, 14 dello Shinui, i sei dello Yahad, e vari altri di partiti minori e della Lista araba unita, dall'altra, tra i contrari, i restanti 18 deputati del Likud, 11 dello Shas, 6 rispettivamente del Partito nazionale religioso e dell'Unione nazionale, 2 della Lista araba unita e 3 del Balad.
Il difficile è capire cosa accadrà dopo questo voto, se si andrà ad un referendum, se si formerà un governo di unità nazionale che veda assieme Likud, Labour e Shinui, se la maggioranza riuscirà a ricompattarsi o se si andrà a elezioni anticipate (ma quest'ultima ipotesi ha scarse probabilità di realizzarsi).
Il momento, per certi aspetti, è storico: per la prima volta Israele si ritira da parte dei Territori occupati e li restituisce ai legittimi proprietari, i Palestinesi, per la prima volta viene messo in dubbio il rovinoso concetto della "sacralità" della terra, per la prima volta Sharon ha usato parole chiare contro i coloni, persone "meravigliose" ma afflitte da una sorta di "complesso messianico".
E, tuttavia, se da una parte Sharon cerca di rassicurare la comunità internazionale sostenendo che il disengagement plan "non viene al posto del negoziato" e che "non si tratta di congelare la situazione per sempre" ma, al contrario, il piano farà progredire Israele "nella strada della pace con i Palestinesi e con gli altri nostri vicini", resta il fatto che viene ancora una volta affermato con forza che il ritiro da Gaza "rafforzerà il controllo israeliano sulle terre essenziali alla nostra esistenza" e "romperà il boicottaggio di Israele".
Riaffiora, cioè, la sensazione che il ritiro da Gaza sia, in realtà, un espediente tattico volto a rompere l’isolamento diplomatico di Israele nel mondo e, soprattutto, a perpetuare il controllo israeliano su gran parte del West Bank, “sacrificando” circa 7.500 coloni (peraltro lautamente ricompensati, fino a 500.000 dollari per nucleo familiare) per “legalizzarne” circa 316.000 in Cisgiordania e a Gerusalemme est, ricompresi all’interno del tracciato del muro di “sicurezza”.
A quale Sharon bisogna credere, a quello presente ieri alla Knesset o a quello che, appena poco più di un mese fa, dichiarava allo Yediot Ahronot che Israele, con il suo ritiro unilaterale, “non sta seguendo la road map” e che considerava “molto probabile”, dopo l’evacuazione, “che ci sarà un lungo periodo in cui nient’altro accadrà”?
E a chi bisogna credere, allo Sharon odierno o al suo fido consigliere Dov Weisglass, secondo cui il piano di ritiro da Gaza altro non è che un espediente per congelare il processo di pace ed impedire la nascita di uno Stato palestinese, per chiudere ogni discorso su confini, rifugiati, Gerusalemme est, quello stesso Weisglass secondo cui – per quanto riguarda le colonie del West Bank – alcune non verranno assolutamente toccate, e per altre se ne potrà discutere “quando i Palestinesi saranno diventati Finlandesi”?
A questo proposito è interessante riportare alcuni passi di una relazione del 12 agosto 2004 redatta a cura del Relatore Speciale dell’Onu John Dugard, che dovrebbe essere sottoposta all’esame dell’Assemblea Generale entro il corrente mese di ottobre.
“Israele vede i vantaggi politici nel ritiro da Gaza. In particolare, esso sostiene che non potrebbe più essere considerato come Potenza occupante nel territorio, soggetta alla IV Convenzione di Ginevra. In realtà, tuttavia, Israele non progetta di abbandonare la sua presa sulla Striscia di Gaza. Si ripromette di mantenere la sua autorità controllando i confini di Gaza, le acque territoriali e lo spazio aereo … Questo disengagement plan stabilisce relativamente a Gaza, tra l’altro, che ‘Lo Stato di Israele vigilerà e manterrà sigillati i confini territoriali, avrà il controllo esclusivo dello spazio aereo di Gaza e continuerà ad effettuare attività militari nello spazio marittimo della Striscia di Gaza … Lo Stato di Israele continuerà a mantenere una presenza militare lungo la linea di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto (la cd. Philadelphi route)’ … Un altro mezzo di controllo contemplato è l’installazione di dispositivi di ascolto ad alta tecnologia nei maggiori edifici della Striscia di Gaza, al fine di consentire alle autorità israeliane di monitorare le comunicazioni. Tutto ciò significa che Israele rimarrà una Potenza occupante secondo il diritto internazionale” (pg.10, para. 14).
La Striscia di Gaza ha una estensione di circa 365 kmq., con un confine terrestre di 11 km. con l’Egitto e di 51 km. con Israele, ed un tratto costiero pari a circa 45 km., ed in essa vivono circa 1,3 milioni di Palestinesi.
Il confine con Israele è completamento circondato da un reticolato elettrificato, con una “buffer zone” di terra completamente spianata che corre tutt’intorno; neanche il confine con l’Egitto è libero in quanto, lungo tutta la sua lunghezza (la cd. Philadelphi route) è stata creata una sorta di zona di rispetto profonda fino a 200 metri (creata, manco a dirlo, con la distruzione di centinaia di case palestinesi), in cui è prevista una presenza militare israeliana ed in cui, al contrario, i Palestinesi non potranno accedere.
La decisione israeliana di impedire la riapertura dell’aeroporto internazionale di Gaza, il diniego alla ricostruzione del porto internazionale, le severe restrizioni alla libertà di movimento dei pescatori, il divieto di accesso per i Palestinesi alle risorse di gas naturale pur situate nelle loro acque territoriali completano il quadro di una completa privazione della libertà di movimento di beni e persone da e per la Striscia di Gaza, combinata ad un vero e proprio strangolamento economico.
Va ricordato, peraltro, che Israele progetta di trasferire l’unico punto di passaggio verso l’Egitto (il valico internazionale di Rafah) entro il proprio territorio, così da isolare totalmente la Striscia di Gaza dal resto del mondo.
I Palestinesi, infatti, per viaggiare o esportare merci dovrebbero usare il porto egiziano di Port Said o l’aeroporto del Cairo; Port Said, in particolare, dista da Rafah ben 275 km., e ciò significa che i viaggiatori e/o le merci devono prima recarsi da Gaza a Rafah, poi attendere pazientemente il permesso di passaggio, poi traversare il deserto per 275 km. e, infine, arrivare a Port Said!
Risulta chiaro come un simile pellegrinaggio risulti estremamente penoso per le persone e addirittura impossibile per le derrate agricole, generalmente deperibili, con il risultato che ogni esportazione di tale genere di beni da Gaza sarà destinata a cessare.
Di contro, nel West Bank, “ci sono aree che saranno parte dello Stato di Israele, inclusi città, paesi, villaggi, aree di sicurezza e installazioni, e altri siti di speciale interesse per Israele.
Secondo il deputato laburista Ephraim Sneh, attualmente sono in corso di costruzione in Cisgiordania circa 4.000 nuove unità abitative che, una volta popolate, faranno aumentare di circa il 10% il numero dei settlers israeliani; il tracciato del muro di “sicurezza”, una volta completato, farà sì che l’80% dei coloni si troverà dal lato israeliano del muro, “legalizzato” per volontà divina e grazie alla benevolenza dell’amministrazione Bush.
Quello che si prefigura, insomma, è un mini-ritiro, o meglio un ritiro farsa, mediante il quale Israele, con il minimo sacrificio, intende ottenere il massimo dei vantaggi politici e territoriali, lasciando Gaza in mano alle bande armate dei vari gruppi di militanti e i Palestinesi ad un futuro di miseria, appena alleviata dall’intervento delle organizzazioni umanitarie.
Nulla, dunque, è destinare a mutare in maniera sostanziale, dato che – tra l’altro – Israele si riserva di intervenire militarmente all’interno della Striscia di Gaza ogni qual volta la sua “sicurezza” lo imponga e giusto ieri, con l’operazione “Cortile del Re”, ne ha dato l’ennesima riprova.
Per rispondere ad alcuni colpi di mortaio sparati contro il territorio israeliano – che non hanno causato alcuna vittima o ferito – l’esercito israeliano ha scatenato l’ennesima mattanza, stavolta a Khan Yunis: risultato, in sole 30 ore di operazioni, 17 Palestinesi morti, di cui almeno 6 civili incluso un bambino di 11 anni, e 76 feriti (17 minorenni) di cui 12 gravi, con il contorno di 23 edifici distrutti.
Se il buongiorno si vede dal mattino…

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25 ottobre 2004

Ancora morti nella Striscia di Gaza.

Oggi è iniziato alla Knesset (il Parlamento israeliano) il dibattito sul "disengagement plan", lo "storico" piano che dovrebbe portare allo smantellamento di 21 colonie nella Striscia di Gaza e di quattro nel West Bank, con la conseguente evacuazione di "ben" 7.500 coloni.
Anche se la sua attuale maggioranza rischia di andare in frantumi, Sharon non dovrebbe avere problemi ad ottenere l'approvazione parlamentare al suo piano, grazie al presumibile supporto del Labour e dello Yahad.
E tuttavia niente sembra destinato a cambiare per i poveri Palestinesi, visto che anche oggi l'esercito israeliano ha distribuito nella Striscia la sua dose quotidiana di morte e distruzione.
Dopo i 138 morti e gli oltre 430 feriti dell'operazione "giorni di penitenza", infatti, Tsahal ha compiuto una ennesima pesante incursione a Khan Yunis, con l'appoggio di carri armati, blindati, bulldozer ed elicotteri.
Il bilancio, ancora provvisorio, parla di 14 persone uccise, tra le quali un bambino di 11 anni; i feriti sarebbero almeno una settantina, di cui 17 minori di diciotto anni.
Francamente non riesco ad appassionarmi allo storico dibattito in corso alla Knesset, visto che - comunque vada - il destino dei Palestinesi non sembra destinato a mutare granché!

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20 ottobre 2004

Le mani insanguinate.

L'operazione "giorni di penitenza", iniziata la sera del 28 settembre, ha avuto termine venerdì notte, 15 ottobre.
In poco più di due settimane, l'esercito israeliano ha ucciso ben 138 Palestinesi, e di questi - secondo le stesse statistiche dell'Idf - solo 80 erano militanti armati: il 42% dei morti, dunque, erano civili disarmati e non coinvolti nei combattimenti!
Ma non è tutto: dei 138 morti, 31 erano bambini; degli oltre 430 feriti, 139 erano bambini.
Un'operazione militare che doveva servire ad impedire il lancio di missili Qassam contro Sderot si è tramutata in una vera e propria vendetta a sangue freddo, un massacro ferocemente premeditato e spietatamente portato a termine.
Per impedire l'uso di un'arma così "terribile" da aver provocato, in tre anni e più, "ben" quattro morti, Tsahal, in due sole settimane, ha ucciso quasi 35 Palestinesi per ogni vittima israeliana, una rappresaglia da far impallidire persino quelle di tanti "illustri" predecessori.
Nel corso della seconda Intifada, il rapporto tra morti palestinesi e morti israeliani è più o meno di 3 a 1, ma passando ai minorenni diventa di 5 a 1.
Secondo le statistiche di B'tselem (precedenti all'operazione di Gaza, tuttavia) i Palestinesi minori di 18 anni uccisi sono stati 557, contro i 110 Israeliani; altre organizzazioni parlano di numeri ancora superiori e, in particolare, secondo la Mezzaluna Rossa i morti Palestinesi minori di 18 anni fino ad oggi sono stati ben 828.
In molti casi, l'assassinio di bambini palestinesi è stato assolutamente gratuito ed ingiustificato.
Mohammed Aaraj, 6 anni, stava mangiando un panino di fronte alla sua casa, nel campo profughi di Balata, quando è stato ucciso da un soldato israeliano a distanza ravvicinata.
Kristen Saada, 12 anni, era con i suoi genitori quando i soldati israeliani hanno sparato a raffica contro l'auto in cui viaggiavano, uccidendola sul colpo.
I fratelli Jamil e Ahmed Abu Aziz, rispettivamente di 13 e 6 anni, andavano in bicicletta nella piena luce del giorno quando sono stati investiti dallo scoppio di una granata sparata da un tank israeliano.
Muatez Amudi e Subah Subah sono stati uccisi nel villaggio di Burkin da un soldato israeliano che ha iniziato a sparare all'impazzata in conseguenza del lancio di alcune pietre.
Ghadeer Jaber Mokheimer, 11 anni, è stata colpita al petto e allo stomaco ed è morta mentre era seduta nel suo banco a scuola, a Khan Yunis.
Ma il caso più terribile è stato quello dell'uccisione di Iman al Hams, la ragazzina palestinese 13enne colpita dal fuoco di alcuni soldati della brigata Givati e poi "giustiziata" dal loro comandante: era il 5 ottobre, e Iman stava andando a scuola, non pensava certo di incontrare qualcuno che ne avrebbe "confermato la morte" con due pallottole nella nuca!
Il valoroso comandante è attualmente sospeso, ma non per aver giustiziato a sangue freddo la bambina, ma solo per la sua scarsa "leadership" e per i rapporti ormai deteriorati con i suoi subordinati!
E' chiaro il messaggio che così si invia ai soldati: nessun problema se uccidete dei bambini, nessuno di voi è colpevole!
E la cosa peggiore è che questa immane tragedia, le terribili sofferenze, le devastazioni e le morti che quotidianamente devono affrontare i Palestinesi non sono in alcun modo presenti nell'agenda della pubblica opinione israeliana, che preferisce voltarsi dall'altro lato ignorando persino i fatti più atroci e le statistiche più crude.
Ma un esercito che uccide così tanti bambini è un esercito senza più controllo, un esercito che, soprattutto, ha perso il suo codice etico e morale.
E l'assoluta indifferenza degli Israeliani - con qualche rara eccezione - per le sofferenze del popolo palestinese ed il massacro dei suoi figli, l'appoggio incondizionato alla politica brutale e spietata del primo ministro Sharon, li rende complici di questi crimini.
Chi avrebbe mai creduto che i soldati israeliani avrebbero ucciso centinaia di bambini e che la maggioranza di Israele sarebbe rimasta silenziosa?
La verità è che il sangue di migliaia di Palestinesi, e soprattutto quello delle centinaia di bambini assassinati da Tsahal, sporca le mani dell'intero popolo israeliano, complice silenzioso di un massacro senza fine.

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14 ottobre 2004

"L'altro" terrorismo.

Non esiste soltanto il problema del terrorismo internazionale di matrice islamica.
Vi è anche un "altro" terrorismo, che non occupa le prime pagine dei giornali ma agisce in sordina, quasi "legalizzato" perchè a promuoverlo sono gli eserciti dei Paesi occidentali, civili per antonomasia, e che tuttavia ottiene l'identico risultato di massacrare civili inermi, di terrorizzare le popolazioni e di renderne misera e impossibile la vita quotidiana.
Esempio direi classico di questo "terrorismo di stato" è quello condotto da Israele con i suoi raid nei Territori palestinesi.
Ancora stamattina Sharon ha confermato che l'operazione militare in atto nella Striscia di Gaza continuerà ad oltranza, e ciò nonostante il parere contrario espresso da alcuni ufficiali israeliani al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa della Knesset.
Secondo l'esercito, gli obiettivi dell'operazione "Giorni di Penitenza" sono stati ormai raggiunti, e continuare significherebbe soltanto mettere in pericolo inutilmente la vita dei soldati israeliani e creare problemi di carattere umanitario alla popolazione palestinese.
Dunque la decisione di continuare la devastazione della Striscia di Gaza ed il massacro di civili inermi è una decisione eminentemente politica e non necessitata da esigenze di carattere militare o "difensivo".
Evidentemente a Sharon non sono bastati i 116 palestinesi morti fino al 12 0ttobre, di cui almeno il 40% civili inermi, stando alle investigazioni svolte dall'israeliana B'tselem.
Mercoledì, 13 ottobre, a Beit Lahiya Tsahal ha ucciso due militanti di Hamas e due altri Palestinesi di cui ancora non si conosce il nome; in aggiunta, a Rafah, un ragazzino 16enne che stava giocando a pallone è stato massacrato da una cannonata sparata da un tank israeliano.
Stamattina, 14 ottobre, l'esercito israeliano ha ucciso cinque Palestinesi, due militanti di Hamas a Jabaliya e tre civili disarmati a Rafah, tra cui un anziano 70enne di nome Ismail Assawahli; in quest'ultimo "incidente" altri sette Palestinesi sono rimasti feriti, tra cui la moglie 65enne di Assawahli.
Le truppe israeliane, prima di ritirarsi, hanno demolito 16 case di civile abitazione, in aggiunta alla consueta devastazione di strade e campi coltivati.
Sebbene sia quasi ormai impossibile tenere l'esatto conto dei morti e dei feriti, ad oggi la "penitenza" che l'esercito israeliano sta facendo pagare alle popolazioni palestinesi della Striscia di Gaza ammonta a 126 morti e circa 400 feriti, niente male davvero!
Anche per questo vero e proprio "terrorismo di stato", dagli effetti devastanti, la comunità internazionale dovrebbe indignarsi e, soprattutto, trovare i modi per impedirlo ed assicurare i colpevoli alla giustizia internazionale.

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13 ottobre 2004

La strage degli innocenti.

Gli ultimi dati disponibili sull'incursione militare israeliana in atto nella Striscia di Gaza, aggiornati al 12 ottobre, ci dicono che su 116 Palestinesi uccisi, 29 erano bambini; su 381 Palestinesi feriti, ben 128 sono bambini.
Ziyad Ala' Shams, 14 anni, di Gaza City, Mahmoud Abu Tyour, 10 anni, di Khan Yunis, Saber Ibrahim Asaliya, 13 anni, di Jabaliya, Lu'ay Ayman an Najjar, 4 anni, di Khan Yunis, Hasan Jum'a al Sharatha, 13 anni, di Jabaliya, Samah Samir Nassar, 9 anni, di Beit Hanoun, e tanti altri ancora sono le vittime della barbarie e della ferocia dell'esercito israeliano, dell'uso indiscriminato di armamenti pesanti in centri abitati in spregio ad ogni convenzione di diritto umanitario, dei crimini di guerra quotidianamente commessi da Tsahal.
Stamattina è morta una bambina palestinese di 11 anni, Ghadeer Jaber Mokheimer, che ieri era stata ferita gravemente allo stomaco e al petto, mentre era a lezione in una scuola gestita dall'Unrwa, da alcuni colpi sparati da una postazione dell'esercito israeliano vicino all'insediamento colonico di Neve Dekalim.
Non si tratta certo dell'unico "incidente" di questo genere provocato dai valorosi soldatini di Tsahal, sempre nella stessa area di Khan Yunis.
Domenica il 16enne Jihad Sa'id Sarhan era stato ferito leggermente mentre era seduto nel suo banco; in un altro di questi attacchi criminali, il 7 settembre, era stata ferita alla testa una bambina di 10 anni, Raghda Adnan al Assar, morta il successivo 22 settembre per la gravità delle ferite riportate.
Il 1° giugno di quest'anno, in un'altra scuola gestita dall'Unrwa a Rafah, erano stati feriti due bambini palestinesi di 10 anni, mentre nel marzo del 2003 la 12enne Hoda Darwish era stata colpita alla testa da un colpo di fucile sparato da una postazione dell'esercito israeliano vicino Khan Yunis, ed era rimasta cieca.
Il fatto più grave ed atroce, tuttavia, è accaduto qualche giorno addietro, ma si è conosciuto soltanto ieri, grazie ad alcuni soldati che ne hanno parlato alla radio israeliana in condizioni di anonimato.
Martedì 5 ottobre veniva uccisa a Rafah la 13enne Ayman al Hams, mentre stava andando a scuola.
Il suo corpo senza vita era rimasto per terra almeno due ore prima che i soldati israeliani consentissero ai sanitari di portarla via e, successivamente, da fonti mediche si era venuto a sapere che il corpo della povera Ayman era stato crivellato da almeno 20 pallottole.
Ora sappiamo il perchè.
I soldati israeliani, appartenenti alla Brigata Givati e in servizio presso l'avamposto dell'Idf di Girit, hanno raccontato che il loro comandante si è avvicinato alla bambina stesa a terra e le ha sparato dapprima due colpi in testa, poi è ritornato indietro e le ha scaricato addosso l'intero caricatore del fucile automatico, "confermandone" la morte.
"Confirm to kill" è lo slang militare con cui si usa definire l'esecuzione sommaria di un nemico colpito...
Non vi sono parole per esprimere lo sdegno e la rabbia per questo ennesimo crimine di guerra commesso dall'esercito israeliano, mentre la comunità internazionale - al di là delle solite condanne di rito - continua a guardare da un'altra parte e si interroga sulle cause del terrorismo.
Come si è visto, l'assassinio di bambini innocenti sta divenendo una triste "prassi" nelle azioni militari israeliane, così come non sono mai stati casi isolati le "conferme delle uccisioni" - ossia le esecuzioni sommarie - di combattenti palestinesi feriti, come i report dell'Onu e di Human Rights Watch su Jenin avevano dimostrato.
Resta solo da capire per quanto ancora sarà consentito ad Israele di perseverare, nella più totale impunità, in questa vera e propria strage degli innocenti.

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12 ottobre 2004

Cossiga, Bertinotti e il terrorismo internazionale.

Valeva davvero la pena di guardare la puntata di "Porta a Porta" di ieri solo per vedere Cossiga e Bertinotti compiere un'analisi del fenomeno terroristico con molti punti in comune.
Per entrambi, certamente il terrorismo non nasce con la guerra in Iraq, ma altrettanto certamente grazie alla guerra ed alla violenza trova nuovo alimento e nuovi proseliti.
Per entrambi, vi è una differenza all'interno dell'Iraq tra "terroristi" in senso stretto (riconducibili alla galassia di al Qaeda) e "resistenti", coloro i quali cioè si oppongono ad una invasione nemica - vera o supposta tale - con le armi, e dunque hanno diversa legittimità o, comunque, dignità rispetto ai primi, ed il pericolo vero consiste, dunque, in una eventuale saldatura tra questi due "campi".
Facendo un parallelo con la Palestina è stato proprio Cossiga a notare come i Palestinesi tradizionalmente fossero sempre stati un popolo laico e "occidentale", per la profonda influenza derivante dal mandato britannico, e come tali guardati con sospetto e diffidenza dalle altre popolazioni arabe, e che Hamas e la Jihad islamica si sono sviluppate in epoca più vicina ai giorni nostri.
Il pericolo, anche qui, è che l'islamismo estremista prevalga sulle componenti "politiche" della resistenza palestinese, o che, ancora peggio, si creino delle saldature ideologiche ed operative con il terrorismo internazionale, fino ad oggi evitate.
Ma chi e che cosa hanno portato Hamas e la Jihad islamica ad essere così forti e a godere di tanta popolarità?
Senza tacere degli errori e del malgoverno dell'Autorità palestinese, non si può tuttavia dimenticare che le organizzazioni estremistiche palestinesi siano state favorite, al loro sorgere, proprio da Israele, nel tentativo di diminuire il potere ed il prestigio di Arafat.
Non si può sorvolare sul fatto che Hamas e la Jihad islamica siano state agevolate dalla politica miope di Sharon e dell'alleato americano, che ha distrutto le infrastrutture dell'Anp ed ha ostinatamente cercato di isolare, fisicamente e politicamente, il vecchio raìs palestinese.
Nè si dimentichi che il proselitismo di queste organizzazioni si basa in gran parte su servizi di istruzione e di assistenza alle famiglie più povere, sempre più necessari a fronte della miseria dilagante nei Territori occupati.
Ora, tutti si rendono ben conto che uno dei passi principali da compiere in medio oriente è quello di giungere ad una composizione pacifica del conflitto israelo-palestinese.
Lo ha ricordato il Presidente pakistano Musharraf dvanti all'Assemblea dell'Onu, ma ancora ieri lo sosteneva con forza il nostro Presidente Ciampi, incontrando Mubarak.
Ieri i Ministri degi esteri dell'Unione europea si sono riuniti in Lussemburgo ed hanno ribadito che il disengagement plan di Sharon - cioè il ritiro unilaterale israeliano da Gaza e da quattro colonie del West Bank - non potrà in alcun modo sostituire un processo di pace basato sulle previsioni della road map.
L'Europa, hanno aggiunto, non potrà mai accettare un confine tra Israele ed il futuro Stato palestinese che sia diverso da quello esistente prima della guerra dei sei giorni, ossia la cd. green line.
Il problema è che questa posizione, ragionevole ed equa, dovrebbe essere spiegata anche agli Stati Uniti, che purtroppo, da tempo, hanno invece abbandonato il loro ruolo di "honest broker" nel conflitto, appiattendosi completamente sulle posizioni del governo Sharon.
E dire che, ancor prima dello scoppio della guerra in Iraq, in una conferenza stampa congiunta sia Bush sia Tony Blair avevano solennemente sostenuto che la "democratizzazione" di quel Paese avrebbe creato un benefico "effetto domino", con l'obiettivo primario di risolvere, per l'appunto, la questione palestinese.
Oggi l'Iraq - con molta benevolenza - si può definire ancora in mezzo al guado, e i Territori palestinesi sono ogni giorno oggetto di sanguinosi raid dell'esercito israeliano, con numerose, ingiustificate ed illegittime uccisioni di civili inermi, soprattutto bambini.
Sharon ha esplicitamente dichiarato di considerare morta e sepolta la road map, e ancora in questi giorni il suo Consigliere Dov Weisglass ha ribadito che il disengagement plan altro non è che un espediente per "congelare" il processo di pace e mantenere il controllo israeliano sul West Bank.
Gli Usa assecondano ormai in toto il disegno israeliano e dispiace vedere il buon Colin Powell andare in giro a dichiarare che il disengagement plan di Sharon è perfettamente compatibile con la road map, perchè tali dichiarazioni lo fanno sembrare un vecchietto un po' rimbambito che non si accorge di quello che gli capita sotto il naso: così non è, però, perchè si tratta di una vera e propria commedia degli equivoci che è utilissima ad entrambi gli attori.
In Consiglio di Sicurezza dell'Onu una risoluzione che mirava soltanto a fermare il massacro di civili palestinesi in corso nella Striscia di Gaza è stata bloccata dal solito veto americano, e le parole del rappresentante Usa all'Onu sembravano quelle di un esponente della destra religiosa israeliana.
Eppure se con la via del diritto e del ripristino della legalità internazionale non si riesce a dare giustizia alle legittime esigenze ed aspettative del popolo palestinese, e non si riesce nemmeno a difenderne i figli dalla furia omicida dell'esercito israeliano, allora la battaglia contro il terrorismo è persa in partenza.
Nell'un campo e nell'altro, infatti, la violenza, la barbarie ed il sangue sembrerà l'unica strada per affermare le proprie ragioni e la propria supremazia.

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11 ottobre 2004

Una questione di giustizia.

A proposito di terrorismo, il Presidente del Pakistan Musharraf ha dichiarato davanti all'Assemblea delle Nazioni Unite: "possiamo anche vincere delle battaglie contro il terrorismo, ma rischiamo di perdere la guerra se il mondo non si impegna a risolvere le ingiustizie nel mondo musulmano; la tragedia della Palestina è una ferita aperta nella psiche di ogni musulmano, e gli Stati Uniti devono riprendere il ruolo di 'honest broker' per la pace".
Qualche giorno addietro, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che semplicemente chiedeva lo stop alle azioni militari di Israele nella Striscia di Gaza ed il ritiro delle truppe di Tsahal è stata stoppata dal veto Usa.
L'operazione militare israeliana "Giorni di Penitenza" in 12 giorni, fino alla data del 10 ottobre, è costata la vita a 111 Palestinesi di cui circa la metà civili inermi, 29 erano bambini; i feriti ammontano a circa 360, di cui 124 sono bambini.
Se ad Israele continua ad essere consentito di massacrare impunemente la popolazione palestinese, se un accordo di pace e la nascita di uno Stato palestinese viene definitivamente cancellata dall'agenda politica del governo Sharon con il beneplacito Usa, non è difficile immaginare che gli uffici di reclutamento del terrorismo internazionale continueranno ad avere parecchia gente in fila per arruolarsi.

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9 ottobre 2004

Una riflessione sugli attentati nel Sinai.

Una serie coordinata di attacchi terroristici in alcune località turistiche nella penisola del Sinai, in Egitto, ha provocato giovedì notte la morte di almeno 31 persone ed il ferimento di altre 122, mentre ancora altre 38 persone risultano disperse, e tra queste due ragazze di nazionalità italiana.
La maggior parte delle vittime erano turisti israeliani, in vacanza per la festività del Sukkot, e lavoratori egiziani, mentre si sa con certezza della morte di una turista russa.
L'attentato più devastante è stato quello all'Hotel Hilton di Taba, a poche centinaia di metri dal confine israelo-egiziano, dove sono morte 28 persone, mentre altre due vittime, due ragazzi israeliani, si sono avute in una esplosione nel campeggio di Ras Sultan e numerosi feriti a Nueiba.
Non pare che sussistano dubbi sulla paternità di questi barbari attentati, riconducibili al terrorismo islamico internazionale del network di al Qaeda e, soprattutto, al medico egiziano Ayman al Zawahri, che giusto qualche tempo addietro, in un video, aveva preannunciato attacchi contro obiettivi israeliani.
Appartiene alle metodologie del terrorismo islamico l'attenta pianificazione e la contemporaneità nella esecuzione degli attentati, ed anche la scelta degli obiettivi tra i luoghi di vacanza, come era stato ad esempio a Bali o, ancor di più, nell'attentato del novembre 2002 al Paradise Hotel di Mombasa, in Kenya.
Una rivendicazione apparsa su un sito internet islamico ha sostenuto che l'attentato di giovedì notte è stato attuato per vendicare la morte del leader di Hamas Ahmed Yassin.
La questione palestinese, dunque, da conflitto di carattere squisitamente regionale rischia di essere risucchiata e inglobata nel più ampio contesto del terrorismo "globale".
E ciò avviene ad opera di Israele, che ha sempre cercato di iscrivere la sua lotta contro le organizzazioni palestinesi e la sua politica di esecuzioni "mirate" nel contesto della lotta al terrorismo su scala mondiale, per ottenere l'appoggio degli Usa e cercare di attrarre il consenso dell'opinione pubblica malgrado l'uso sproporzionato e indiscriminato della forza militare e i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani commessi a danno della popolazione civile palestinese.
Ma ciò avviene anche ad opera dei terroristi islamici, che cercano di strumentalizzare la causa del popolo palestinese per giustificare i loro crimini abietti e spietati.
Ma chi sono questi terroristi, chi vorrebbero rappresentare, quale causa vorrebbero difendere?Non si tratta di altro che di feroci assassini, che non solo massacrano turisti ignari e inermi, ma uccidono persino altri fratelli arabi, persone della loro stessa religione.
Ed anche il riferimento alla questione palestinese ha un carattere "politico": si cita Yassin ma non si fa cenno alcuno al raid di Gaza o, più in generale, alle sofferenze della popolazione civile palestinese, il che val quanto dire una sostanziale indifferenza all'argomento.
Resta il problema di combattere il terrorismo, e se sull'obiettivo si è tutti d'accordo, non così è riguardo ai metodi.
Si spera che la tragedia irachena abbia insegnato al mondo, Stati Uniti inclusi, che il terrorismo non si combatte scatenando una guerra convenzionale in cui a morire sono soprattutto gli innocenti: il terrorismo cerca la violenza e si nutre di violenza.
Sono necessari sicuramente la collaborazione e gli scambi di informazioni tra i servizi segreti, le operazioni di intelligence, i sequestri dei beni ed il blocco dei canali di finanziamento.
Ma, soprattutto, bisogna cercare di togliere consenso al terrorismo, in primis disinnescando tutte le occasioni di scontro e risolvendo le questioni aperte di cui i terroristi si servono strumentalmente per raccogliere nuovi adepti e accrescere la propria popolarità.
Ed è indubbio che il primo posto in una tale agenda vada alla questione palestinese.
In questo esatto momento è in corso nella Striscia di Gaza un raid dell'esercito israeliano che ha già provocato, nel periodo 28 novembre - 7 ottobre, ben 104 morti (di cui circa 1/3 bambini) e oltre 360 feriti.
Il triplo dei morti e dei feriti di Taba, ma senza gli onori delle prime pagine dei giornali e dell'apertura di tutti i telegiornali, ma questo è un discorso che si ripete...
Al Consiglio di Sicurezza dell'Onu una risoluzione che semplicemente richiedeva lo stop del raid israeliano a Gaza, il ritiro dei soldati, la cessazione dell'uccisione di civili palestinesi, è stata bloccata dal solito veto Usa.
Se non si riescono a soddisfare minimamente le istanze e le esigenze del popolo palestinese, se la comunità internazionale ed il consesso delle nazioni "civili" non riesce nemmeno a difendere i diritti umani e persino la vita di civili inermi, donne, anziani, bambini, c'è davvero da meravigliarsi se qualcuno, in Palestina o in tutto il mondo arabo, arrivi a ritenere che il metodo della violenza sia non solo giustificato, ma l'unico che possa portare rimedio alle sofferenze ed alle ingiustizie patite dal popolo palestinese?

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6 ottobre 2004

Il vero nemico della pace in Palestina.

In una intervista che l'israeliano Ha'aretz pubblicherà nel suo supplemento del venerdì - e di cui oggi ha reso noti alcuni stralci - Dov Weisglass, Consigliere del Primo Ministro Ariel Sharon e uno degli artefici del cd. disengagement plan, ha dichiarato che questo piano, che prevede il ritiro dei coloni israeliani da Gaza e da quattro insediamenti nel West Bank, significa in realtà un congelamento del processo di pace.
Secondo Weisglass, "il significato del disengagement plan è il congelamento del processo di pace ... e quando hai congelato quel processo, previeni la creazione di uno Stato palestinese, e previeni ogni colloquio sui rifugiati, i confini e Gerusalemme".
Effettivamente - ha proseguito Weisglass - l'intero pacchetto denominato lo Stato di Palestina, con tutti i suoi vincoli, è stato rimosso indefinitamente dalla nostra agenda ... e tutto con l'approvazione presidenziale e la ratifica di entrambi i rami del Congresso".
E poi il tocco finale, condito di stupida ironia e terrificante arroganza.
"Il processo di pace consiste nella creazione di uno Stato palestinese con tutti i rischi per la sicurezza che comporta. Il processo di pace è l'evacuazione degli insediamenti, è il ritorno dei rifugiati, è la divisione di Gerusalemme. E tutto questo è ciò che abbiamo congelato ... quello che effettivamente ho concordato con gli Americani è stato che parte degli insediamenti non sarebbe stata abbandonata affatto, mentre il resto non verrà abbandonato finchè i Palestinesi non diventeranno Finlandesi"...
Naturalmente, le dichiarazioni di Weisglass hanno suscitato le ire della minoranza parlamentare israeliana.
Il deputato Ahmed Tibi, di Hadash, ha inviato una lettera all'ambasciatore statunitense in Israele Dan Kurtzer, chiedendogli se "l'Amministrazione americana sia un partner per le falsità politiche di Sharon".
Yossi Beilin, deputato dello Yahad e uno dei promotori degli Accordi di Ginevra, ha invece dichiarato che gli "spaventosi commenti" di Weisglass "rivelano il fatto che è Sharon a non essere un partner per la pace (accusa sempre mossa ad Arafat, ndr), e che il campo pacifista deve lavorare affinché venga abbattuto".
Come non sottoscrivere in pieno le parole di Beilin?

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Un silenzio di tomba.

Il silenzio, assordante, è quello della comunità internazionale e dei media di fronte all'operazione militare dell'esercito israeliano denominata "Giorni di Penitenza", attualmente in corso nella Striscia di Gaza e che si sta risolvendo in una ennesima carneficina della popolazione civile palestinese.
La tomba, o meglio le tombe, sono naturalmente quelle dei Palestinesi uccisi ad opera del valoroso esercito israeliano, in una delle pagine più vergognose e barbare di questa seconda Intifada.
Bastano alcuni numeri per dare conto dell'ampiezza dell'offensiva israeliana e della ferocia mostrata nei confronti della popolazione civile palestinese.
Secondo una investigazione preliminare degli avvenimenti operata dall'organizzazione israeliana B'tselem, dalla data dell'inizio delle operazioni (la sera del 28 settembre) al 4 di ottobre, ben 75 Palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano: tra essi, almeno 31 civili non coinvolti in combattimenti, di cui 19 erano di età compresa da 17 anni in giù; il numero dei feriti è di circa 280, di cui 81 bambini.
Il che significa, in soldoni, che in una settimana i prodi soldatini di Tsahal hanno ucciso un numero di Palestinesi superiore al totale dei morti israeliani di tutto il 2004!
In aggiunta, sono state demolite interamente 55 case solo nel campo profughi di Jabalya, mentre altre 50 case risultano gravemente danneggiate.
Oltre 50.000 persone nelle località di Beit Hanoun, Beit Lahiya e a Jabalya sono completamente circondate e sotto assedio, senza acqua ed elettricità, senza medicinali e con scorte di cibo in esaurimento.
Ieri, 5 ottobre, 12 organizzazioni dell'Onu tra cui l'Unicef, la Fao, il World Food Program, hanno lanciato un appello ad Israele affinché permetta alle agenzie umanitarie di entrare nella Striscia di Gaza per distribuire beni di conforto, cibo, medicinali, e perchè venga rispettato il diritto umanitario internazionale e venga assicurata l'incolumità della popolazione civile.
Secondo i dati forniti nella conferenza stampa, durante il 2004 il ritmo delle uccisioni di Palestinesi è stato di circa 45 al mese, mentre il tasso di povertà è salito al 72%; l'esercito israeliano da 14 giorni nega l'accesso a Gaza a tutto il personale Onu, e così è stato per un totale di 65 giorni nel 2004.
Ma l'esercito israeliano non ci sente da quest'orecchio, e il massacro continua.
Lunedì, 4 ottobre, Tsahal ha ucciso almeno 11 Palestinesi, tra cui due bambini, Saber Ibrahim 'Asaliya e Nidal Muhsen al-Madhoun, entrambi 14enni; in aggiunta, al Shifa Hospital di Gaza, moriva Mohammed Djiab al-Najjar, di 13 anni, ferito dai soldati israeliani il 1° ottobre a Jabalya.
Martedì, 5 ottobre, 8 Palestinesi uccisi da Tsahal in separati incidenti, sei militanti di Hamas e delle Brigate al Aqsa, un civile palestinese disarmato a Gush Katif e una bambina di 13 anni.
Quest'ultimo assassinio è forse uno dei più barbari e crudeli, un "errore" come ammesso ieri da fonti militari israeliane, un disumano crimine di guerra a giudizio di chi scrive.
La ragazza, il cui nome era Iman al-Hams, stava andando a scuola con la sua borsa con i libri quando, giunta a circa 400 metri dalla scuola, veniva fatta oggetto di colpi d'arma da fuoco partiti da varie postazioni israeliane.
Il suo corpo senza vita è rimasto sul terreno per circa due ore prima che gli israeliani permettessero ai sanitari di avvicinarsi per portarla via: alla fine, fonti mediche comunicheranno che Iman era stata colpita da almeno 20 pallottole...
Mai contenti, questi infami assassini, si stanno dando da fare anche stamattina, mentre leggete queste righe.
Alle prime ore di oggi, mercoledì 6 ottobre, i carri armati israeliani hanno aperto il fuoco contro alcune case della cittadina di Beit Lahiya: il primo ad essere ucciso è stato il 15enne Attalah Qahman, seguito a ruota dal 58enne Hamdan Obeid e dal figlio 25enne Hamouda.
Una terza cannonata, successivamente, colpiva un'altra casa ferendo 10 bambini, di età compresa tra 6 mesi e 12 anni: attualmente, due di loro versano in condizioni gravissime.
Per finire, sempre stamani, un Palestinese 15enne, ferito ieri a Jabalya, è morto in conseguenza di una fucilata che lo aveva colpito alla testa.
L'operazione "Giorni di Penitenza", dal 28 settembre a stamattina, è costata ai Palestinesi, come abbiamo visto, 86 morti e 280 feriti: giova ricordare che in questo stesso periodo i morti israeliani sono stati cinque, due bambini uccisi a Sderot da un razzo Qassam, due soldati e una colona.
Il minimo che si possa dire è che Israele sta conducendo una campagna militare assolutamente devastante e sproporzionata rispetto agli scopi che la stessa vorrebbe perseguire, lo stop a ulteriori lanci di razzi Qassam da parte dei Palestinesi di Hamas.
L'azione dell'esercito israeliano, invece, si è davvero trasformata in una gigantesca "penitenza" pagata dall'intera popolazione civile della Striscia di Gaza, una punizione collettiva disumana e feroce, costellata da veri e propri crimini di guerra.
Invano B'tselem, Amnesty International, varie altre organizzazioni umanitarie, l'Onu, chiedono ad Israele di assicurare l'incolumità dei civili inermi, di evitare l'uso sproporzionato e sconsiderato della forza militare, di permettere l'accesso alla zona al personale umanitario, di consentire la fornitura alle popolazioni dei beni di prima necessità.
Israele non fa una piega e non interrompe il massacro, neanche per un attimo, in ciò favorito e incoraggiato dal sorprendente silenzio della comunità internazionale su quanto sta accadendo.
A parte qualche generico appello di Kofi Annan, a parte la "preoccupazione" di qualche governo europeo, nessuna reazione di fronte alla barbarie israeliana, eppure qualcosa in più ci si sarebbe aspettato, soprattutto da parte della Ue e del cd. "Quartetto".
Una risoluzione di condanna contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell'Onu è stata stoppata dal solito veto Usa, e l'ambasciatore israeliano Dan Gillerman, in maniera incredibile e intollerabile, ha addirittura definito Israele come vittima di aggressione!
Persino la "colomba" statunitense Colin Powell ha avuto il coraggio di dichiarare che l'offensiva israeliana "non è in contrasto con il disengagement plan": è certamente vero, il buon Sharon non solo si ritira da Gaza, ma aiuta anche i Palestinesi a risolvere il problema del sovraffollamento!
E i media? Poco o nessuno spazio al massacro in corso a Gaza, persino il duello tv tra Cheney e Edwards merita più spazio nella sezione "esteri" della morte di qualche decina di Palestinesi straccioni...

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2 ottobre 2004

I "Giorni della Penitenza".

In risposta al lancio di un razzo Qassam da parte di Hamas, che mercoledì sera, 29 settembre, aveva causato la morte di due bambini israeliani a Sderot, l’esercito israeliano ha intrapreso un’azione militare di portata senza precedenti nel nord della Striscia di Gaza, che nel giro di 48 ore ha provocato la morte di ben 42 Palestinesi, in gran parte civili inclusi molti bambini, ed il ferimento di almeno altre 130 persone: è quello che si dice una rappresaglia ben proporzionata!
Ma è necessario fare un passo indietro.
Secondo un rapporto dello Shin Bet, durante la presente Intifada, i Palestinesi hanno lanciato circa 460 razzi Qassam, di cui 380 oltre la green line; trattandosi di razzi di fattura artigianale, tuttavia, essi sono molto imprecisi e così il loro effetto è soprattutto psicologico, essendosi dimostrati letali soltanto in questo ed in un altro caso, a giugno di quest’anno, provocando in totale la morte di quattro Israeliani.
L’esercito israeliano, comunque, a seguito delle dure proteste dei coloni di Sderot per i ripetuti lanci dei razzi palestinesi contro la loro cittadina, aveva deciso di entrare in forze nel nord della Striscia di Gaza ben prima della morte dei due bambini e, approssimativamente alle 22:00 di martedì 28 settembre, scatenava un’offensiva senza precedenti, diretta principalmente contro i campi profughi di Jabalya e Beit Lahia.
Solo nel corso della giornata di mercoledì, l’esercito israeliano aveva già ucciso ben sei Palestinesi e ne aveva feriti 52, e questo soltanto a Gaza nella prima fase delle operazioni: tra i morti, Ahmed Abdul Fateh Madi, di anni 17, e Saed Abu al Eish, di anni 14, assassinati da Tsahal mentre tiravano pietre ai soldati.
In un separato incidente, a Netzarim, analoga morte per Mohammed Jaber, di anni 13; a Jenin, probabilmente in un errato tentativo di esecuzione “mirata”, venivano assassinati un tassista, Mohammed al Bitar, ed il suo passeggero, un maestro di scuola di nome Rateb Talib, mentre la moglie di quest’ultimo rimaneva lievemente ferita.
Come si vede, era stata ben più letale l’attività dell’esercito israeliano in un solo giorno che il lancio di centinaia di razzi Qassam nel giro di vari mesi…
Ma il clou delle operazioni doveva venire il giorno successivo, giovedì 30 settembre.
La mattina presto truppe e veicoli corazzati israeliani entravano in Jabalya - un misero e squallido campo profughi abitato da circa 106.000 Palestinesi in condizioni di sovraffollamento ed assoluta povertà – e prendevano posizione nel Blocco 2, demolendo varie case e danneggiando alcune scuole dell’Unrwa, per dirigersi poi anche al Blocco 4.
Per tutto il giorno Tsahal ha messo a ferro e a fuoco il campo, ed alla fine è stato un bagno di sangue: 32 morti e oltre 120 feriti, e tra questi ultimi almeno 20 erano bambini.
Nell’incidente più grave, avvenuto nei pressi di una scuola, un carro armato israeliano ha sparato una cannonata, uccidendo sul colpo 7 adolescenti e ferendo altre 24 persone, quasi tutti civili: la scena era orribile, i cadaveri erano completamente maciullati e i feriti erano in condizioni terribili, molti avevano perso degli arti.
Più tardi, il generale Dan Harel, comandante delle truppe a Gaza, dichiarerà “siamo molto spiacenti che dei civili siano stati colpiti”: magari ci si poteva pensare prima e usare maggior cautela nell’assicurare l’incolumità della popolazione civile, ma questo dovere sancito dal diritto umanitario internazionale è completamente estraneo al modus operandi dell’esercito israeliano.
Ancora, intorno alle 11:50, Tsahal prendeva posizione sulla collina di Qulaibu e apriva il fuoco contro Beit Lahia: vari civili uccisi, il 65enne Mohammed Yousef al Habel, assassinato da una fucilata davanti al suo negozio, Jamal Rajab al Ashqar, di anni 27, ucciso da una pallottola in testa, un bambino colpito al cuore da una pallottola, non ancora identificato.
A fronte dei 32 morti Palestinesi (senza contare i feriti…), tre Israeliani uccisi, tra cui due soldati: anche la cruda realtà dei numeri parla di una rappresaglia sproporzionata, di un uso indiscriminato della forza da parte dell’esercito israeliano, di un assoluto disprezzo per la vita dei civili palestinesi inermi e innocenti.
In aggiunta, almeno 22 case demolite dai bulldozer israeliani, in alcuni casi senza dare alcun preavviso alle famiglie che stavano all’interno.
Venerdì 1 ottobre il bilancio è di “soli” otto morti tra i Palestinesi, due feriti leggeri tra le truppe israeliane.
A Jabalya, due militanti di Hamas sono stati uccisi da un missile lanciato da un elicottero, mentre erano in motocicletta; qualche ora più tardi, sempre nello stesso campo profughi, un altro missile uccideva per errore tre civili palestinesi che non stavano facendo assolutamente nulla; un altro civile è stato ucciso dalle truppe israeliane mentre cercava di scappare: l’uomo era disarmato; altri due morti, e circa 8 feriti, in località Tel al Zaatar, a seguito del lancio di due missili da parte di un “drone” dell’Idf.
Ancora nelle primissime ore di stamattina, altri due morti e quattro feriti tra i Palestinesi, ed ancora nel campo di Jabalya.
Le operazioni nel nord della Striscia di Gaza, da giovedì notte, fanno parte di un piano denominato “Giorni di Penitenza”, davvero una fervida fantasia hanno i militari israeliani nel dare i nomi ai loro raid assassini!
Ma, dopo 32 morti proprio nella giornata di giovedì, la “penitenza” i Palestinesi non l’avevano già fatta?
E perché a pagare per un attentato di Hamas deve essere chiamata l’intera popolazione civile palestinese?
Il ministro palestinese Saeb Erekat ha denunciato il raid delle forze armate israeliane come “un crimine di guerra e terrorismo di stato”: gli si può forse dare torto?
Lo stesso Erekat teme adesso che l’intera Striscia di Gaza sarà presto rioccupata, e in effetti il Presidente della Commissione Difesa della Knesset, Yuval Steinitz, ha proposto di avviare una operazione “muraglia di difesa 2” proprio a questo scopo.
Gideon Meir, un portavoce del Governo israeliano, ha dichiarato che Israele ha l’obbligo di proteggere i suoi cittadini: vero, ma questo obbligo non comporta certo il massacro della popolazione civile palestinese!
Il mondo odierno è afflitto dalla terribile piaga del terrorismo, soprattutto di matrice islamica, con uomini fanatici pronti a uccidere, sgozzare, farsi saltare in aria insieme a persone inconsapevoli e indifese.
Ma come si comporta il campo occidentale, come agisce Israele che in questo campo qualcuno ha iscritto?
Davvero pare che siamo di fronte ai nuovi barbari del XXI secolo, perché certi tratti della repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese sembrano davvero appartenere ad un’altra epoca.
Come si possono definire, o come si possono giustificare, una repressione feroce e spietata, la carneficina continua della popolazione civile, con un rapporto tra morti palestinesi e morti israeliani che ci rimanda indietro a tristi epoche, l’uso indiscriminato e sproporzionato della forza militare, le punizioni collettive, le demolizioni delle case, le devastazioni dei campi, il furto delle terre e delle risorse naturali, l’uso della tortura negli interrogatori, le vessazioni e i pestaggi ai check point, le umiliazioni e le violenze nelle carceri, gli attacchi al personale ed alle strutture dell’Onu, il divieto di accesso alle cure mediche, gli attacchi ai mezzi e al personale sanitario, in una parola le violazioni della legalità e i crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano nei Territori palestinesi?
Israele può e deve difendere i suoi cittadini dal terrorismo kamikaze, ma non a costo di violare la legalità internazionale, non a costo di violare quotidianamente il diritto internazionale umanitario, non a costo di massacrare un intero popolo.
Ma la comunità internazionale non vuole o non può intervenire, nel dibattito elettorale Usa la questione palestinese è del tutto assente, l’Onu – per bocca di Kofi Annan – si limita all’ennesimo, generico richiamo al rispetto delle prescrizioni della road map, quella stessa road map che Sharon ha esplicitamente dichiarato essere morta e sepolta.
Nessuna speranza per i Palestinesi, dunque, ciò che li aspetta sono solo i giorni della penitenza…

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