27 marzo 2008

Notizie in breve.

Un uomo di fede.
E’ lecito presumere che anche un rabbino, in quanto uomo di fede, sia persona mite e pia, ben disposta verso il suo prossimo, ma non sempre è così.

E allora accade che il rabbino capo di Safed, Shmuel Eliyahu, inviti il proprio governo ad una “orribile vendetta” contro gli Arabi a seguito del recente attacco alla scuola rabbinica Mercaz Harav, al fine di ristabilire il potere di deterrenza israeliano.

E cosa propone il buon rabbino, in un articolo scritto per una newsletter distribuita nelle sinagoghe di tutto il Paese?

E’ molto semplice: “appendere ad un albero i figli del terrorista che ha compiuto l’attacco alla yeshiva Mercaz Harav”.

Magari con un cartello al collo con la scritta “banditi”, come si usava ai bei tempi andati…

Qualcuno di recente ha dichiarato – in una lettera in cui si spiegavano i motivi della propria conversione al cattolicesimo – che l’Islam è una religione “fisiologicamente” violenta.

Beh, alla luce delle dichiarazioni di certi rabbini, forse poteva dare uno sguardo anche all’ebraismo!

Le incredibili dichiarazioni di Tzipi Livni.
Nel corso di una conferenza organizzata ieri a Gerusalemme, il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha avuto modo di dichiarare che le operazioni dell’esercito israeliano a Gaza non ostacolano il processo di pace ma, al contrario, aiutano a farlo progredire.

Ne saranno senz’altro lieti i familiari e gli amici dei 124 Palestinesi uccisi durante l’operazione “Hot Winter”, e in particolare i 31 bambini massacrati dai macellai di Tsahal tra il 27 febbraio e il 2 marzo di quest’anno: il loro sacrificio non è stato vano, ma è servito a far “progredire” il processo di pace!

La Livni si è anche lamentata del fatto che esiste “un enorme e intollerabile divario” tra chi sono gli Israeliani e quali sono i loro valori, e l’immagine di Israele nel mondo.

Chissà mai perché!

La centodiciottesima vittima.
A proposito di vittime innocenti, martedì notte è morta a Gaza Jazyiah Abu Hilal, una Palestinese di 65 anni da tempo ammalata di cancro, a cui le autorità israeliane hanno negato il permesso di recarsi all’estero per ricevere le cure mediche adeguate al caso, non disponibili nella Striscia.

Si tratta della centodiciottesima vittima innocente dell’inammissibile blocco imposto alla Striscia di Gaza a partire dal giugno dell’anno scorso, che impedisce ai Palestinesi di poter uscire da Gaza persino per ricevere trattamenti sanitari urgenti e indifferibili.

Si tratta di un bilancio senz’altro incompleto, in quanto, come riferisce l’organizzazione Physicians for Human Rights, molti Palestinesi che conoscono l’attuale situazione ai valichi di frontiera rinunciano a un’attesa estenuante e spesso senza speranza, e preferiscono morire a casa loro.
Non riusciamo a immaginare una forma di punizione collettiva più barbara e disumana di quella di negare ad un malato la possibilità di ricevere le cure mediche che potrebbero salvargli la vita, metterlo di fronte all’angosciante alternativa di un permesso o di una reiezione (ovvero alla possibilità di non ricevere affatto risposta), alternativa che può rappresentare la differenza tra la vita e la morte.

Ma parlare di diritti umani quando si ha a che fare con Israele ormai non ha più alcun significato.

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13 marzo 2008

Il popolo ebraico? Un'invenzione!

La Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che il popolo ebraico proviene dalla Terra di Israele e che fu esiliato dalla sua patria. Ad ogni scolaro israeliano si insegna che ciò accadde durante il dominio romano, nell’anno 70 d.C. La nazione rimase fedele alla sua terra, alla quale iniziò a tornare dopo 2 millenni di esilio.
Tutto sbagliato, dice lo storico Shlomo Zand, in uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati qui (in Israele, n.d.t.) da molto tempo a questa parte. Non c’è mai stato un popolo ebraico, solo una religione ebraica, e l’esilio non è mai avvenuto – per cui non si è trattato di un ritorno. Zand rigetta la maggior parte dei racconti biblici riguardanti la formazione di una identità nazionale, incluso il racconto dell’esodo dall’Egitto e, in modo molto convincente, i racconti degli orrori della conquista da parte di Giosué. È tutta invenzione e mito che è servita come scusa per la fondazione dello Stato di Israele, egli assicura.
Secondo Zand, i romani, che di solito non esiliavano intere nazioni, permisero alla maggior parte degli ebrei di restare nel paese. Il numero degli esiliati ammontava al massimo a qualche decina di migliaia. Quando il paese fu conquistato dagli arabi, molti ebrei si convertirono all’Islam e si assimilarono con i conquistatori. Ne consegue che i progenitori degli arabi palestinesi erano ebrei. Zand non ha inventato questa tesi; 30 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, essa fu sostenuta da David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Zvi ed altri.

Se la maggioranza degli ebrei non fu esiliata, come è successo allora che tanti di loro si insediarono in quasi ogni paese della terra? Zand afferma che essi emigrarono di propria volontà o, se erano tra gli esiliati di Babilonia, rimasero colà per loro scelta. Contrariamente a quanto si pensa, la religione ebraica ha cercato di indurre persone di altre fedi a convertirsi al giudaismo, il che spiega come è successo che ci siano milioni di ebrei nel mondo. Nel Libro di Ester, per esempio, è scritto: “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei, perché il timore dei Giudei era piombato su di loro” (Ester, 8,17).

Zand cita molti precedenti studi, alcuni dei quali scritti in Israele ma tenuti fuori dal dibattito pubblico dominante. Egli descrive anche, e a lungo, il regno ebraico di Himyar nella penisola arabica meridionale e gli ebrei berberi del Nord Africa. La comunità degli ebrei di Spagna derivava da arabi convertiti al giudaismo che giunsero con le forze che tolsero la Spagna ai cristiani, e da individui di origine europea che si erano convertiti anch’essi al giudaismo.

I primi ebrei di Ashkenaz (Germania) non provenivano dalla Terra di Israele e non giunsero in Europa orientale dalla Germania, ma erano ebrei che si erano convertiti nel regno dei Kazari nel Caucaso. Zand spiega l’origine della cultura Yiddish: non si tratta di un’importazione ebraica dalla Germania, ma del risultato dell’incontro tra i discendenti dei Kazari e i tedeschi che si muovevano verso oriente, alcuni dei quali in veste di mercanti.

Scopriamo così che elementi di vari popoli e razze, dai capelli biondi o scuri, di pelle scura o gialla, divennero ebrei in gran numero. Secondo Zand, i sionisti per la necessità che hanno di inventarsi una eticità comune e una continuità storica, hanno prodotto una lunga serie di invenzioni e finzioni, ricorrendo anche a tesi razziste. Alcune di queste furono elaborate espressamente dalle menti di coloro che promossero il movimento sionista, mentre altre furono presentate come i risultati di studi genetici svolti in Israele.

Il Prof. Zand insegna all’Università di Tel Aviv. Il suo libro, ‘When and How Was the Jewish People Invented’, (Quando è come fu inventato il popolo ebraico), pubblicato in ebraico dalla casa editrice Resling, vuole promuovere l’idea di un Israele come “stato di tutti i suoi cittadini” – ebrei, arabi ed altri – in contrasto con l’attuale dichiarata identità di stato “ ebraico e democratico”. Il racconto di avvenimenti personali, una prolungata discussione teoretica e abbondanti battute sarcastiche non rendono scorrevole il libro, ma i capitoli storici sono ben scritti e riportano numerosi fatti e idee perspicaci che molti israeliani resteranno sorpresi di leggere per la prima volta.

Tradotto dall’inglese da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete dei traduttori per la diversità linguistica.
Titolo originale: An invention called 'the Jewish people', di Tom Segev, Ha'aretz 1.3.2008

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9 marzo 2008

Un 8 marzo listato a lutto.

Ieri, 8 marzo, anche nei Territori occupati era la giornata internazionale della donna, ma le donne palestinesi non hanno certamente avuto motivi per festeggiare questa ricorrenza, avendo anch’esse dovuto pagare un caro prezzo all’escalation di violenza e ai raid militari condotti da Israele nella Striscia di Gaza.

Nel corso della vera e propria campagna militare scatenata contro il campo profughi di Jabalya, nel nord della Striscia, tra il 28 febbraio e il 4 marzo di quest’anno, l’esercito israeliano ha massacrato ben 110 Palestinesi: 54 erano civili inermi e, tra questi, 27 erano i bambini e 6 le donne, di età compresa tra i 19 e i 60 anni.

Povere donne che non avevano intenzione di andare incontro al martirio e che non avevano alcuna familiarità con un ak47, colte di sorpresa dal terrificante attacco missilistico scatenato dagli aerei e dagli elicotteri israeliani durante la giornata del 1° marzo, uccise dentro le loro case che erroneamente ritenevano un rifugio abbastanza sicuro, maciullate e smembrate mentre dormivano o mentre erano intente alla cura delle faccende domestiche.

Ghada ‘Abdullah, 27 anni, era in cucina e stava preparando la colazione per i suoi figli quando un missile ha colpito la sua casa, Nihad Zaher, 20 anni, è stata uccisa da un colpo di fucile al collo, Samah ‘Assaliya, 19 anni, è stata uccisa da un missile che ha colpito la camera da letto dove dormiva, e così sono cadute vittime dei missili israeliani anche Su’ad Rajab ‘Atallah, 60 anni, e le sue figlie Ibtissam e Rajaa’, rispettivamente di 25 e 30 anni.

Complessivamente, nel corso di poco più di due mesi del 2008, Israele si è macchiato le mani del sangue di 13 donne.

Tra loro possiamo ricordare anche Fatheya Yusef al-Hassoumi, 35 anni, la cui unica colpa è stata quella di aver accettato un passaggio in auto dalla persona sbagliata, e cioè da un candidato all’eliminazione “mirata” da parte dei bravi soldati israeliani; Miriam Mohammad Ahmad al-Rahel, 52 anni, che invece di una eliminazione “mirata” è stata vittima per un deprecabile errore, uccisa da un missile della Iaf mentre tornava a casa, insieme a uno dei suoi figli, sul suo povero carretto trainato da un mulo; Haniya Hussein ‘Abdul Jawwad, 52 anni, uccisa nel corso di un bombardamento aereo mentre partecipava al ricevimento nuziale di un nipote.

Questo per non parlare di quei morti che non entrano nemmeno nelle statistiche di guerra, come le 7 donne morte, dal giugno del 2007 ad oggi, per non essersi potute recare all’estero per ricevere le cure mediche di cui avevano bisogno, a causa dell’illegale e immorale imprigionamento di un milione e mezzo di Palestinesi nella Striscia di Gaza da parte di Israele.

O come le sei donne morte a Rafah, bloccate insieme a migliaia di altri civili dalla chiusura del valico internazionale protrattasi per oltre due mesi.

L’8 marzo è già ieri, e sembra già svanito persino l’eco dell’orribile massacro di Jabalya, 110 morti di cui la metà erano civili inermi e innocenti, una strage incredibilmente passata pressoché sotto silenzio e con la tacita approvazione dei governi occidentali, che l’hanno derubricata sotto la voce “diritto all’autodifesa”, seppur blandamente ammonendo Israele per l’uso eccessivo e sproporzionato della forza militare: che gentili!

Resta la memoria e il pensiero rivolto a queste donne, vittime della più perfetta estrinsecazione della cultura israeliana, una cultura di violenza, di oppressione, di morte.

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8 marzo 2008

Verso una Terza Intifada?

I drammatici eventi e il bagno di sangue provocati nella Striscia di Gaza dall’operazione denominata “Inverno caldo” hanno letteralmente invaso le pagine dei giornali e i servizi delle televisioni di tutto il mondo, ovviamente anche nei Paesi mediorientali.

Molti osservatori concordano ormai sulla insostenibilità della attuale situazione, che vede la logica della violenza cieca e brutale prevalere su quella del negoziato e del dialogo, a causa soprattutto dell’ostinazione di Israele e degli Usa nel negare ad Hamas lo status di partner per un accordo di pace o, financo, per una semplice tregua, nel timore di attribuire una patente di legittimità a quella che considerano (ahimé, anche l’Europa…) una organizzazione “terroristica”.

Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che, se pace vi potrà mai essere, dovrà essere una pace tra Israeliani e Palestinesi, non tra Israele e la Cisgiordania di Abbas e Fayyad.

Ed invece, per usare le parole di Ali Abunimah, ricercatore presso il “Palestine Center”,la strategia americana continua ad essere puramente e semplicemente quella di ignorare Hamas: “Non si può parlare con loro. Non si può trattare con loro. Devi solo coprirti le orecchie, chiudere gli occhi e far finta che non esistano” (Hamas, ma anche un milione e mezzo di Palestinesi residenti nella Striscia di Gaza).

Il rischio sempre più concreto, peraltro, è che le distruzioni e i crimini di guerra commessi da Israele ai danni dei Palestinesi nella Striscia di Gaza finiscano con l’infiammare nuovamente anche la relativamente quieta (almeno per ora) West Bank, provocando lo scoppio di una Terza Intifada non meno sanguinosa delle precedenti.

In questo senso si esprime Zvi Bar’el, analista politico israeliano, in un articolo apparso il 2 marzo nell’edizione on-line in lingua inglese del quotidiano Ha’aretz, qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Articolo sinistramente profetico perché ha preceduto solo di qualche giorno l’assalto ad una scuola religiosa di Gerusalemme, costato la vita ad 8 Israeliani.

E poco importa se questa strage sia ascrivibile ad Hamas, in “risposta” ai 130 Palestinesi uccisi da Tsahal a Gaza nel corso dell’operazione “Inverno caldo”, oppure a Hezbollah, come ritorsione per l’assassinio del leader militare
Imad Mughniyeh.

Perché identico è il frutto amaro della politica dell’assassinio di marca israeliana: continuare a piangere sempre nuovi morti, nella speranza illusoria che la pace e la sicurezza possano essere raggiunte attraverso le eliminazioni mirate, le punizioni collettive, i raid militari, i crimini di guerra.

E, ancora una volta, le uniche parole di buon senso provengono da John Dugard, Relatore speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati, contenute in una press release dell’Onu del 3 marzo scorso: “E’ imperativo che venga fatto ogni sforzo per porre fine alla violenza. Questo può essere fatto solo attraverso il negoziato e la mediazione. Le Nazioni Unite sono l’ovvio organismo per iniziare tali colloqui tra Hamas a Gaza, il Governo israeliano e l’Autorità palestinese a Ramallah. Attualmente l’Onu è frenata dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e da Israele dal parlare con Hamas e ciò l’ha resa impotente ad adempiere il suo principale dovere, il mantenimento della pace internazionale. Il Segretario Generale dell’Onu dovrebbe trovare il coraggio (sic!) di superare questo ostacolo e iniziare significativi colloqui tra tutte le parti. Senza questo, il ciclo della violenza è destinato a continuare".

Dubitiamo che Dugard troverà qualcuno disposto ad ascoltarlo.

Prepariamoci alla Terza Intifada.

Vivere a Ramallah è piacevole, per ora. I supermercati offrono una vasta gamma di prodotti, le discoteche stanno decollando e la crescita economica ha superato il 7 % da quando il primo ministro Salam Fayyad ha assunto l’incarico. Forse l’Autorità Palestinese non ha ancora ricevuto tutti i 7,7 miliardi di dollari promessi dagli Stati Uniti, ma vi è comunque la sensazione che sia possibile fare affari, sia nel settore pubblico che in quello privato. A dimostrazione di questo vi è l’insoddisfazione dei membri di Fatah per la presenza di troppi tecnocrati e di pochi membri di Fatah nel governo Fayyad. Anche loro vorrebbero una quota dei benefici.

Anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas è soddisfatto. Per quanto non sembri fare passi avanti il negoziato con Israele, almeno si effettuano degli incontri. “Se non si troverà un accordo nel 2008 sarà difficile avere condizioni per un negoziato analoghe a quelle presenti attualmente”, ha dichiarato al quotidiano arabo Al-Hayat con sede a Londra. Tuttavia, a cosa hanno portato queste terribili condizioni, sostenute dagli americani? A nessun risultato. Ma non importa, fintanto che la Cisgiordania è tranquilla e fiorente, tra i checkpoint e gli insediamenti.

La serenità della Cisgiordania è minacciata da una sola cosa: la guerra nella Striscia di Gaza, dove ad esempio la notte scorsa 60 palestinesi sono stati uccisi. Apparentemente sia Abbas che il Primo Ministro Ehud Olmert si sono convinti che non solo si tratti di una caso che ha a che fare con due paesi distinti, in cui uno non ha alcun effetto sull’altro, ma che esso riguardi anche due popoli diversi. Se è così, la soluzione con uno Stato palestinese e un popolo palestinese non richiede un’ulteriore soluzione con un altro popolo palestinese. In una Palestina vi sarà una fiorente economia, e nell’altra vi sarà la guerra. In una Palestina funzioneranno le fabbriche e si ballerà nelle discoteche e, nell’altra, i bambini verranno uccisi.

Anche se Abbas non è sollecitato da questa situazione - a causa della sua enorme rabbia personale nei confronti di Hamas per avergli sottratto un terzo dello Stato palestinese, come anche per la sua frustrazione causata dal fallimento dei suoi fedelissimi e delle forze al suo comando nell’evitare che Hamas si impadronisse della Striscia di Gaza - Israele dovrebbe essere, invece, molto, molto sollecitato. La Striscia può essere governata da Hamas, ma la guerra che l’organizzazione combatte contro Israele è una guerra palestinese. Un milione e mezzo di palestinesi non paga le tasse all’Autorità Palestinese, ma non ha neanche una vita normale. La popolazione civile di Gaza che – a centinaia di migliaia di persone – si era aggrappata all’ancora di salvezza che era le stata momentaneamente offerta quando Hamas aveva abbattuto muro che la segregava, è il substrato esplosivo su cui sono state costruite la prima e la seconda Intifada.

Allo stesso tempo, ed a causa dello stesso assedio, i leader arabi sono stati costretti a considerare la Striscia di Gaza come un’entità palestinese, a prescindere dal fatto che è governata da Hamas. Secondo un sondaggio dell’Università di Bir Zeit, oltre l’80 % dei palestinesi vuole che Hamas e Fatah si riconcilino. Gli intervistati non considerano la divisione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza un fenomeno naturale che può essere accettato tranquillamente. Riconoscono, come dovrebbe fare anche Israele, che la Striscia è una vera e propria minaccia per lo status quo in Cisgiordania.

È importante ricordare che nell’ultima Intifada vi era una sorta di competizione in Cisgiordania e a Gaza, sia tra Fatah e Hamas, che tra le diverse città della Cisgiordania e della Striscia, tra chi poteva mettere in atto attacchi più violenti contro Israele . Quando Hamas ha inviato gli attentatori suicidi in Israele, Fatah ha adottato lo stesso metodo, e quando Nablus è esplosa, è seguita Hebron, perché quando c’è una lotta nazionale si superano tutte le differenze interne. L’illusione che una buona economia, le frontiere aperte, ed un livello di vita dignitoso garantiscano una indisturbata occupazione è per due volte esplosa contro Israele. Ora questa illusione è stata resuscitata. La Cisgiordania, sostengono gli israeliani - come fa Abbas - non sarà come Gaza. Ma dov’è la garanzia? La darà forse il controllo israeliano, che è stato per due volte colto impreparato dall’Intifada? O il controllo dell’Autorità Palestinese? Quella stessa Autorità Palestinese che ha perso la Striscia di Gaza?

I razzi Qassam che Hamas lancia sulle città israeliane di fatto sono indirizzati anche a Ramallah e a Nablus, e la questione che dovrebbe preoccupare molto Israele non è solo come fortificare Ashkelon e Sderot, ma anche come impedire lo scoppio di una nuova Intifada in Cisgiordania. Nel momento in cui dovesse cominciare la guerra nella Striscia di Gaza, non sarà una guerra contro Hamas; sarà vista come una guerra contro la parte più povera e oppressa del popolo palestinese, contro le donne e i bambini, una guerra che non può lasciare la Cisgiordania indifferente. L’apertura di un secondo fronte, ad est, contro Israele, allora non dovrebbe sorprendere.

Zvi Bar’el è un analista politico israeliano; scrive abitualmente su “Haaretz”
Titolo originale:
Get ready for the third Intifada

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4 marzo 2008

La "Israel lobby" italiana va in gita premio.

Il sito web del Forum Palestina ci informa che l'associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele ha eletto come suo Presidente l'On. Peppino Caldarola e come Vice Presidente il Sen. Enrico Pianetta.
Il direttivo dell'associazione è formato, oltre che dai due parlamentari sopra citati, anche dagli onorevoli Cicchitto, D'Antona, Fincato, Fiano, Forlani e dai senatori Divina, Mantovano, Ranieri, Polito, Malan oltreché - e non poteva certo mancare - da Furio Colombo.
Una bella imbarcata bipartisan che si appresta a organizzare il prossimo mese di maggio, in occasione del 60° anniversario della nascita dello Stato di Israele, una delegazione di parlamentari italiani per celebrare degnamente l'avvenimento in quel di Gerusalemme.
L'obiettivo è di portare una delegazione particolarmente nutrita, sì da rendere più forte e solenne questo evento celebrativo dell'amicizia esistente tra lo Stato e il Parlamento italiano e lo Stato e il Parlamento israeliano.
La "Israel lobby" del Parlamento italiano, dunque, si appresta ad andare in gita premio, e questo in sé non rappresenta un evento particolarmente degno di nota, data la propensione dei parlamentari italiani (e dei consiglieri regionali...) a viaggiare per il mondo con le motivazioni più disparate.
Semmai si potrebbe sottolineare il fatto che, a nostro avviso, non vi è nulla di cui andar fieri nel mantenere ed anzi nel rinsaldare l'amicizia con gli assassini e i carnefici di un intero popolo inerme.

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Mettete nel programma la fine dell'assedio a Gaza.

Ci rivolgiamo a voi, candidati nelle prossime elezioni politiche, per invitarvi a mettere all'ordine del giorno dei vostri programmi iniziative urgenti per la fine dell'assedio di Gaza, imposto da Israele, dopo averla dichiarata «entità ostile». La sua popolazione subisce da mesi una pesante punizione collettiva, in violazione della legalità internazionale e dei diritti umani di tutte e tutti.
Vi chiediamo di esprimervi contro una politica che penalizza duramente un'intera popolazione di un milione e mezzo di persone, per le azioni e decisioni di una piccola minoranza.
Vi chiediamo di agire nei confronti della Unione Europea. È tra i maggiori donatori a favore della popolazione palestinese, ma non svolge alcun ruolo politico e rimane sorda anche alle due risoluzioni del Parlamento Europeo che si esprimono nettamente per la fine dell'assedio, dichiarando fallimentare la politica finora perseguita.
Dopo otto mesi di rigide restrizioni nelle forniture di energia, elettricità, acqua, l'intera popolazione di Gaza è allo stremo. Le persone più deboli, bambini, malati, anziani, sono a rischio di sopravvivenza, dato il deterioramento dei servizi medici. L'industria privata è al collasso. La qualità dell'acqua non fa che peggiorare e ne diminuisce sempre più la quantità. Ogni giorno 40 milioni di litri di acque di scolo vengono pompate nel Mediterraneo, per il deterioramento del sistema fognario.
Ci richiamiamo alle parole del rappresentante delle Nazioni Unite, John Holmes, vicesegretario generale per gli affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza, che, dopo una visita di cinque giorni nei territori palestinesi occupati e a Gaza, ha fatto appello all'apertura dei valichi di Gaza, per l'entrata di aiuti umanitari e ripresa dell'import-export di merci. Condanniamo i lanci di razzi «Qassam» in Israele, da parte di gruppi armati di Hamas ed altre forze estremiste.
I razzi fanno vivere la popolazione di Sderot nella paura e creano un clima sempre più ostile ai palestinesi. Anch'essi sono contrari alla legalità internazionale, come i bombardamenti sulla popolazione civile palestinese e gli assassini «mirati» dell'esercito israeliano. Ma chiediamo anche a voi di considerare ciò che ci ha detto una pacifista israeliana: «i bambini di Sderot non saranno più sicuri se quelli di Gaza muoiono di fame!».
Vi chiediamo di attivarvi per un «cessate il fuoco» generalizzato e per la fine dell'assedio. La popolazione di Gaza, imprigionata, affamata e isolata dal resto del mondo, rappresenta nel modo più chiaro e estremo la tragedia palestinese, «questione morale n.1 del mondo», come dice Nelson Mandela.
Gaza è l'emblema di un popolo a cui vengono negati i diritti elementari e i diritti nazionali aumentando la loro disperazione e senso di umiliazione, non rafforzando le forze democratiche, ma quelle estremiste di entrambe le parti. Questo è anche il messaggio lanciato da Palestinesi di tutte le professioni, per una campagna internazionale per la fine dell'assedio di Gaza, sostenuta anche da molte forze israeliane.
La fine dell'assedio è condizione necessaria anche per una soluzione negoziata che porti ad una pace giusta e alla fine dell'occupazione. Vi chiediamo impegno e coerenza per il rispetto del diritto internazionale e della dignità umana, per la pace: li riteniamo obiettivi prioritari per chi si candida a governare l'Italia, e pilastri dell'agire di ogni eletto/a.
Le vostre risposte sono attese con ansia: anche da esse dipenderà una ripresa di fiducia nel valore della rappresentanza e quindi del voto di tante donne e uomini che si riconoscono in quei principi.
Primi firmatari:
Associazione per la Pace
Arci
Cgil
Donne in Nero
Fiom - CGIL
Pax Christi - campagna ponti non muri
Piattaforma ONG per il medioriente
Rete Ebrei Contro l'Occupazione
Rete Radié Resh Nazionale
Servizio Civile Internazionale
Un Ponte per..

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