30 maggio 2012

L'immagine di Israele precipita nei sondaggi


Il 2012 Country Ratings Poll, un sondaggio commissionato come ogni anno dalla BBC ed effettuato da GlobeScan/PIPA tra dicembre 2011 e febbraio di quest’anno su un campione di 24.090 intervistati, ha visto Israele classificarsi al terzo posto tra le nazioni che hanno una “influenza negativa” nel mondo (con il 50% di intervistati che hanno risposto che ha un’influenza negativa, alla pari con la Corea del Nord): peggio dello stato ebraico hanno fatto solo l’Iran (55%) e il Pakistan (51%).

E dunque la valutazione dell’opinione pubblica mondiale su Israele e sull’impatto delle sue politiche – già largamente sfavorevole nel 2011 - è ulteriormente peggiorata, dato che coloro che ritengono che questo “faro di civiltà” abbia, in realtà, un’influenza negativa sul resto del mondo sono passati dal 47% al 50% del totale degli intervistati, mentre coloro i quali ne hanno un’immagine positiva rimangono stabili al 21% del campione.

Degno di nota è anche il dato secondo cui, su 22 nazioni in cui è stato effettuato il sondaggio, ben 17 hanno fatto registrare una maggioranza di intervistati che ha un’immagine negativa di Israele, mentre solo in tre di esse il giudizio risulta positivo.

Tra gli stati occidentali, soltanto gli Usa danno qualche soddisfazione a Israele (e come potrebbe essere altrimenti?), con il 50% degli intervistati che ha una visione dello stato ebraico maggiormente positiva a fronte del 35% che ne ha un’immagine negativa. Sorprendentemente, gli altri due stati “favorevoli” ad Israele sono risultati la Nigeria (54% contro 29%) e il Kenya (45% contro 31%).

Negli stati Ue in cui il sondaggio è stato effettuato, al contrario, i risultati vedono l’immagine di Israele precipitare ai livelli più bassi degli ultimi anni, soprattutto in Spagna (74% di rating negativo, in salita di 8 punti) ed in Francia (65% di rating negativo, in salita di 9 punti). Anche in Germania e in Gran Bretagna, tuttavia, la percentuale di chi vede negativamente Israele, pur stabile, si situa a livelli davvero elevati (69% e 68% rispettivamente); da segnalare anche i dati negativi registrati in Australia (65% di rating negativo) e in Canada (59%).

Da ultimo, va segnalato come il paese in cui la popolazione è maggiormente ostile a Israele e alle sue politiche risulta essere il Giappone, dove solo il 3% degli intervistati ritiene che Israele abbia un’influenza positiva: chapeau!

Questi dati – soprattutto quelli relativi ai paesi Ue - dovrebbero far riflettere, considerato soprattutto il divario crescente tra il giudizio che l’opinione pubblica ha di Israele e l’atteggiamento di amicizia, se non talora di complicità, che i governi dei paesi Ue mantengono nei confronti di Israele, delle sue politiche, dei suoi crimini.

E’ il caso soprattutto della Germania, in cui il 48% della popolazione – secondo un altro recente sondaggio dell’istituto Infratest/Dimap – ritiene che Israele costituisca la più grande minaccia per la pace nel mondo, mentre il governo non si fa scrupolo a fornire alla marina israeliana ulteriori esemplari dei sottomarini Dolphin, capaci di lanciare missili con testate nucleari.

Sarebbe utile quindi, a mio giudizio, che il campo dell’attivismo filo-palestinese si interroghi sul perché il giudizio negativo su Israele e sulle sue politiche colonialiste e criminali, ormai largamente condiviso tra i cittadini-elettori europei, stenta a tradursi, a livello di forze politiche di governo, in coerenti atteggiamenti ed azioni di politica estera dei singoli paesi e dell’Unione europea nel suo complesso.   
   

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28 maggio 2012

Io sono Israele

 
Video di http://www.youtube.com/user/NoOneWorl...
censurato da yt con la seguente motivazione "video dal contenuto non appropriato". Siete invitati tutti quanti a scaricare e ricaricare nei vostri canali questo video.
Traduzione di "I am Israel" scritto da Hashem Said il 25 Febbraio 2002.

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22 maggio 2012

Dov'è la moralità di questi soldati?



Domenica scorsa un ragazzo palestinese di 18 anni, Salah Sghayyar, è stato ferito dai soldati israeliani nei pressi dell’insediamento colonico di Etzion, situato tra Betlemme ed Hebron. Secondo l’Idf, il giovane avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano e sarebbe rimasto ferito nella colluttazione ovvero, secondo altre fonti, sarebbe stato colpito al petto da colpi d’arma da fuoco, ma non è questo l’aspetto più tragico della vicenda.

No, l’aspetto più terribile e rivoltante dell’accaduto è che, mentre il ragazzo giaceva a terra sanguinante, incapace di muoversi, forse morente, i bravi soldati israeliani gli calpestavano le mani e si mettevano in posa per scattare qualche foto con il loro prezioso “trofeo” ormai abbattuto.

Davvero non ci sono parole per commentare questa foto, non si riesce a capire dove sia andato a finire quel briciolo di umanità che dovrebbe pur albergare in ogni uomo, anche in un soldato di un esercito di occupazione. Dov’è la moralità di questi soldati, dov’è la moralità di questo esercito in cui prestano servizio simili bestie spietate?

Definirle vili canaglie sembra persino riduttivo, e non rende bene la rabbia e l’indignazione che montano davanti a questo orrendo spettacolo.

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18 maggio 2012

Comunicato del Palestinian Centre for Human Rights nel 64° anniversario della Nakba


Il 15 maggio del 2012 si è celebrato il 64esimo anniversario della Nakba palestinese, l’anniversario dello sradicamento dalle loro terre di centinaia di migliaia di palestinesi. Si è trattato della più dura e brutale pulizia etnica mai vista al mondo, che ha incluso anche deliberati e sistematici omicidi e sfollamenti forzati. Essa è culminata con la proclamazione dello Stato di Israele sulle macerie delle città e dei villaggi palestinesi.

Nel 1948, Israele occupò vaste aree della Palestina, e le invasioni israeliane all’interno delle comunità palestinesi portarono alla cacciata di circa 700.000 palestinesi che persero ogni loro proprietà, e alla distruzione di 418 villaggi.

Dal momento in cui Israele ha assunto il controllo delle terre palestinesi, alla stragrande maggioranza dei palestinesi sfollati al di là della linea armistiziale del 1949 non è stato concesso di far ritorno alle loro case o di essere reintegrati nelle loro proprietà. Questi rifugiati palestinesi, il cui diritto al ritorno alle loro case è garantito dal diritto internazionale, vivono ancora in campi profughi nei Territori palestinesi occupati (Tpo) o in altri paesi, e il loro destino è ancora incerto.

Secondo il Dipartimento Centrale di Statistica palestinese (PCBS), alla fine del 2011, il numero dei palestinesi nel mondo era stimato pari a 11,2 milioni, comprendenti: 4,2 milioni nei Tpo, 1,37 milioni nei territori occupati nel 1948, 4,99 milioni (pari al 44,4% del numero totale dei palestinesi) nei paesi arabi, e 636.000 (il 5,7% del totale dei palestinesi) in paesi esteri. Ciò significa che il 50,1% della popolazione palestinese vive da profugo al di fuori della Palestina. Il PCBS riferisce inoltre che: “A fronte di  5,75 milioni di palestinesi che vivono nella Palestina Storica in un’area di 27.000 chilometri quadrati, gli ebrei rappresentano il 52% dei residenti ed utilizzano più dell’85% della superficie totale delle terre in Palestina. I palestinesi rappresentano il 48% dei residenti e utilizzano meno del 15% della superficie totale. Ciò porta alla conclusione che un singolo palestinese usufruisce di un quarto della superficie utilizzata da un singolo israeliano.”.

Quest’anno, l’anniversario della Nakba coincide con le continue sofferenze dei palestinesi. La situazione dei diritti umani nei Tpo continua a deteriorarsi a causa delle continue violazioni dei diritti umani da parte di Israele, e dei crimini di guerra israeliani commessi contro i palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Sin dalla sua creazione e attraverso l’occupazione del resto dei territori palestinesi dal 1967 ad oggi, Israele ha continuato ad adottare una politica volta a impadronirsi di sempre più terre e proprietà palestinesi. Israele ha intensificato le attività di colonizzazione in Cisgiordania e crea “nuovi fatti sul terreno” mediante la creazione di decine di insediamenti, svuotando la terra della popolazione indigena, confiscando ancora altre proprietà, costruendo il muro di annessione su terra palestinese in Cisgiordania, etc. Israele, inoltre, continua a creare una maggioranza ebraica nei Tpo.

Israele continua anche ad adottare politiche di uccisioni, arresti arbitrari, irruzioni nelle abitazioni, distruzione di proprietà e attrezzature civili, restrizioni al diritto di libera circolazione attraverso più di 500 posti di blocco militari eretti agli ingressi delle città e villaggi palestinesi, e di altre violazioni. Nella Striscia di Gaza, nonostante il piano di disimpegno unilaterale del 2005, i fatti dimostrano che Israele occupa ancora la Striscia di Gaza e continua a controllare i valichi di frontiera con Gaza. Israele continua anche a prendere di mira i palestinesi di Gaza, commettendo varie violazioni ai danni della popolazione civile.

Ci sono circa 5.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Questi prigionieri continuano a sopportare sofferenze a causa delle crudeli condizioni di detenzione e delle ingiuste politiche adottate dalle autorità carcerarie israeliane, in violazione del diritto internazionale. Queste politiche includono la detenzione in isolamento, il diniego delle visite familiari, la detenzione amministrativa, e altre misure illegali e degradanti.

Dall’altro lato, i palestinesi continuano a soffrire a causa della scissione in atto. Gli ultimi cinque anni hanno visto diffuse violazioni dei diritti umani e gravi attacchi a diverse libertà, per lo più dovuti alla spaccatura in atto nella struttura politica palestinese e nelle autorità legislative, esecutive e giudiziarie.

Se l’attuale situazione interna rimarrà invariata, essa influenzerà fortemente la causa palestinese. Poiché abbiamo sperimentato molte minacce alla nostra esistenza e ai nostri diritti, principalmente al diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato palestinese, è preferibile per noi come palestinesi essere uniti al fine di continuare la legittima lotta per il ripristino dei diritti che ci sono stati sottratti.

Il Palestinian Centre for Human Rights ribadisce che i palestinesi, come singoli e collettivamente, hanno il diritto di ritornare nelle loro terre da cui sono stati sfollati nel 1948. e rileva che esistono decine di risoluzioni emanate da svariati organismi internazionali che garantiscono questo diritto, e chiede un risarcimento per questi profughi. Il diritto al ritorno è un diritto inalienabile che resta applicabile in ogni tempo. Il PCHR sottolinea inoltre che Israele deve essere ritenuto responsabile per le violazioni e i crimini internazionali che commette ai danni dei palestinesi e delle loro proprietà.

Il PCHR invita:

1) La comunità internazionale e le Alte Parti Contraenti della IV Convenzione di Ginevra ad adempiere ai loro obblighi giuridici e morali, ad applicare le norme del diritto internazionale, e a porre una giusta fine alle sofferenze del popolo palestinese.

2) I movimenti di Hamas e Fatah a porre fine alla scissione interna in atto, a raggiungere una riconciliazione, e a dare priorità agli interessi generali rispetto alle considerazioni di fazione, al fine di conseguire gli obiettivi nazionali, in primo luogo la fine dell’occupazione.

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16 maggio 2012

Nakba 2012

 
Per ricordare anche quest'anno la ricorrenza della Nakba, ho scelto questo bel video - creato da Sonja Karkar per Australian for Palestine - che mostra immagini e scene di vita familiare e sociale della Palestina pre-1948, prima dell'espulsione di massa di oltre 750.000 palestinesi dalle loro case, dalle loro terre, città, villaggi, una pulizia etnica ben pianificata e posta in essere da cui è nato e che costituisce il peccato originale dello Stato di Israele.

Si tratta di una delle più colossali ingiustizie della storia, a cui ancora oggi non si riesce a porre rimedio attraverso il riconoscimento fattivo di quel diritto al ritorno che pure è scolpito (vanamente pare) nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. E di una pulizia etnica che, in maniera lenta ma ininterrotta, continua ancora ai giorni nostri.

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9 maggio 2012

Ebrei, tenete le vostre figlie lontane dagli arabi!



















Lehava, l’organizzazione estremista ebraica per la prevenzione dell’assimilazione in Terra Santa, è venuta fuori con una nuova trovata pubblicitaria che sta creando un acceso dibattito sul tema dei matrimoni misti tra ebrei e arabi.

Con un volantino fatto in modo da sembrare un immaginario invito per le nozze tra Michal e il suo promesso sposo Mohammad, distribuito per le strade di Gerusalemme, l’organizzazione cerca di dimostrare la terribile disgrazia che potrebbe capitare a ciascun ebreo se non è in grado di sorvegliare adeguatamente le proprie figlie.

Il finto “invito” chiede di unirsi a Michal e a Mohammad per celebrare il loro matrimonio un venerdì sera alla Shahid events hall di Ramallah. Accanto all’invito, il volantino recita: “Se non vuoi che l’invito di nozze di tua figlia assomigli a questo allora … Non lasciare che lavori con gli arabi o faccia il servizio nazionale con dei non-ebrei, non lasciare che lavori in un posto dove vengono impiegati nemici e non portare a casa lavoratori migranti…”.

Lo scopo dell’organizzazione è quello di “salvare le figlie di Israele che sono state attratte in una relazione romantica con un non-ebreo”.

Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta. Se risulta disdicevole persino affittare una casa ad un arabo, figuriamoci se si può permettere che le giovani ebree cadano vittime delle “trappole sentimentali” ordite da arabi assatanati e che finiscano a letto con il nemico o, peggio, invischiate in un imbarazzante matrimonio misto.

Dopo tutto, in uno stato che si autodefinisce ebraico, la prima cosa da assicurare è la purezza della razza…

(fonte: ynet)

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7 maggio 2012

Respinto il ricorso di due palestinesi in sciopero della fame


La Corte Suprema israeliana ha respinto il ricorso di due prigionieri palestinesi attualmente in sciopero della fame come segno di protesta per la loro detenzione non basata su alcuna accusa.

I due, il 27enne Bilal Diab e il 34enne Thaer Halahleh, in sciopero della fame da 70 giorni, sono tra le centinaia di prigionieri palestinesi che attualmente utilizzano questo mezzo estremo di protesta per chiedere migliori condizioni e la fine della detenzione senza processo in una delle più grandi manifestazioni di protesta di prigionieri degli ultimi anni.

Secondo quanto riferito da Jamil Khatib, il loro avvocato, all’agenzia di stampa AFP, “la Corte Suprema ha respinto entrambi i ricorsi”, aggiungendo che “i tribunali israeliani non trattano la questione della detenzione amministrativa in senso positivo. Ciò dimostra che i servizi segreti hanno l’ultima parola”.

(I due) “continueranno il loro sciopero della fame fino alla fine”, ha concluso.

Intanto dieci prigionieri palestinesi che partecipano allo sciopero della fame di massa sabato sono stati posti sotto controllo medico a seguito del peggioramento delle loro condizioni, secondo quanto comunicato da un portavoce del servizio carcerario israeliano.

I detenuti palestinesi che partecipano allo sciopero della fame sono almeno 1.550, anche se secondo gli attivisti questo numero è pari ad almeno 2.500 su un totale di 4.600 palestinesi in atto detenuti nelle carceri israeliane. La maggior parte dei partecipanti allo sciopero hanno iniziato a rifiutare il cibo 19 giorni fa, ma un nucleo più ristretto è in sciopero della fame ormai da un periodo di tempo che va dai 40 ai 70 giorni.

Diab, la settimana scorsa, è stato trasferito in un ospedale civile. Un team medico indipendente di Physicians for Human Rights-Israel ha affermato che era in imminente pericolo di morte. Secondo i medici di PHR, sia Diab che Halahleh sono comunque in pericolo in quanto il loro battito cardiaco è sceso al di sotto di 48 e la temperatura corporea a 35 gradi; entrambi inoltre soffrono di forti dolori allo stomaco e di ripetuti svenimenti per lunghi periodi, con Halahleh che ha difficoltà nel muoversi e nel parlare.

Halahleh era stato arrestato il 28 giugno del 2010, e da allora si trova incarcerato in regime di detenzione amministrativa, mentre Diab è detenuto dal 17 agosto dello scorso anno. A entrambi, similmente a quanto accaduto per Hana Shalabi, Israele ha offerto il rilascio e la deportazione a Gaza in cambio della cessazione dello sciopero della fame, in quella che costituirebbe una ulteriore violazione dei loro diritti fondamentali.

Mentre il mondo continua imperterrito a consentire che Israele utilizzi questa autentica barbarie giuridica che è la detenzione amministrativa, che consente la detenzione dei palestinesi – per periodi di 6 mesi prorogabili indefinitamente – sulla base di semplici segnalazioni dei servizi segreti e in violazione dei principi basilari di difesa che spettano a qualsiasi imputato

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2 maggio 2012

La luce scomparsa


L’offensiva contro la Striscia di Gaza denominata “Piombo Fuso” – scatenata da Israele a cavallo tra il 2008 e il 2009 – è stata senza alcun dubbio la più violenta, brutale e sanguinosa operazione militare contro la popolazione civile palestinese dall’inizio dell’occupazione ad oggi.

Con una serie di raid aerei e, successivamente, con operazioni di terra, e a mezzo dell’utilizzo di ogni possibile armamento e mezzo di distruzione – dalle bombe da una tonnellata al fosforo bianco, dai proiettili DIME alle granate a flechettes – Israele ha massacrato ben 1.419 palestinesi, l’82,2% dei quali civili non combattenti e, tra essi, 111 donne e 318 bambini.

Altissimo anche il numero dei feriti, oltre 5.300, tra cui circa 830 donne e 1.600 bambini; molti dei feriti, ancora oggi, risentono delle conseguenze dei bombardamenti indiscriminati e dei crimini inusitati commessi dall’esercito israeliano.

Questa è la storia di uno di essi.

La luce di Musleh si è spenta lentamente, e per riaccenderla lui ha chiamato Nour (luce) la seconda figliola che non ha mai visto. Musleh Abu Sweireh, 26 anni, studente islamico, è una delle vittime silenti d’Israele. Del suo uso criminale della forza, delle bombe al fosforo bianco sganciate sulla popolazione di Gaza dall’Israel Air Force durante l’operazione “Piombo fuso”. 

Cinque gennaio 2009: Israele sta bombardando la Striscia da dieci giorni, Mushah è tappato in casa con la famiglia. Ricorda “Sapevamo che erano già morte centinaia di persone, stavamo rinchiusi, sperando e pregando di non essere colpiti. Vivevamo una condizione d’impotenza, un sentimento di tristezza e rabbia”. “La tristezza dei miei concittadini sta tuttora nell’impossibilità di una vita normale: poter coltivare la terra, pescare, crescere i figli con le nostre risorse. Il sopruso che subiamo da quell’occupazione subdola basata su isolamento ed embargo, sull’impossibilità di muoverci, di usare il nostro mare, sul fatto di non avere più l’aeroporto, di vedere bloccati alle frontiere per ordine di Israele gli aiuti internazionali. Sentirsi in ogni momento un costante obiettivo è insopportabile”. E’ la realtà che nessun rapporto Goldstone ha lenito.

L’ultima cosa che Musleh ha visto chiaramente è stato il bagliore che seguiva la terribile esplosione d’un missile caduto a pochi metri da casa. Lui e la sorella Nahla erano vicino a una porta che saltò in aria, furono investiti e feriti da schegge di tutto quello che si disintegrava. Quindi dai micidiali fumi che non cessavano. Li respirarono per ore perché l’abitazione non aveva più protezioni: vetri in frantumi, porte e finestre divelte. La famiglia di Musleh era prigioniera in quella casa come centinaia di migliaia di gazesi scampati alle bombe, non si poteva far altro che stare lì perché gli F16 sfrecciavano e sganciavano. 

Poi di notte, quando gli aerei non volavano, fuggirono tutti a casa di uno zio. Gli occhi bruciavano e non si potevano lavare, non c’era acqua perché l’aviazione aveva distrutto le grandi condutture e bombardato molti pozzi. Nelle pupille di Musleh la nebbia cresceva, il calore aumentava, le figure dei parenti diventavano sfocate e opache “Capivo che era accaduto qualcosa di grave, ero stordito ma riuscivo appena ad appisolarmi. Gli occhi erano un fuoco, però temevo potesse succedere di peggio. Temevo di morire, come accadde il giorno dopo a chi stava nella scuola dell’Unrwa. Quindi, credo fossero trascorsi otto o nove giorni dall’esplosione, scomparve ogni cosa: laylah”.

“Chi ha spento la candela? Nessuno Musleh, mi ripetevano, è mattino e c’è il sole anche se i caccia volano ancora”. Musleh non vedeva, non vedeva più i parenti, il tavolo e ogni cosa attorno. Tutto scomparso. Sentiva. Ancora stridore, gemiti, preghiere. E deflagrazioni. Il 18 gennaio cessarono gli spari. Lui ci mise ancora qualche giorno prima di uscire di casa, bloccato dalla mestizia e dalla cecità. Quando potè essere visitato dai medici della Mezzaluna Rossa le condizioni apparvero in tutta la  gravità, ma non dissimili da centinaia di bambini e adulti che avevano respirato i fumi venefici. Era uno dei cinquemilatrecento feriti di quella guerra combattuta a senso unico. 

Quando, già nelle settimane seguenti la fine dell’attacco, osservatori Onu poterono entrare nella Striscia, su ordigni inesplosi, reperti di terra e macerie c’era la prova di quello che Tel Aviv negava: l’uso del fosforo bianco nelle bombe dei propri soldati. Intanto Musleh restava lì accecato. Come ogni abitante di Gaza era impossibilitato a muoversi, anche per i feriti gravi c’era bisogno d’un visto israeliano che non arrivava. Oltre cento persone morirono per il ritardo delle cure, le vittime di Gaza nelle settimane successive al 18 gennaio 2009 salirono fino a 1.450.

Musleh ha potuto avviare il suo protocollo di cure nel giugno 2011. Intanto si era sposato con Amani e avevano avuto la prima figlia Nahla, che oggi ha due anni. Ricorda ancora “Quando partii per Creta la seconda bambina doveva ancora nascere. Ora ha otto mesi. Con mia moglie abbiamo deciso di chiamarla Nour come buon auspicio per l’operazione che avrei dovuto affrontare. I sanitari di Creta mi dissero che il mio caso era molto complesso e mi consigliarono l’Italia”. “Sono stati i medici ellenici a indicarci la struttura di Roma” afferma Mohammad Abu Omar, membro dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese che traduce in simultanea l’arabo di Musleh e lo sostiene nel soggiorno dal settembre scorso. Gli altri organismi sono la Mezzaluna Rossa Italia coordinata da Yousef Salman e Patrizia Cecconi, e per l’accoglienza la Casa del Sole, creata dai dottori Sergio Longo e Bianca Maria Palleschi presso l’Ospedale San Camillo. “E’ grazie a questa diffusa rete di solidarietà che Musleh ha potuto iniziare le cure – prosegue Abu Omar – l’Ospedale Forlanini-San Camillo fornisce un’eccellente unità che ha seguito il suo caso con competenza e dedizione. In autunno è stato sottoposto alla prima operazione dal dottor Colliardo, per ogni occhio ne serviranno quattro, l’intervento si chiama odontocheratoprotesi. La degenza sarà lunga, abbiamo dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per altri sei mesi e sicuramente non basterà”.

Pur accettando con pazienza e fede il crudele destino Musleh non cessa di sperare. Per la sua gente che non tornino massacri come quelli che ha conosciuto “Il pericolo è reale perché noi resistiamo, è questo che non ci perdonano. Israele non comprende che finché occuperà la nostra terra la pace resterà lontana”. Poi sorride e parla dei progetti “Tornare agli studi islamici e vedere moglie e figlie. Se le operazioni andranno per il meglio i dottori mi faranno questo grande regalo, potrò scoprire i volti delle mie bambine e rivedere il mare davanti casa che da quattro anni sto solo sognando”. 

Enrico Campofreda, 28 aprile 2012

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