16 gennaio 2013

Lettera aperta al Presidente Obama: gli aiuti americani a Israele non devono essere utilizzati per violare i diritti dei palestinesi



Caro Presidente Obama,

Siamo americani di piccole e grandi città, e siamo palestinesi e israeliani di un mondo lontano. Siamo le donne, gli uomini e i bambini che ogni giorno soffrono a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, e siamo la gente di tutto il mondo che cerca di porre fine a questa sofferenza. Siamo le madri dei soldati e i figli dei refusenik. Siamo ebrei e musulmani, cristiani e atei, e persone appartenenti alle molte altre tradizioni del mondo.

E siamo tutti uniti dalla nostra determinazione a vedere una pace veramente giusta mettere radici in Israele e in Palestina. Questo obiettivo è diventato ancora più irraggiungibile durante il suo primo mandato, ma gli elettori americani le hanno appena dato una seconda opportunità per fare la storia.

La nostra richiesta è semplice.

Quindici leader religiosi hanno parlato chiaro con coraggio in una lettera al Congresso – affermando un principio che dovrebbe essere ovvio: Israele, il più grande beneficiario di lungo periodo degli aiuti americani, non dovrebbe essere al di sopra del diritto. La preghiamo, signor Presidente, di condizionare gli aiuti americani a Israele al rispetto del diritto degli Stati Uniti e di quello internazionale. Essi non devono essere usati per violare i diritti dei palestinesi.     

Qualsiasi cosa in meno è un pericolo per i palestinesi, per gli israeliani, per gli americani e per il mondo intero.

ObamaLetter.org è stata organizzata da Jewish Voice for Peace.
Co-sponsor: American Muslims for Palestine, Americans United for Palestinian Human Rights, Arab Jewish Partnership for Peace & Justice in the Middle East, The Austin Interfaith Community for Palestinian Rights, Badayl-Alternatives, Baptist Peace Fellowship of North America, Citizens for Justice in the Middle East--Kansas City, Coalition for Peace with Justice (North Carolina), Coalition to Stop $30 Billion to Israel, Community of Sant' Egidio/San Francisco, European Jews for a Just Peace, Friends of Palestine-Wisconsin, Friends of Sabeel North America, Grassroots International, Interdenominational Advocates for Peace Ann Arbor, Interfaith Peace-Builders, Jewish Voice for a Just Peace Switzerland, Jews for Justice for Palestinians (UK), Just Foreign Policy, Justice First Foundation, Kairos USA, Lutherans for Justice in the Holy Land Central Lutheran (Portland, OR), Michigan Stop the Nuclear Bombs Campaign, Middle East Task Force of Chicago Presbytery, Palestine Israel Network of the Episcopal Peace Fellowship, Political Approaches to Coexistence, Presbyterian Peace Fellowship, Unitarian Universalists for Justice in the Middle East, United Methodists' Holy Land Task Force, US Campaign to End the Israeli Occupation, US Peace Council, Upper Hudson Peace Action, Working Group Middle East of the Metropolitan Chicago Synod of the ELCA, Washington Interfaith Alliance for Middle East Peace. To add your group, email liz@jvp.org

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8 novembre 2011

"Non lo posso sopportare". "Figurati io!"

Gustoso "fuorionda" durante una conversazione tra il Presidente francese Nicolas Sarkozy e quello Usa Barack Obama.

La scorsa settimana, a margine del summit del G20 a Cannes, i due sono rimasti a colloquio pensando di parlare riservatamente, ma per un errore tecnico i loro discorsi sono stati ascoltati da alcuni giornalisti, e riportati ieri dal sito web francese Arret sur images.

Parlando di un capo di governo, Sarkozy dapprima lo ha definito un "bugiardo" e poi ha affermato "non posso sopportarlo", al che Obama avrebbe replicato "tu non ne puoi più di lui, ma io devo averci a che fare ogni giorno"!

Al che uno si sarebbe aspettato che stessero parlando di Silvio Berlusconi, ma - sorpresa - i due Presidenti stavano invece discutendo del capo del governo israeliano Bibi Netanyahu.

Ma mentre la scarsa considerazione del Presidente del Consiglio italiano ha portato il nostro Paese ad una sorta di commissariamento di fatto in campo economico, la scarsa considerazione che di Netanyahu hanno Obama e Sarkozy, ma molto probabilmente anche vari altri capi di stato occidentali, non sembra avere alcuna conseguenza per Israele, che può tranquillamente espandere i propri sobborghi colonici a Gerusalemme o trattenere illegalmente le entrate fiscali dell'Anp nonostante l'avviso contrario della Germania e degli Usa.

Ma è mai possibile che nessuno riesca a ricondurre alla ragione e al rispetto della legalità i piromani israeliani, che con le loro azioni scriteriate - poste in essere o ancora solo minacciate (vedi guerra all'Iran) - rischiano di incendiare il medio oriente e di portare il mondo intero sull'orlo dell'abisso?

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2 agosto 2011

Non esiste crisi finanziaria che possa determinare la riduzione degli aiuti Usa a Israele

Da poche ore è giunta la notizia tanto attesa dai mercati di tutto il mondo: l’incubo default degli Stati Uniti è svanito, grazie all’accordo raggiunto in extremis tra democratici e repubblicani che prevede un innalzamento del tetto massimo dell’indebitamento pubblico accompagnato da un parallelo taglio dello spesa.


Più in dettaglio, il rialzo del tetto del debito da parte del Congresso avverrà in due tempi. In una prima fase, immediata, si avrà una prima tranche di aumento di 900 miliardi di dollari, accompagnata da tagli di spese pubbliche pari a 917 miliardi.


La seconda tranche di aumento del tetto del debito, tra i 1.100 e i 1.500 miliardi, è condizionata a nuovi tagli di spese per un ammontare equivalente, che verranno definiti da una commissione paritetica nominata dai quattro leader democratici e repubblicani di Camera e Senato.


Ma neanche la grave crisi finanziaria e la necessità di effettuare consistenti tagli di bilancio valgono a mettere in dubbio gli aiuti finanziari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono generosamente allo stato ebraico, destinati a rimanere invariati anche per il 2012 al fine di “assicurare che il nostro alleato Israele mantenga il suo vantaggio militare qualitativo”, secondo quanto dichiarato dalla repubblicana Nita Lowey.


E infatti, in una dichiarazione congiunta, il repubblicano Hal Rogers, Presidente della Commissione Stanziamenti della Camera dei Rappresentanti, e la sua collega di partito Kay Granger, Presidente della sotto-Commissione per le operazioni estere, hanno garantito che i 3,075 miliardi di dollari di aiuti ad Israele previsti per il prossimo anno resteranno intatti, secondo quanto previsto dallo State and Foreign Operations Act 2012.


Va ricordato che l’ex Presidente Usa George W. Bush aveva concordato con l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert un pacchetto di aiuti da 30 miliardi di dollari spalmati su 10 anni, a partire dal 2007, e l’attuale Presidente Barack Obama sembra voler onorare fino in fondo questo impegno, nonostante la grave crisi economica e finanziaria che attanaglia gli Usa.


Cambiano i Presidenti, dunque, ma per l’alleato israeliano si ha sempre un occhio di riguardo, e persino per Obama è più facile tagliare i fondi per il Medicare piuttosto che quelli che servono a garantire ad Israele il suo “vantaggio qualitativo” in campo militare.


Anche se l’unica attività a cui attualmente si dedica l’esercito israeliano è l’assassinio dei giovani palestinesi e il rapimento e i maltrattamenti dei bambini.

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10 novembre 2010

Gli Usa riarmano Israele: è questa la strada verso la pace?

L’aviazione israeliana di recente ha notevolmente aumentato la propria capacità di effettuare bombardamenti di precisione grazie alla fornitura del primo lotto di GBU-39 Small Diameter Bombs (bombe di piccolo diametro – SDB) provenienti dagli Stati Uniti.

La GBU-39 è una bomba di 250 libbre (113,6 kg.) sviluppata dalla Boeing Company come arma a basso costo che consente attacchi di alta precisione e con un basso livello di danni collaterali. Il Congresso Usa, alla fine del 2008, aveva autorizzato Israele ad acquistare mille unità di questo tipo di bomba, ed è interessante osservare come sia stato Israele, ancora una volta, il primo paese al di fuori degli Stati Uniti a ricevere la nuova arma.

La GBU-39, a guida GPS, è ritenuta una delle bombe di maggior precisione al mondo. Ha la stessa capacità di penetrazione di una normale bomba di 900 kg. (i test condotti dimostrano che può penetrare almeno 90 cm. di cemento armato), sebbene porti con sé solo 22,7 kg. di esplosivo: le sue piccole dimensioni (1,75 m. di lunghezza) aumentano inoltre il numero di bombe che ciascun aereo può trasportare e, conseguentemente, il numero di obiettivi attaccabili in un solo raid.

I primi aerei dell’aviazione israeliana a ricevere la nuova arma saranno gli F-15 che, potendo trasportare fino a 20 bombe sulle ali e sulla fusoliera, diventeranno quella che viene già definita come una “macchina per uccidere”.

L’amministrazione Obama, fin dall’inizio e ancora adesso, si è proposta come mediatrice per raggiungere finalmente un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, eppure ancora una volta non si può che rilevare una profonda discrepanza tra le intenzioni e le belle parole, da una parte, e i fatti concreti dall’altra.

A fronte dell’annunciato, ennesimo piano israeliano per costruire 1.300 nuove abitazioni a Gerusalemme est, Obama non ha saputo far altro che dichiarare che questo nuovo impulso alla colonizzazione “non aiuta” gli sforzi di pace: un po’ poco per la verità.

Di contro, il governo americano non esita a fornire ad Israele nuove armi di precisione che non servono certo alla difesa del territorio israeliano, perché nessuno ha l’intenzione e/o la capacità di attaccare Israele, ma che vanno a incrementare il poderoso arsenale di cui Israele ha già dato prova di saper fare buon uso per massacrare civili inermi ed innocenti in Libano e, più di recente, nella Striscia di Gaza.

Il Presidente Obama avrà ora ancor più difficoltà ad accreditare il suo paese nel mondo arabo come “honest broker” di un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, ma dovrebbe anche spiegare a tutti noi se davvero è questa la strada verso la pace in medio oriente, e nel mondo intero.

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10 febbraio 2010

Obama, fai qualcosa per Gaza!

Come abbiamo visto, la risoluzione del conflitto israelo-palestinese non sembra costituire più una priorità per la politica estera americana, e l’amministrazione Obama sembra essere totalmente indifferente alla disastrosa situazione umanitaria nella Striscia di Gaza ed alle miserevoli condizioni di vita di un milione e mezzo di Palestinesi che ivi risiedono (senza peraltro nemmeno potersene andare…).

A distanza di oltre un anno dal termine di “Piombo Fuso”, l’operazione militare israeliana che ha provocato la morte di oltre 1.400 Palestinesi (l’83% dei quali civili innocenti) ed ha causato enormi devastazioni, viene ancora negato l’ingresso a Gaza delle attrezzature e dei materiali necessari alla ricostruzione, e persino i beni di prima necessità vengono centellinati da Israele secondo criteri arbitrari e poco trasparenti: un caso unico al mondo, consentito soltanto dalla colpevole acquiescenza della comunità internazionale.

Eppure anche i Palestinesi di Gaza, come ogni essere umano, sono titolari dei diritti umani fondamentali quali quelli ad una sufficiente e sana alimentazione, alla sicurezza, alla salute, all’educazione e alla libertà di movimento, diritti e bisogni che sono protetti da norme e convenzioni internazionali e che non possono essere ostaggio di considerazioni di natura politica e militare.

Israele giustifica infatti il suo assedio, in maniera esplicita, con il fine dell’indebolimento della leadership di Hamas, della cessazione del lancio di razzi contro il proprio territorio e del rilascio del caporale Gilad Shalit. E, tuttavia, la politica di chiusura attuata da Israele – oltre ad essere palesemente contraria al diritto umanitario – ha ottenuto l’effetto diametralmente opposto, rafforzando Hamas e acuendo le tensioni già presenti nell’area e in tutto il medio oriente.

Nessuna trattativa di pace tra Israeliani e Palestinesi potrà mai iniziare se prima non verrà tolto l’assedio alla Striscia di Gaza e non verrà risolta la gravissima crisi umanitaria che affligge i suoi residenti.

Il problema è che, oggi, il campo della pace in Israele è totalmente sguarnito, se si eccettuano pochi coraggiosi attivisti; non vi sono più attentati, i razzetti provenienti da Gaza sono poco più pericolosi dei fuochi d’artificio illegali, l’economia israeliana tira e nessuno sembra interessato più di tanto ad arrivare ad un accordo di pace con i Palestinesi: è triste constatarlo, ma i tempi in cui a Tel Aviv scendevano in piazza centomila persone per manifestare per la pace erano i tempi in cui gli Israeliani morivano a causa degli attentati terroristici…

E’ per questo che la comunità internazionale deve prendere l’iniziativa per spingere Israele ad iniziare finalmente un serio percorso di pace, iniziando dalla fine dell’assedio alla Striscia di Gaza. Sono in gioco i principi fondamentali del diritto umanitario, la convivenza civile, la pace tra i popoli, i nostri stessi valori morali.

Non è più accettabile assistere inerti alla quotidiana violazione dei diritti umani fondamentali di un milione e mezzo di nostri fratelli, non è più accettabile che l’unico Stato ad alzare la voce per difendere gli abitanti di Gaza sia l’Iran di Ahmadinejad, ed è davvero incredibile e nefasto per la stessa sicurezza delle nazioni occidentali che si consenta ad al-Qaeda di strumentalizzare la causa palestinese, regalandole un’arma a buon mercato per mobilitare migliaia di adepti per i suoi fini destabilizzatori.

Per questo ed altri argomenti, sette ong per la tutela dei diritti umani e la pace in medio oriente il 4 febbraio hanno scritto una lettera aperta al Presidente Usa Obama, chiedendogli di adoperarsi per spingere Israele a togliere l’embargo alla Striscia di Gaza, rimuovendo in tal modo il più serio ostacolo alla pace e alla speranza nella regione.

Febbraio 4, 2010

Al Presidente Barack Obama
Casa Bianca
Washington , DC

Egregio Sig. Presidente,

Siamo sette organizzazioni che sostengono con forza il suo impegno per una soluzione a due Stati per la pace tra Israele e Palestina che garantirà la sicurezza di Israele, la vittoria dell’autodeterminazione palestinese e la salvaguardia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Mentre la sua amministrazione lavora per avviare un processo politico per raggiungere questo obiettivo, noi riecheggiamo il recente appello dei cinquantaquattro Membri del Congresso che hanno sottoscritto la lettera di McDermott-Ellison, chiedendo che gli Stati Uniti affrontino anche adesso, con urgenza, la grave crisi umanitaria che colpisce 1,4 milioni di abitanti di Gaza.

Noi richiamiamo le sue parole nel gennaio del 2009, dopo la devastante guerra a Gaza: “Sono profondamente preoccupato per … le notevoli sofferenze e i bisogni umanitari a Gaza. I nostri cuori si rivolgono ai civili palestinesi che hanno bisogno immediato di cibo, acqua pulita e cure mediche di base, e che hanno dovuto affrontare per troppo tempo una povertà soffocante”. E tuttavia, oggi, a causa della politica israeliana di limitare rigidamente il passaggio dei beni essenziali e dei materiali attraverso i suoi valichi, a Gaza la sofferenza continua.

Noi riteniamo che tale politica è strategicamente sbagliata, danneggia la sicurezza di Israele ed esige un pedaggio inaccettabile dai Palestinesi innocenti. Essa offende i valori umanitari dell’America e costituisce una punizione collettiva che viola il diritto internazionale.

La politica di chiusura israeliana è legata alla più vasta questione di una pace globale che richiederebbe la riconciliazione tra i Palestinesi ed il ricongiungimento della Cisgiordania e di Gaza. Ma, data la disastrosa situazione di Gaza e la probabilità che la pace non verrà raggiunta rapidamente, la crisi umanitaria deve essere affrontata con urgenza.

Siamo consapevoli che Israele ricollega il suo embargo al raggiungimento di un cessate-il-fuoco e al rilascio di Gilad Shalit, che l’Egitto ha perseguito con Hamas. Non di meno, noi raccomandiamo che, pur sostenendo questi sforzi, gli Stati Uniti si oppongano a che vengano tenuti in ostaggio di tali obiettivi i diritti degli abitanti di Gaza al cibo, all’alloggio, all’assistenza sanitaria, all’istruzione ed alla libertà di movimento. La crisi nella Striscia di Gaza diventerà ancor più terribile se l’Egitto completerà il suo piano di chiudere i tunnel che passano sotto il suo confine con Gaza, e che costituiscono adesso per gli abitanti di Gaza una vera e propria ancora di salvezza.

Le politiche di embargo israeliane, lungi dall’indebolirla come Israele aveva sperato, hanno aiutato Hamas a rafforzare la sua stretta autoritaria su Gaza e sulla sua economia. Benché molti nella Striscia di Gaza non siano contenti di Hamas, non vi è alcun segno che i suoi abitanti rovesceranno Hamas per porre termine alle loro sofferenze. Al contrario, la loro rabbia è diretta contro Israele, gli Stati Uniti e la comunità internazionale. I seguenti dati illustrano l’orribile tributo richiesto dalla politica di embargo israeliana.

- Il 70% dei residenti di Gaza sopravvive con un dollaro al giorno, il 40% dei lavoratori sono disoccupati.

- 850 camion al giorno entravano da Israele con cibo, merci e carburante prima della chiusura, oggi sono 128.

- L’embargo e la guerra hanno praticamente bloccato l’industria manifatturiera e la maggior parte delle esportazioni agricole. Prima del 2007, 70 camion al giorno trasportavano i prodotti di Gaza da esportare verso Israele, la Cisgiordania e i mercati esteri, per un valore di 330 milioni di dollari, ovvero il 10,8% del Pil della Striscia di Gaza.

- L’11% dei bambini di Gaza sono malnutriti, fino al punto dell’arresto della crescita, a causa della povertà e delle inadeguate importazioni di prodotti alimentari. La mortalità infantile non è più in declino.

- 281 delle 641 scuole sono state danneggiate e 18 distrutte durante la guerra. A causa dell’embargo, poche sono state ricostruite, e migliaia di studenti sono privi di libri e di attrezzature. Ogni giorno vi sono 8 ore di mancanza di corrente.

- La guerra e il rifiuto di Israele di autorizzare l’importazione di cemento e dei materiali per ricostruire 20.000 case distrutte o danneggiate hanno costretto molte migliaia di abitanti di Gaza a vivere in tende, strutture provvisorie, o con altre famiglie.

- Molti impianti idrici e di depurazione danneggiati dalla guerra o deteriorati costituiscono gravi pericoli sanitari ed ambientali, a causa della mancanza di forniture per la ricostruzione e di equipaggiamento.

- La guerra ha danneggiato 15 dei 27 ospedali e 43 delle 110 cliniche. L’importazione di medicinali e di attrezzature mediche ritarda. I medici non possono recarsi all’estero per la formazione, e i pazienti devono affrontare lunghi ritardi per farsi visitare negli ospedali israeliani, 28 di essi sono morti durante l’attesa.

- La circolazione delle persone da e verso Gaza, inclusi gli studenti, il personale medico e delle organizzazioni umanitarie, i giornalisti e i familiari, è fortemente limitata.

Per quanto riguarda i presunti vantaggi per la sicurezza derivanti dalla politica israeliana di embargo, è vero l’esatto contrario. Come lei ha sostenuto nel suo discorso al Cairo, “mentre devasta le famiglie palestinesi, la crisi umanitaria di Gaza non serve alla sicurezza di Israele”. Negli ultimi mesi, sono ripresi sporadici lanci di razzi verso il sud di Israele. Un’intera generazione di giovani disoccupati di Gaza – il 70% degli abitanti di Gaza sono sotto i 30 anni – priva di ogni speranza per il futuro, è matura per una ulteriore radicalizzazione e la violenza. Già adesso, estremisti in stile al-Qaeda stanno sfidando Hamas, e al-Qaeda sta in effetti sfruttando la penosa situazione dei Palestinesi di Gaza in tutto il mondo arabo e islamico. La prospettiva di una rinnovata, maggiore violenza è reale.

Noi crediamo che la triste situazione umanitaria a Gaza causata dall’embargo sia intollerabile a livello umano e costituisca una minaccia per gli interessi della sicurezza nazionale americana. La percezione del supporto o della acquiescenza degli Stati Uniti all’embargo mette in dubbio la nostra reputazione quali difensori dei valori umanitari. L’embargo priva 1,4 milioni di Palestinesi di un decente, minimo standard di benessere. Esso limita l’utilizzo dei 300 milioni di dollari che gli Stati Uniti hanno impegnato per ricostruire Gaza, e costituisce un serio ostacolo per ridare la speranza e raggiungere la pace. Noi esortiamo, pertanto, la sua amministrazione ad usare il rapporto unico che l’America ha nei confronti di Israele al fine di convincerlo a revocare subito la chiusura dei suoi valichi di frontiera con Gaza.

Distinti saluti,

Philip C. Wilcox, Jr.
Presidente, Foundation for Middle East Peace
1761 N Street NW, Washington, DC 20036

Debra DeLee
Presidente e CEO, Americans for Peace Now
1101 14th Street NW, Sixth Floor, Washington, DC 20005

Dr. James Zogby
Presidente e Fondatore, Arab American Institute
1600 K Street, Suite 601, Washington, DC 20006

Jeremy Ben Ami
Direttore esecutivo, J Street
1828 L Street NW, Suite 240, Washington, DC 20036

Warren Clark
Direttore esecutivo, Churches for Middle East Peace
110 Maryland Avenue NE, “311, Washington, DC 20002

Uri Zaki
Direttore per gli Usa, B’tselem
1411 K Street NW, Washington, DC 20005

Steven J. Gerber
Direttore esecutivo, Rabbis for Human Rights – Nord America
333 Seventh Avenue, 13th Floor, New York, NY 10001

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8 febbraio 2010

Obama indifferente al disastro umanitario di Gaza.

Naturalmente c'è un perchè alle dichiarazioni di Berlusconi nel corso della sua recente (e assolutamente irrilevante) visita di tre giorni in Israele. Esse, infatti, prendono spunto - oltre che dalla naturale indole del nostro Presidente del Consiglio che lo spinge a cercare di compiacere in ogni modo il proprio interlocutore - dall'analoga posizione che gli Usa hanno assunto sulla questione israelo-palestinese e, in particolare, sulla disastrosa situazione umanitaria nella Striscia di Gaza.

Dopo le tante fanfare e i bei discorsi, e dopo le mani tese verso il mondo islamico, il Presidente Usa è tornato a seguire una politica estera che, relativamente al conflitto israelo-palestinese, non si discosta in nulla da quella della precedente amministrazione Bush.

Così, non solo gli Usa hanno tollerato, ed anzi pienamente appoggiato, il massacro criminale dell'operazione "Piombo Fuso", non solo consentono tutt'ora ad Israele di assediare la Striscia di Gaza impedendo l'accesso ai materiali e alle attrezzature necessarie per la ricostruzione, ma addirittura hanno spinto l'Egitto a costruire una barriera sotterranea per impedire l'uso dei tunnel sotterranei tra Gaza e l'Egitto, l'unica via che consente di far affluire nella Striscia i beni necessari ad una vita minimamente decorosa, fornendo al regime di Mubarak i finanziamenti e l'assistenza tecnica necessari allo scopo.

Obama, del resto, si è trovato ben presto a fare i conti con lo strapotere della lobby ebraica a Washington, dove 334 deputati (il 76% della Camera dei Rappresentanti) hanno firmato una lettera di condanna nei confronti del rapporto Goldstone - che ha messo nero su bianco l'evidenza dei gravissimi crimini di guerra compiuti da Israele - mentre solo 57 deputati (il 13%) hanno sottoscritto una lettera che invitava a togliere l'embargo a Gaza.

Sembra dunque che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, giusto per evitare complicazioni con il fedele alleato israeliano, sia stato tolto dalle priorità della politica estera dell'amministrazione Obama, e si tratta di un gravissimo errore.

Perchè la sofferenza del popolo palestinese, la spoliazione delle terre e delle materie prime operata da Israele, l'oppressione e il massacro di tanti poveri innocenti costituiscono una ferita aperta per tutto il mondo arabo.

E non si capisce come sia possibile che il tema del rispetto del diritto umanitario e la difesa dei diritti fondamentali dei Palestinesi possano essere lasciati all'Iran e ad al-Qaeda.

Su questo tema, propongo questo interessante articolo di Charles Fromm ed Ellen Massey pubblicato il 22 gennaio sul sito web dell'Inter Press Service (IPS), nella traduzione offerta da Medarabnews.

La politica USA a Gaza rimane inalterata

E’ trascorso un anno da quando gli ultimi carri armati israeliani sono usciti dalla Striscia di Gaza con gran fracasso, ponendo termine ai 22 giorni di guerra contro Gaza e lasciando dietro di sé sia un territorio che una popolazione decimati.

Un anno dopo, tanto la situazione umanitaria quanto la sicurezza sono ancora in terribili condizioni nella devastata enclave costiera, eppure l’amministrazione di Barack Obama continua a trascurare la crisi di Gaza, con un approccio che alcuni esperti dicono essere l’estensione della politica della precedente amministrazione.

Questa politica ha fatto anche poco per alleviare ciò che i gruppi di tutela dei diritti umani sostengono essere una crescente crisi umanitaria, sprofondando la Striscia di Gaza ancora di più nella povertà e nell’insicurezza.

Dopo aver prestato giuramento nel bel mezzo della Guerra di Gaza, inizialmente il presidente Obama nella sua politica estera ha dato rilevanza al processo di pace in Medio Oriente. Tuttavia questa retorica non è riuscita a concretizzarsi in un processo di pace o in un soccorso per il popolo di Gaza.

Gli Stati Uniti rimangono risoluti nel rifiutarsi di dialogare con Hamas, il partito islamico che ora governa Gaza e che è stato classificato dal Dipartimento di Stato americano come organizzazione terroristica. Questa politica cominciò ad avere effetti drammatici su Gaza già nel 2007, sotto la presidenza di George W. Bush, quando Hamas prese il controllo della Striscia.

“Obama ha mostrato l’orientamento della sua politica molto presto – dice Paul Woodward, redattore e creatore del rispettato blog warincontext.org – Gli Stati Uniti hanno preso la decisione di esautorare Hamas dopo le elezioni [palestinesi] del 2006, che essi e Israele avevano [inizialmente] appoggiato, emarginando Hamas e, di conseguenza, emarginando Gaza”.

“L’amministrazione Obama si è impegnata molto di più in cambiamenti di facciata che non in cambiamenti di strategia”, ha detto Woodward all’International Press Service (IPS).

Questi cambiamenti di facciata hanno incluso una crescente retorica volta ad instaurare un contatto con le comunità arabe e musulmane, in uno sforzo finalizzato a rafforzare i legami indeboliti dalla precedente amministrazione.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione della Palestina ad avere dignità, opportunità, e un proprio Stato”, aveva detto Obama durante il suo memorabile discorso del Cairo.

Nonostante tali impegni, Gaza, che è stata assoggettata a un embargo sempre più duro dai confinanti stati di Israele ed Egitto fin dal 2007, continua a languire senza aver accesso ai necessari aiuti umanitari, ai materiali da costruzione e alle opportunità di commercio che le consentirebbero di riprendersi dal devastante conflitto. Mentre la crisi si aggrava, la complicità degli Stati Uniti nell’assedio sta cominciando ad essere sempre più evidente agli occhi del mondo arabo.

“L’idea che gli Stati Uniti siano impotenti… è qualcosa a cui nessun palestinese che incontriamo a Gaza riesce a credere”, ha detto Amajad Atallah, co-direttore della Task Force per il Medio Oriente alla New America Foundation, in occasione di un evento alla Brookings Institution la settimana scorsa. La Guerra di Gaza, altrimenti nota come Operazione Piombo Fuso, è stata una battaglia durata 3 settimane – durante lo scorso inverno – tra i militanti di Hamas e l’esercito israeliano. Il conflitto ha comportato una estesa devastazione e numerose vittime a Gaza, dove più di 1.400 palestinesi sono rimasti uccisi. Vi furono 13 vittime israeliane a causa dei razzi lanciati da Hamas, e durante l’offensiva di terra nella Striscia.

Secondo Human Rights Watch, l’embargo ha obbligato l’80% della popolazione di Gaza – circa un milione e mezzo di persone – a dipendere dagli aiuti umanitari e dal mercato nero organizzato dai contrabbandieri.

I tunnel del contrabbando sotto il confine tra Gaza e l’Egitto sono l’unico contatto rimasto col mondo esterno per i cittadini di Gaza, e hanno “letteralmente condotto l’economia di Gaza sottoterra”, ha affermato Daniel Levy, co-direttore della Task Force per il Medio Oriente, durante l’evento alla Brookings Institution.

Eppure anche quest’ultima scappatoia al blocco è minacciata. Secondo la BBC, l’Egitto ha cominciato a lavorare a una barriera sotterranea, con l’aiuto dello U.S. Army Corps of Engineers, che chiuderà il sistema di tunnel transfrontalieri usati dai contrabbandieri per eludere l’assedio.

“Non credo che ci sia mai stato un esempio nella storia in cui gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo così complicato nell’assediare fisicamente una popolazione – non c’è da meravigliarsi che non vogliano assumersene la responsabilità”, ha detto Yousef Munnayer, direttore esecutivo del Palestine Center, a proposito della silenziosa partecipazione dell’amministrazione Obama all’assedio della Striscia di Gaza.

Alcuni analisti ritengono che il muro sia una manovra strategica da parte degli Stati Uniti per spingere Hamas a giungere a una riconciliazione con Fatah, il partito politico dominante in Cisgiordania, così da riavviare i colloqui di pace rimasti in sospeso.

“La nuova, severa posizione dell’Egitto nei confronti di Hamas è consentita dagli attuali sforzi del Cairo di riavviare i negoziati di pace tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)… Hamas si trova sotto pressione su tutti i fronti”, ha scritto Yossi Alpher, ex direttore del Jaffee Center for Strategic Studies all’Università di Tel Aviv, nel suo editoriale sul Jewish Daily Forward.

Mentre l’amministrazione Obama non è riuscita a portare avanti il suo impegno di alleviare la crisi umanitaria a Gaza, il Congresso degli Stati Uniti l’ha, a quanto sembra, ampiamente ignorata. Fin dal gennaio 2009, una risoluzione della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti che esprime preoccupazione riguardo alla situazione a Gaza si è arenata alla Commissione Affari Esteri.

Per contro, nel novembre scorso la Camera ha appoggiato con una maggioranza schiacciante una risoluzione che condanna il Rapporto Goldstone, risultato della missione di indagine del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNCHRC) nella Striscia di Gaza. Il rapporto, che prende il nome dal rispettabile giurista Richard Goldstone, ha scoperto che sia Hamas che Israele hanno commesso crimini di guerra durante i 22 giorni del conflitto.

Keith Ellison è stato uno dei 58 membri della Camera dei Rappresentati che hanno votato contro, o si sono astenuti dal votare la risoluzione. Ellison rappresenta anche uno dei pochi funzionari americani eletti che hanno visitato la Striscia di Gaza, mentre più di 70 membri del Congresso hanno viaggiato nella regione. Durante il suo viaggio nella Striscia avvenuto nel febbraio 2009, Ellison ha incontrato tanto gli abitanti di Gaza quanto quelli della città israeliana di Sderot, vicina al confine.

“Quando qualcuno come Keith Ellison visita Gaza, direi che fa molto di più per la sicurezza americana in Medio Oriente e per la vostra immagine rispetto a praticamente qualunque altra cosa che abbiamo visto durante quest’anno”, ha detto Levy durante un briefing al Campidoglio mercoledì scorso.Ma Ellison rimane un’eccezione tra i membri del Congresso. “Se volete sapere quanta consapevolezza vi è tra i miei colleghi al Congresso – ha detto Ellison al pubblico del Brookings Institution, la scorsa settimana –tutto ciò che dovete fare è guardare la votazione del Rapporto Goldstone”.

“Scommetto che nessuno ha letto il Rapporto Goldstone, e nemmeno il sommario. Così siamo pronti a condannare un rapporto che non abbiano neanche letto”, ha aggiunto Ellison, parlando dei suoi colleghi alla Camera dei Rappresentanti.

La combinazione della guerra e del protratto assedio ha gettato la Striscia di Gaza in una paralizzante povertà, e gli effetti dell’embargo sul settore sanitario sono stati catastrofici. Amnesty International ha riferito recentemente che la cronica insufficienza nelle apparecchiature e nelle forniture mediche è diventata un fatto di routine, lasciando il personale medico con risorse insufficienti per curare i loro pazienti.

Persino quando l’amministrazione Obama tenta di far ripartire il processo di pace, Gaza getta un’ombra su qualunque sforzo di questo tipo. Alcuni esperti affermano che i negoziati di pace sono inutili finché l’assedio di Gaza resterà in vigore.

“Questa è la precondizione per ogni cosa – dice Andrew Whitley, direttore dell’Ufficio di rappresentanza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), riferendosi alla rimozione dell’embargo a Gaza.

Charles Fromm e Ellen Massey

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15 ottobre 2009

Continua il silenzio Usa sul nucleare israeliano.

Come abbiamo già avuto modo di rilevare, il segreto peggio conservato al mondo è probabilmente costituito dal fatto che Israele possiede la bomba atomica.

Ufficialmente, gli Stati Uniti hanno sempre adottato una politica di ambiguità riguardo all’arsenale atomico detenuto da Israele, non riconoscendo mai esplicitamente – ma neppure negando – che lo Stato ebraico sia in possesso di svariate testate nucleari, stimate dai diversi analisti del settore in un numero compreso tra le duecento e le quattrocento testate.

Secondo indiscrezioni riportate dal Washington Times nell’articolo che segue, proposto nella traduzione del sito
Medarabnews, di recente il Presidente americano Barack Obama avrebbe accettato di riconfermare la tacita intesa stipulata fra gli Stati Uniti ed Israele ai tempi di Nixon, in base alla quale Washington si impegna a non esercitare pressioni su Tel Aviv in merito al programma nucleare di Israele.

Questo fatto, come è ovvio, stride maledettamente con la politica volta al disarmo, alla pace e alla non proliferazione nucleare che costituisce uno dei cardini programmatici della presidenza Obama e che, secondo molti, ha costituito uno dei motivi principali per cui allo stesso Obama è stato conferito il premio Nobel per la pace.

In questo periodo in cui molti paventano come catastrofica l’ipotesi che l’Iran si doti dell’arma atomica, sarebbe utile puntare i riflettori anche sull’arsenale atomico detenuto da Israele e pronto ad essere usato alla bisogna senza alcuna remora.

E’ utile qui ricordare come, già nel 1991, il reporter investigativo Seymour Hersh avesse pubblicato un libro intitolato “
The Samson Option” (curiosamente uno dei pochi non tradotti in italiano…), in cui si rivelava nel dettaglio la strategia israeliana di un massiccio attacco nucleare contro i Paesi arabi nel caso in cui l’esistenza stessa di Israele fosse stata messa a repentaglio. Il libro tra l’altro rivelava che, già nel 1973, al terzo giorno della guerra dello Yom Kippur, Israele aveva minacciato di usare la bomba atomica, ricattando l’allora Presidente Usa Nixon e inducendolo ad autorizzare ulteriori aiuti militari.

Ancora una volta, dunque, il principale ostacolo lungo il percorso di pace prefigurato da Obama è costituito proprio dal suo principale “alleato” in Medio Oriente, Israele. Per ricordare quanto sostenuto di recente dal Direttore dell’AIEA Mohamed El Baradei, il regime di non proliferazione nucleare rischia di perdere ogni credibilità e ogni legittimità di fronte alla pubblica opinione nel mondo arabo (ma non solo), poiché non viene a costituire altro che l’ennesimo esempio di doppio standard a favore dello Stato ebraico, l’unico paese della regione al di fuori del Trattato di non proliferazione e di cui è noto che possiede armi nucleari.

E ciò, oggi, e ancor più grave a seguito della presentazione del rapporto Goldstone, che ha mostrato al mondo come Israele non abbia avuto alcuna remora nel dispiegare a Gaza tutta la terrificante potenza del proprio arsenale bellico, massacrando un’intera popolazione civile inerme con i suoi missili, le granate al fosforo bianco, i proiettili all’uranio impoverito, le granate a flechettes.

E se un giorno, anziché la Striscia di Gaza, Israele decidesse di attaccare l’Iran, quali armi sarebbe disposto ad usare?

Il presidente Obama ha recentemente riconfermato una quarantennale intesa segreta che ha permesso a Israele di mantenere un arsenale nucleare senza aprirsi alle ispezioni internazionali. Lo hanno affermato tre funzionari che hanno avuto a che fare con questo accordo.

I funzionari, che hanno parlato in condizione di anonimato, hanno dichiarato che Obama aveva promesso di confermare l’accordo quando ha ospitato per la prima volta il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso maggio.

In base all’intesa, gli Stati Uniti non hanno esercitato pressioni su Israele perché divulgasse le proprie armi nucleari o firmasse il Trattato di Non Proliferazione (NPT), il quale potrebbe richiedere che Israele rinunci alle diverse centinaia di bombe nucleari che si stima siano in suo possesso.

Israele ha avuto il timore che Obama non avrebbe confermato l’intesa del 1969 a causa del suo forte impegno a favore della non proliferazione e della priorità di impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari. Gli Stati Uniti ed altre cinque potenze mondiali hanno compiuto progressi durante i colloqui con l’Iran, giovedì 1° ottobre a Ginevra,quando Teheran ha accettato in linea di principio di trasferire fuori dal paese il combustibile potenzialmente utile alla costruzione di armi nucleari, e di aprire alle ispezioni internazionali un impianto scoperto di recente.

Netanyahu si è lasciato sfuggire la notizia del confermato accordo USA-Israele alla fine di settembre, nel corso di un’osservazione che ha attirato poca attenzione. Gli era stato chiesto dal Canale 2 di Israele se era preoccupato della possibilità che il recente discorso di Obama all’Assemblea Generale dell’ONU, che invocava un mondo senza armi nucleari, si applicasse anche ad Israele.

“Era assolutamente chiaro dal contesto del discorso che egli stava parlando della Corea del Nord e dell’Iran”, ha risposto il leader israeliano. “Ma vi voglio anche ricordare che nel corso del mio primo incontro con il presidente Obama a Washington ho ricevuto da lui, ed ho chiesto di ricevere da lui, una lista dettagliata delle intese strategiche che esistono da molti anni fra Israele e gli Stati Uniti su questo tema. Non è per niente che ho richiesto [quel documento], e non è per niente che l’ho ricevuto”.

L’importante intesa nucleare fu raggiunta in occasione di un vertice fra il presidente Nixon ed il primo ministro israeliano Golda Meir che ebbe inizio il 25 settembre 1969. Avner Cohen – autore di “Israel and the Bomb”, oltre che la principale autorità, eccetto il governo israeliano, sulla storia del programma nucleare israeliano – ha affermato che l’accordo consiste nel fatto che “gli Stati Uniti accettino passivamente la situazione delle armi nucleari israeliane fino a quando Israele non rivelerà pubblicamente le sue capacità, o non testerà apertamente un’arma”.

Non vi è una registrazione formale dell’accordo, né i governi israeliani ed americani lo hanno mai pubblicamente riconosciuto. Nel 2007, tuttavia, la biblioteca Nixon declassificò un promemoria del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger che praticamente spiega la politica USA sull’argomento. Il promemoria afferma: “Sebbene idealmente potrebbe piacerci fermare l’effettivo possesso [di armi nucleari] da parte israeliana, ciò che realmente vogliamo come misura minima potrebbe essere semplicemente evitare che il possesso israeliano diventi un fatto stabilito a livello internazionale”.

Avner Cohen ha affermato che la politica che ne è risultata equivaleva alla formula “non chiedere, non dire”.

Il governo Netanyahu ha cercato di riaffermare l’intesa anche a causa della preoccupazione che l’Iran, nei negoziati con gli Stati Uniti e con le altre potenze mondiali, avrebbe cercato di ottenere la divulgazione, da parte di Tel Aviv, del programma nucleare israeliano. L’Iran ha frequentemente accusato gli Stati Uniti di usare due pesi e due misure non opponendosi all’arsenale israeliano.

Cohen ha detto che la riconferma dell’intesa, ed il fatto che Netanyahu abbia chiesto e ricevuto una registrazione scritta dell’accordo, suggeriscono che “non soltanto non vi era un’intesa condivisa su ciò che era stato concordato nel settembre del 1969, ma è anche evidente che perfino le note dei due leader potrebbero non esistere più. Ciò significa che Netanyahu ha voluto avere qualcosa di scritto che implicasse quell’intesa. Ciò conferma anche l’opinione che gli Stati Uniti siano in effetti un partner della politica di ‘opacità’ nucleare portata avanti da Israele”.

Jonathan Peled, un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, ha rifiutato di commentare, così come ha fatto il National Security Council della Casa Bianca.

L’intesa segreta potrebbe compromettere l’obiettivo dell’amministrazione Obama di un mondo senza armi nucleari. In particolare, potrebbe scontrarsi con gli sforzi americani di far applicare il Trattato sul bando complessivo dei test (Comprehensive Test-Ban Treaty – CTBT) e il Trattato sul taglio del materiale fissile (Fissile Material Cut-off Treaty – FMCT), due accordi che secondo alcune amministrazioni americane del passato avrebbero dovuto essere applicati anche ad Israele. Questi trattati mettono al bando i test nucleari e la produzione di materiale fissile a scopi bellici.

Un membro dello staff del Senato che ha dimestichezza con la riconferma dell’intesa avvenuta lo scorso maggio – il quale ha chiesto di non essere nominato a causa della delicatezza della questione – ha affermato che “ciò che questo significa è che riguardo al programma nucleare israeliano il presidente si è impegnato su cose rispetto a cui non poteva fare altrimenti. Tuttavia, in linea di principio, ciò mette in questione tutti gli aspetti dell’agenda presidenziale di non proliferazione. Il presidente ha dato ad Israele un’esenzione gratuita dall’NPT”.

Daryl Kimball, direttore esecutivo dell’organizzazione Arms Control, ha affermato che questo passo non è così nocivo per la politica USA.

“Credo che sia corretto che i due nuovi leader degli Stati Uniti e di Israele abbiano voluto chiarire le precedenti intese fra i loro governi sulla questione”, ha detto.

Tuttavia Kimball ha aggiunto: “Con tutto il rispetto non sono d’accordo con Netanyahu. Il discorso del presidente Obama e la risoluzione 1887 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU si applicano a tutti i paesi a prescindere dalle intese segrete fra gli Stati Uniti ed Israele. Un mondo senza armi nucleari è in armonia con l’obiettivo dichiarato di Israele di giungere a un Medio Oriente libero da armi di distruzione di massa. Il messaggio di Obama è che le stesse responsabilità in materia di disarmo e non proliferazione dovrebbero essere applicate a tutti gli stati, e non solo ad alcuni”.

La dottrina nucleare israeliana è nota come “il lungo corridoio”. In base ad essa, Israele comincerebbe a considerare il disarmo nucleare solo dopo che tutti i paesi ufficialmente in guerra con lo stato ebraico avranno firmato un trattato di pace, e dopo che tutti i paesi vicini avranno abbandonato non solo i programmi nucleari ma avranno anche rinunciato agli arsenali chimici e biologici. Israele considera le armi nucleari come una garanzia esistenziale in un ambiente ostile.

David Albright, presidente dell’Institute for Science and International Security, ha detto di sperare che l’amministrazione Obama non conceda troppo a Israele.

“Si spera che il prezzo di simili concessioni sia l’accettazione da parte di Israele dei trattati CTBT e FMCT, oltre che dell’obiettivo a lungo termine di un Medio Oriente libero da armi di distruzione di massa”, ha dichiarato. “Altrimenti l’amministrazione Obama ha pagato un prezzo troppo alto, considerato il suo impegno per un mondo libero dalle armi nucleari”.

Eli Lake

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30 settembre 2009

L'impotenza di Obama.

A otto mesi dalla promessa del Presidente Usa Barack Obama (appena insediatosi) di impegnarsi a fondo per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, le speranze che la sua elezione e i suoi alati discorsi avevano suscitato vanno scemando ogni giorno di più.

Se gli Usa non riescono nemmeno ad ottenere da Israele il “congelamento” delle colonie illegali in Cisgiordania, ovvero un semplice stop a tempo determinato dell’attività edilizia di espansione degli insediamenti, come potranno arrivare a sciogliere i nodi ben più complessi che attengono a Gerusalemme est e al problema dei profughi palestinesi?

E’ questo il tema di un interessante intervento redazionale di Medarabnews, che viene riportato qui di seguito per la sua sintetica completezza nel trattare le questioni in campo.

Il vero è che gli Usa e Obama non vogliono o non riescono a mettere in campo quelle pressioni politiche ed economiche che sono essenziali per convincere il riottoso “alleato” israeliano a rientrare nell’alveo della legalità internazionale e a consentire la nascita di uno Stato palestinese economicamente sostenibile, con il pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese troppo a lungo conculcati.

Certo, Obama può parlare – in maniera appassionata e coinvolgente come sa – di pace e di disarmo, lo ha fatto di recente all’Onu.

Ma non si capisce bene come si possa denunciare l’Iran come minaccia nucleare e contemporaneamente tacere sulle centinaia di testate nucleari possedute da Israele, pronte ad essere usate sulla base della cd. “Samson Option”.

Non si capisce bene come si possa parlare di pace e di giustizia tra i popoli e contemporaneamente relegare in un cassetto il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza, con il suo accurato resoconto relativo al massacro di oltre 1.400 Palestinesi, in massima parte civili inermi, compiuto dagli Israeliani, e con le sue denunce relative ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi dagli assassini di Tsahal, crimini che non possono ancora una volta restare impuniti.

Legittimare ogni azione compiuta dallo Stato israeliano – persino i suoi crimini più atroci ed efferati – rende i discorsi di Obama insopportabilmente carichi di ipocrisia e, in definitiva, non aiuta in alcun modo, ed anzi ostacola, il perseguimento di un accordo di pace complessivo in Medio Oriente.

BALBETTA L’INIZIATIVA DI OBAMA PER LA PACE IN MEDIO ORIENTE.
30.9.2009

A otto mesi dalla solenne promessa del presidente americano Obama (allora appena insediato alla Casa Bianca) di impegnarsi a dare nuovo impulso al processo di pace fra Israele e i palestinesi, le speranze di veder riprendere il cammino verso una soluzione del conflitto arabo-israeliano hanno subito un duro colpo.

La misura su cui l’amministrazione Obama aveva puntato per ristabilire la fiducia reciproca fra le parti – ovvero il congelamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, accompagnato da una progressiva normalizzazione dei rapporti fra i paesi arabi e Tel Aviv – si è scontrata con la dura realtà del rifiuto posto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Obama ha convocato ugualmente a New York un vertice e tre – fra lui, Netanyahu ed il presidente palestinese Mahmoud Abbas – in occasione del quale ha annunciato la sua intenzione di passare direttamente ai negoziati sul “final status”, ovvero sui termini dell’accordo di pace conclusivo fra israeliani e palestinesi.

Ciò non ha impedito alla maggior parte degli osservatori, soprattutto nel mondo arabo, di esprimere la propria delusione per quanto accaduto: per Obama si tratta infatti di una sconfitta che non lascia ben sperare per il futuro. Incassare il rifiuto di fermare gli insediamenti è equivalso, a detta di molti, a una grave manifestazione di debolezza: Obama ha dimostrato che in questo momento non è in grado di esercitare pressioni sul governo israeliano [1].

Inoltre, a tutt’oggi non esiste alcuna tabella di marcia per i negoziati, alcun meccanismo di monitoraggio, alcun ruolo preciso al tavolo negoziale per il mediatore americano e per gli altri membri del Quartetto (UE, Russia e ONU). In altre parole, non esiste un piano di pace definito, e non esiste un meccanismo negoziale.

Numerosi osservatori hanno fatto rilevare [2] che fra i pilastri dei futuri negoziati vi sono il destino dei profughi palestinesi, il futuro di Gerusalemme Est, e il destino degli insediamenti. Rifiutandosi anche soltanto di “congelare” gli insediamenti (mentre un accordo di pace definitivo dovrebbe prevedere lo smantellamento della maggior parte di essi), ritenendo Gerusalemme parte integrante dello stato di Israele, e chiedendo che i palestinesi ed i paesi arabi riconoscano Israele come stato “ebraico”, Tel Aviv di fatto cancella a priori questi tre elementi fondamentali di ogni futura trattativa.

Se molti tacitamente riconoscono che un accordo di pace fra le parti realisticamente potrà prevedere il ritorno di parte dei profughi in Palestina, ma solo di un numero puramente simbolico di essi entro i confini di Israele, per altro verso la presenza degli insediamenti israeliani in Cisgiordania rende di fatto impossibile l’esistenza stessa di un futuro stato palestinese.

D’altra parte, molti analisti concordano sul fatto che gli insediamenti rappresentano una realtà sul terreno che sarà difficilissimo eliminare [3], soprattutto se si tiene conto che molti di essi sono stati costruiti con la connivenza dei governi israeliani succedutisi al potere dal 1967 ad oggi, e che i coloni rappresentano una lobby politica molto forte all’interno di Israele.

Più di 250.000 coloni israeliani risiedono in Cisgiordania, mentre quasi 200.000 vivono a Gerusalemme Est. Un eventuale accordo di pace comporterebbe dunque o l’evacuazione di quasi mezzo milione di persone, oppure che i coloni diventino una minoranza nel futuro stato palestinese (ipotesi di non meno difficile realizzazione).

All’interno dello stesso stato di Israele, tuttavia, diversi osservatori ritengono che l’attuale status quo sia altrettanto insostenibile [4]. Il futuro di Israele non può non passare attraverso un accordo di pace e una pacifica convivenza con i palestinesi. Malgrado ciò, non solo l’attuale governo, ma anche buona parte della classe politica israeliana ritiene che una soluzione negoziata al momento non sia possibile, e che l’unica alternativa praticabile sia una politica di deterrenza sostenuta dall’uso della forza.

Sulla stampa internazionale non sono pochi, però, coloro che ritengono che l’attuale vittoria di Netanyahu possa tradursi in una futura sconfitta per Israele, oltre che per il suo governo. Innanzitutto, lo spostamento dell’attenzione sui negoziati per il “final status” potrebbe comportare l’insorgere di tensioni nel governo Netanyahu, composto da forze eterogenee accomunate solo dal rifiuto di una soluzione negoziata. Tali tensioni potrebbero addirittura portare alla caduta dell’esecutivo. Ma anche in questo caso, rimarrebbe tuttavia il problema di fondo dell’estrema frammentazione del panorama politico israeliano, che ha come diretta conseguenza la paralisi politica del paese, soprattutto di fronte a scelte cruciali per il suo futuro.

Tali scelte non sono però ulteriormente rinviabili. La classe politica israeliana non può ragionevolmente pensare di trascinare a tempo indeterminato l’intollerabile realtà dell’occupazione – prolungando indefinitamente una situazione di disuguaglianza, drastica limitazione delle libertà fondamentali, e soprusi quotidiani – senza compromettere definitivamente il carattere democratico dello stato, e senza subire conseguenze sul piano regionale.

Non va dimenticato, ad esempio, che il blocco economico ai danni della Striscia di Gaza prosegue tuttora, continuando a colpire una popolazione di un milione e mezzo di persone, già stremata da anni di privazioni e dal devastante conflitto dello scorso gennaio. Tale blocco prosegue anche se Hamas si sta astenendo dal lanciare razzi e sta compiendo ogni sforzo per impedire attacchi da parte delle altre fazioni palestinesi presenti a Gaza.

A coloro che sostengono che questo è il risultato dell’azione di “deterrenza” delle forze armate israeliane, si può obiettare che lo stesso livello di calma e di non belligeranza fu ottenuto con la tregua bilaterale che precedette l’attacco israeliano a Gaza. Tale tregua, tuttavia, prevedeva anche che, a seguito della fine del lancio dei razzi, Tel Aviv avrebbe aperto i valichi ponendo fine all’ “assedio”. Ma anche allora i valichi non furono mai aperti.

Il conflitto di Gaza ha avuto – ed ha tuttora – un impatto profondissimo in tutto il mondo arabo. Esso, oltre a causare la morte di 1.400 palestinesi, ha distrutto le strutture essenziali di questo esile e sovrappopolato lembo di terra.

A nove mesi dall’inizio dell’attacco militare israeliano, la ricostruzione non è ancora partita, perché Israele non permette l’ingresso dei materiali necessari nella Striscia. Tutto questo obbliga migliaia di persone a vivere in condizioni spaventose, alloggiate in tende o in prefabbricati privi dei servizi più elementari, ed in condizioni di povertà estrema.

Lasciar incancrenire realtà di questo genere, e prolungare indefinitamente lo status quo in Medio Oriente si tradurrà inevitabilmente, e drammaticamente, in nuove violenze e in nuovi conflitti – forse anche in tempi relativamente brevi.

E’ questo l’allarme che hanno lanciato, fra gli altri, molti commentatori arabi [5], i quali hanno messo in guardia sulle conseguenze che un ennesimo fallimento negoziale potrebbe comportare, in Palestina e nel mondo arabo.

L’avvento di Obama aveva infatti generato enormi speranze in tutto il Medio Oriente [6], come già era accaduto in precedenza con l’iniziativa di pace promossa dal presidente Bill Clinton. La continua frustrazione di tali speranze, ed il permanere di condizioni di ingiustizia nel Levante arabo non potrà che determinare dolorosi contraccolpi.

L’influenza iraniana nel mondo arabo, in particolare, è vista come una minaccia da gran parte dei cosiddetti “regimi arabi moderati”. Tuttavia, non potendo offrire alcuna soluzione alla questione palestinese ed al conflitto arabo-israeliano, tali regimi si trovano a dover combattere con armi spuntate la crescente influenza che l’Iran esercita su settori consistenti delle loro popolazioni.

In altre parole, la mancata soluzione della questione palestinese si traduce in un ulteriore fattore di delegittimazione (oltre a quelli dovuti all’assenza di democrazia, alla corruzione, ecc.) per i regimi arabi che hanno scelto la via del negoziato.

La retorica di Netanyahu, di cui il discorso pronunciato la scorsa settimana all’Assemblea Generale dell’ONU costituisce un tipico esempio, risulta essere perfettamente speculare a quella del presidente iraniano Ahmadinejad.

Sulla stampa israeliana, vi è chi ha affermato [7] che, quando il premier israeliano paragona implicitamente Hamas ai nazisti, facendo un accostamento fra i rudimentali razzi Qassam ed il bombardamento di Londra che sterminò oltre 40.000 persone durante la seconda guerra mondiale, legittima coloro che nel mondo arabo-islamico compiono l’operazione opposta paragonando a loro volta i metodi israeliani e quelli nazisti. Quando denuncia i “tiranni di Teheran” per aver infierito sui manifestanti iraniani all’indomani delle controverse elezioni presidenziali del giugno scorso, mentre i soldati israeliani adoperano le stesse tecniche contro le manifestazioni nonviolente del villaggio palestinese di Bil’in (così come in altre innumerevoli occasioni), non fa altro che mettere a nudo ancora una volta il proprio approccio demagogico e strumentale alla crisi iraniana da un lato ed alla questione palestinese dall’altro.

Atteggiamenti di questo genere hanno come unico risultato quello di ricompattare le masse arabo-islamiche diseredate e private dei propri diritti attorno alla figura di un presunto “nuovo eroe” islamico, che questa volta sarà incarnato dal presidente iraniano Ahmadinejad. Allo stesso tempo tali atteggiamenti contribuiscono a far mancare la terra sotto i piedi a quei paesi arabi che hanno accettato la “soluzione dei due stati” – quegli stessi paesi arabi che Netanyahu vorrebbe mobilitare contro l’Iran.

La questione palestinese rischia in questo modo di diventare ostaggio della crisi iraniana [8], ed ogni rinvio nella ripresa di negoziati seri e concreti rende questa possibilità sempre più probabile.

A pagare il prezzo di questi rinvii e di queste strumentalizzazioni politiche potrebbero essere (drammaticamente) le popolazioni della regione: palestinese, israeliana, e di tutto il Medio Oriente.

[1] non è in grado di esercitare pressioni sul governo israeliano:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/obama-netanyahu-tragedia-farsa/
[2] Numerosi osservatori hanno fatto rilevare:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/insediamenti-e-fallimento-mitchell/
[3] una realtà sul terreno che sarà difficilissimo eliminare:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/la-verita-insediamenti-cisgiordania/
[4] sia altrettanto insostenibile :
[8] ostaggio della crisi iraniana:

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10 giugno 2009

Luci e (molte) ombre nel discorso di Obama al Cairo.


Il discorso con il quale il presidente americano Barack Obama si è rivolto al mondo arabo ed islamico all’università al-Azhar del Cairo ha avuto una enorme eco e un forte impatto emotivo, e molti commentatori non hanno esitato a definirlo come un evento che segna una svolta storica e, in ogni caso, un netto punto di discontinuità rispetto all’atteggiamento della precedente amministrazione neocon di George W. Bush.

L’organizzazione no-profit Avaaz ha lanciato una campagna on line per raccogliere firme a sostegno dell’affermazione di Obama “che gli insediamenti nei territori occupati devono cessare”, con l’intento di pubblicare le parole del presidente Usa e il numero di firme raccolte dalla petizione a sostegno su alcune testate giornalistiche chiave in Israele e a Washington (ad oggi sono state raccolte oltre 140.000 firme).

E tuttavia, nel mondo arabo ma non solo, non è mancato chi ha fatto osservare come quello di Obama – al di là del primo impatto – sia stato un discorso insufficiente in alcuni dettagli non secondari, e soprattutto sotto il profilo delle questioni concrete da affrontare (e del modo in cui risolverle) che attengono al conflitto israelo-palestinese.

Alcuni analisti, ad esempio, hanno fatto rilevare come non basti chiedere il “congelamento” degli insediamenti colonici nella West Bank – che peraltro Israele rifiuta decisamente di porre in essere – ma si debba affrontare con forza il tema più generale della loro illegittimità e della necessità di rimuoverli come richiederebbe il diritto internazionale. Altri hanno fatto osservare come sia del tutto mancata la condanna dell’operazione “Piombo Fuso” e dei crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano a Gaza, in primis l’uso massiccio e criminale del fosforo bianco, altri ancora avrebbero desiderato una più chiara apertura nei confronti di Hamas.

E’ questo il tema affrontato da Muhammad Abu Rumman in un articolo pubblicato il 6 giugno sul quotidiano giordano al-Ghad, qui proposto nella traduzione offerta dal sito Medarabnews.

L’analista giordano si sofferma, in particolare, sul fatto che Obama non solo non ha fatto cenno alle due grandi questioni di Gerusalemme est e del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, ma non ha nemmeno definito la natura dello stato palestinese, né si è impegnato esplicitamente affinché tale stato sorga su tutti i territori occupati nel 1967. Il rischio che si paventa, insomma, è quello che nasca uno staterello privo di risorse e con una autonomia limitata, aprendo la strada a quella “opzione giordana” che è sempre stata segretamente accarezzata in Israele ma anche negli Usa.

Toccherà dunque aspettare ancora un po’ per vedere se i roboanti proclami obamiami saranno seguiti da fatti concreti e da comportamenti concludenti dell’amministrazione Usa.

L’altra faccia dell’ “opzione giordana”.
6.6.2009

E’ difficile ignorare che il discorso di Obama ha determinato una svolta storica nei toni dell’approccio politico americano di fronte al mondo arabo, eliminando molti degli ostacoli culturali e psicologici alla costruzione di un franco dialogo di civiltà improntato alla riconciliazione.

Forse il più importante degli elementi positivi di questo discorso è rappresentato dalla chiusura del capitolo dello “scontro di civiltà” che era stato imposto dall’approccio dei neocon e dell’ex presidente George W. Bush. Questo approccio aveva scatenato guerre che avevano acquisito la caratteristica di latenti guerre di civiltà, ed aveva offerto ad al-Qaeda una “opportunità storica” di sfruttare questi orientamenti americani per raccogliere consensi ed aumentare le proprie capacità di arruolare simpatizzanti e adepti al suo discorso ideologico, presentandosi come il baluardo a difesa della nazione islamica di fronte alle “guerre crociate”.

Tuttavia, se andiamo al di là del valore simbolico del discorso di Obama e rivolgiamo la nostra attenzione alle questioni reali che rappresentano il vero banco di prova per le politiche del nuovo presidente americano, ci rendiamo conto che il valore del suo discorso si riduce di molto.

Il conflitto arabo-israeliano ed il processo di pace costituiscono un nodo importante per la realizzazione della “riconciliazione storica” di cui ha parlato Obama. Se da un lato negli ultimi giorni è emersa da parte americana una posizione molto ferma nei confronti di Israele – riassumibile nel rifiuto della proposta del governo israeliano di una “pace economica”, nella riconferma della “soluzione dei due stati” e nella richiesta di fermare gli insediamenti – dall’altro quanto è emerso dal discorso di Obama su questo tema in generale è preoccupante.

Obama, sebbene abbia cercato di mostrare obiettività e di attribuire ad entrambe le parti (quella arabo-palestinese e quella israeliana) la responsabilità di una soluzione storica, tuttavia non è stato equanime e si è mantenuto su toni generici – quei toni che hanno ormai stancato la gente – lasciando i dettagli e le decisioni finali in una “zona grigia” vaga e indefinita.

Egli ha parlato delle sofferenze degli israeliani per “alcuni razzi” che vengono lanciati dalla resistenza palestinese, ingigantendone oltremodo gli effetti, mentre non ha dedicato una sola parola ai massacri compiuti da Israele a Gaza e nel sud del Libano, nei quali sono morti migliaia di civili. Ha ricordato agli arabi l’Olocausto (sebbene gli arabi non abbiano alcuna responsabilità in esso!) corroborando in questo modo la legittimità della creazione di una patria nazionale per gli ebrei.

Dal punto di vista pratico, riguardo al processo di pace, stiamo ancora attendendo il piano americano relativo alla prossima fase ed al “final status”. Non stiamo qui rivolgendo un invito ad affrettare una decisione in un senso o nell’altro, tuttavia vi sono motivi per essere molto cauti.

Infatti, se Obama ha chiesto ad Israele di congelare gli insediamenti, egli non ha tuttavia parlato degli insediamenti attuali in Cisgiordania, né della loro illegittimità. Quando ha parlato dello stato palestinese, lo ha fatto legando tale stato alla vita quotidiana dei palestinesi, come se l’obiettivo di questa entità statale fosse soltanto un obiettivo economico ed umanitario, e non un diritto in primo luogo storico, politico e giuridico.

Cosa ancora più importante, Obama non ha definito la natura dello stato palestinese e non si è impegnato a lavorare affinché tale stato venga creato su tutti i territori arabi occupati nel 1967; non ha parlato in maniera chiara del destino di Gerusalemme, così come non ha accennato ai profughi ed alla loro sorte.

Ciò che desta preoccupazione, inoltre, è che quando Obama ha parlato della controparte araba, ha detto implicitamente che l’iniziativa di pace araba non rappresenta il punto di arrivo, ma il punto di partenza. Ciò rafforza alcune indiscrezioni secondo cui l’amministrazione americana avrebbe chiesto anticipatamente agli arabi di rinunciare chiaramente al diritto al ritorno dei profughi, come sembrano confermare le dichiarazioni attribuite al presidente palestinese Abbas a Washington.

Sulla base di questa lettura, le promesse di Obama nella loro sostanza non andranno al di là di ciò di cui parlano gli ambienti israeliani – cioè di un governo palestinese debole e sparuto, provvisorio, e con un’autonomia limitata, il quale potrebbe aprire la strada ad una unione formale con la Giordania che permetterebbe ad Israele di sbarazzarsi del problema dei “residenti palestinesi” e del loro fardello politico, storico e di sicurezza!

Il timore è che il governo israeliano potrebbe “alzare la posta” annunciando di rifiutare la soluzione dei due stati. Esso potrebbe adottare implicitamente l’ “opzione giordana” alla stregua di una “manovra negoziale”, cosicché la sua successiva accettazione della soluzione dei due stati apparirebbe come una “grande concessione” – una concessione in realtà del tutto illusoria.

L’attenzione non va dunque rivolta alla conferma di Obama della “soluzione dei due stati”, ma alla sostanza, alla giurisdizione ed alla reale capacità di sopravvivere del futuro stato palestinese, altrimenti queste promesse prima o poi rappresenteranno soltanto l’altra faccia dell’ “opzione giordana”.

Vogliamo dunque mettere in guardia contro le esagerazioni mediatiche e politiche che innalzano il livello delle aspettative nei confronti dell’amministrazione Obama. Credo che dovremmo averne abbastanza delle illusioni e dei sogni ingannevoli.

Muhammad Abu Rumman è un analista giordano, esperto di Islam politico e movimenti islamici; scrive abitualmente sul quotidiano ‘al-Ghad’

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21 gennaio 2009

Israele, Obama e la necessità di un nuovo pensiero strategico.

Dopo la batosta subita in Libano ad opera delle milizie di Hezbollah, Israele sentiva come necessario un pronto riscatto del proprio esercito, al fine di ristabilirne il potere di deterrenza che rischiava di apparire non più temibile come un tempo.

L’operazione “Piombo Fuso” e il massacro di Gaza hanno fornito questa occasione di riscatto, e pazienza se l’onore di Tsahal è stato salvato a spese soprattutto di donne e bambini inermi e innocenti.

Ma se nel breve periodo Israele può tranquillamente dichiarare di aver raggiunto i propri obiettivi e di aver ridotto Hamas a più miti consigli, il bagno di sangue nella Striscia ha avuto come fastidioso effetto collaterale quello di isolare Israele – che ha finito per inimicarsi anche buoni amici come la Turchia – e di peggiorarne l’immagine (ed era davvero impresa titanica!) a livello dell’opinione pubblica mondiale.

E, soprattutto, il nuovo Presidente Usa, che fin dal suo discorso di insediamento ha inteso tendere una mano al mondo islamico, potrebbe essere spinto ancor più dagli eventi di Gaza a cercare un nuovo approccio alla pacificazione del medio oriente e alla composizione, una volta per tutte, del conflitto israelo-palestinese.

Anche contro la volontà di Israele.

E’ questo il tema dell’articolo di Zvi Bar’el, pubblicato il 19 gennaio su Ha’aretz e qui pubblicato nella traduzione offerta da Arabnews.

La necessità di un nuovo pensiero strategico
19.1.2009

Una coalizione internazionale si è affrettata a raggiungere un cessate il fuoco, salvare Gaza e definire un complesso accordo tripartito che dovrebbe opporsi al contrabbando di armi a vantaggio di Hamas. Il più forte esercito del Medio Oriente può registrare una vittoria a proprio favore nei confronti del gruppo islamico. Può anche essere che Israele abbia ristabilito la propria capacità di deterrenza contro la popolazione civile palestinese. Ma, forse tutto ciò sarà solo temporaneo, come accadde dopo l’operazione “Litani” del 1978, o dopo l’operazione “Grappoli di Collera” del 1996, o (in quel caso durando un po’ più a lungo) dopo l’operazione “Scudo Difensivo” nel 2002. Calma ma non sicurezza, cessate il fuoco ma non tranquillità. Questa è una vittoria tesa a lanciare una serie di messaggi – a Hamas, a Hezbollah, alla Siria, e soprattutto all’Iran. Affinché brucino nella loro coscienza, e sottolineino ancora una volta la minaccia proveniente da Israele.

Ma in tutto il putiferio nella Striscia di Gaza, la grande minaccia, la vera minaccia, è passata sotto silenzio. Nelle ultime tre settimane, qualcuno ha sentito dire qualcosa a proposito del programma nucleare iraniano? La minaccia che ha terrorizzato Israele è ancora incombente, e lo stato ebraico non è un paese più sicuro dopo questa guerra. I pezzi del puzzle che sono stati scagliati in aria a Gaza sono tornati al suolo ricomponendo una nuova immagine. La Turchia non è più lo stesso vecchio amico; la Giordania è divenuta un oggetto sospetto; l’Autorità Palestinese avrà difficoltà a far funzionare una leadership palestinese complessiva senza cooperare con Hamas; gli Stati Uniti di George W. Bush hanno “osato” sottoporre una proposta meno in linea con gli interessi israeliani, aprendo la strada ad una condotta analoga da parte dell’amministrazione Obama; l’Europa ufficiale non ha esitato a condannare Israele; e l’Egitto, che si è fatto promotore del cessate il fuoco e che avrà la responsabilità di garantire che esso venga rispettato, è furioso con Israele e con Hamas per essere stato messo in questa posizione così difficile.

Non un solo Katyusha di Hezbollah sarà reso inoffensivo a causa della guerra nella Striscia di Gaza, ed il programma nucleare iraniano è in salute, grazie. Ora più che mai gli israeliani dovranno assicurarsi di parlare inglese quando viaggeranno all’estero.

Non c’è ragione di cercare di pensare a cosa sarebbe accaduto se… Se Israele avesse riconosciuto il governo Hamas quando fu eletto; se avesse trattato Mahmoud Abbas con serietà, o se avesse realmente negoziato con la Siria. I ricordi non fanno la politica. In ogni caso, Israele ha optato per una soluzione che seguiva un nuovo ordine, con allusioni e colpetti sulla spalla invece di accordi scritti; con spettacoli e messinscene televisive invece di una seria visione per il futuro.

Ma ora Israele avrà un nuovo presidente americano – un presidente che ha già spiegato a chiunque che preferisce un nuovo ordine ai compromessi temporanei. Egli è pronto ad aprire una nuova pagina di dialogo con l’Iran; a riesaminare i rapporti tra Siria e Stati Uniti; a considerare l’Iraq come un amaro episodio da cui è meglio uscire rapidamente. Egli pensa anche che non vi sia più bisogno di uccidere Osama bin Laden. Non fa minacce. Barack Obama potrebbe portare con sé un nuovo insieme di lezioni per il Medio Oriente, che potrebbero non tradursi in una vera soluzione, ma che obbligheranno Israele a modificare il proprio pensiero strategico.

Obama è impegnato a garantire la sicurezza di Israele così come lo erano Bush e Clinton, ma potrebbe giungere a considerare la sostanza di una simile sicurezza in modo differente. La pace, ad esempio, potrebbe essere da lui vista come una componente essenziale della sicurezza di Israele. Ciò potrebbe essere una novità, persino rivoluzionaria agli occhi degli israeliani, ma lo stato ebraico farebbe meglio a prepararsi – non facendo uso dei lobbisti a Washington, ma pianificando un dialogo costruttivo con i suoi vicini.

Israele, le cui scelte strategiche hanno rafforzato il peso e la minaccia posti dai gruppi armati, avrà bisogno di riconsiderare il proprio approccio all’iniziativa di pace saudita. Il salvagente che tale iniziativa offre può dissolvere la minaccia di questi gruppi, se Israele comprende che essi minacciano i paesi arabi non meno di quanto minacciano lo stato ebraico. Israele ha bisogno dell’iniziativa saudita non perché abbia bisogno della sicurezza araba, ma perché deve aspirare ad accordi permanenti con gli stati, e non con gruppi o bande.

Se la Siria è lo stato che influenza Hamas e Hezbollah, se lo status dell’Egitto è ciò che determinerà il futuro della regione, se l’Arabia Saudita è il contrappeso dell’Iran, sono questi i partner con cui è necessario fare un accordo, non i loro “subappaltatori”. L’iniziativa saudita non è ancora svanita, ma non lo sono neanche le minacce. Senza adottare una nuova strategia che rafforzi l’iniziativa saudita, la guerra nella Striscia di Gaza rimarrà un episodio coronato da successo e niente più; una soluzione temporanea in attesa del prossimo round.

Zvi Bar’el è un analista politico israeliano; scrive abitualmente sul quotidiano “Haaretz”
Titolo originale:
A need for new strategic thinking

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11 dicembre 2008

L'amministrazione Obama e il processo di pace israelo-palestinese.

La definizione dei posti chiave della nuova amministrazione Usa che si insedierà il prossimo gennaio – e in particolare le nomine di Hillary Clinton a Segretario di Stato e la conferma di Robert Gates alla Difesa – hanno in gran parte smorzato le speranze e gli entusiasmi che l’elezione di Obama avevano suscitato nel mondo arabo.

Ci si chiede se il nuovo Presidente riuscirà davvero ad imporre un cambiamento significativo nelle politiche Usa per il Medio Oriente e, con particolare riferimento al conflitto israelo-palestinese, se la tanto auspicata pace tra questi due popoli non finisca con il configurarsi come una pace ad esclusivo interesse di Israele.

In questo senso, Arabnews propone la traduzione di questo articolo di Osama Abu Irsheid, pubblicato il 30 novembre scorso su al-Jazeera.net.

L’AMMINISTRAZIONE OBAMA E IL PROCESSO DI PACE ISRAELO-PALESTINESE
30.11.2008

Il clamore dello scontro elettorale americano si è finalmente placato, con l’elezione del senatore di colore Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti.

Tuttavia, l’elezione di Obama rappresenta solo l’inizio di un percorso, non la fine. Egli ha fatto molte promesse, e gli elettori si attendono grandi imprese. Certamente la soffocante crisi economica di cui soffrono gli Stati Uniti sarà in cima alle priorità, e la maggior parte delle preoccupazioni del nuovo presidente sarà rivolta al fronte interno, non all’estero. D’altra parte, secondo i sondaggi, è per questo motivo che Obama è stato eletto.

Tuttavia, questo non significa che le questioni di politica estera non compariranno nell’agenda della sua amministrazione. Probabilmente fra le questioni più importanti vi è il coinvolgimento americano in Iraq ed in Afghanistan, la nuova ascesa della Russia, lo spinoso rapporto con l’Iran, ecc.. Tuttavia, quello che ci interessa in questa sede è cercare di comprendere come l’amministrazione Obama gestirà il processo di pace in Medio Oriente.

Le contraddizioni esistenti nelle posizioni di Obama

E’ bene osservare innanzitutto che non è possibile trattare le linee generali concernenti le posizioni dell’amministrazione Obama rispetto al processo di pace in Medio Oriente, se non si comprende che la personalità stessa di Obama è caratterizzata da una serie di contraddizioni a questo riguardo.

Riscontriamo queste contraddizioni tra le sue convinzioni personali – in base alle quali egli è stato incline a mostrare una certa simpatia nei confronti dei palestinesi, la quale ha trovato espressione in alcune sue dichiarazioni rilasciate prima di diventare senatore – da un lato, e la necessità di essere in armonia con la linea politica tradizionale degli Stati Uniti – di cui l’appoggio incondizionato ad Israele è ritenuto uno degli elementi principali – dall’altro. E’ a questa linea politica ufficiale che Obama ha cominciato ad avvicinarsi dopo essere diventato senatore agli inizi del 2005, ed in misura ancora maggiore dopo aver annunciato la propria intenzione di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti.
L’importanza di chiarire questi retroscena e queste contraddizioni, nella personalità di Obama e nelle sue posizioni politiche, sta nel fatto che questo chiarimento ci aiuta a comprendere come l’amministrazione Obama affronterà la questione della pace in Medio Oriente.

Uno degli aspetti delle contraddizioni di Obama emerge dai nomi di alcune delle personalità che egli ha inserito nella squadra dei suoi consiglieri di politica estera. Nella lista dei suoi consiglieri per il Medio Oriente troviamo personaggi le cui posizioni riguardo al conflitto arabo-israeliano divergono e si contraddicono reciprocamente. Fra essi vi sono sostenitori di un punto di vista moderato, che chiedono politiche americane più equilibrate e che non hanno difficoltà a criticare Israele in alcune occasioni, come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski; come Robert Malley, ex collaboratore del presidente Bill Clinton per il conflitto arabo-israeliano; come Samantha Power, professoressa all’Università di Harvard; e come Susan Rice, che aveva servito nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale sotto l’amministrazione Clinton.

Vi sono poi alcuni sostenitori di Israele su tutta la linea, come Dennis Ross, inviato speciale per il Medio Oriente sotto l’amministrazione Clinton; Denis McDonough, che è stato consigliere per gli affari esteri dell’ex leader della maggioranza democratica al senato, Tom Daschle; e Dan Shapiro, uno dei membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale sotto l’amministrazione Clinton.

A causa delle pressioni esercitate nei confronti di Obama, la squadra che ha gestito la campagna elettorale del senatore dell’Illinois aveva sostenuto che questi ultimi tre sarebbero stati i veri consiglieri di Obama per tutto ciò che riguarda il Medio Oriente.

Le posizioni moderate dei primi tempi

Numerosi reportage giornalistici ricordano che all’inizio della sua vita politica Obama simpatizzava in una certa misura per i palestinesi, chiedeva una politica americana più equilibrata nei confronti del conflitto israelo-palestinese, ed era vicino alle tesi del fronte della pace all’interno del campo israeliano.

Questi reportage ricordano anche che – durante la sua campagna elettorale per entrare al Congresso nel 2000, la quale poi non fu coronata dal successo – egli criticò l’amministrazione del presidente Clinton per il suo sostegno incondizionato all’occupazione israeliana, chiedendole di adottare una posizione più neutrale fra la controparte israeliana e quella palestinese.

Sono state ricordate anche le sue critiche del 2004 contro il muro di separazione che Israele stava costruendo in Cisgiordania.

Nel marzo del 2007, nel corso della sua campagna elettorale Obama aveva dichiarato al giornale ‘Des Moines Register’, nello Stato dell’Iowa, che “nessuno ha sofferto più del popolo palestinese”.

Questa dichiarazione attirò su Obama una tempesta di critiche da parte della sua principale concorrente alle primarie del partito democratico, la senatrice Hillary Clinton, e da parte delle organizzazioni ebraiche.

I collaboratori di Obama non tardarono a diffondere un “chiarimento” in cui si diceva che il senatore democratico intendeva dire che “nessuno ha sofferto più del popolo palestinese a causa dell’incapacità della sua leadership di riconoscere Israele, di condannare la violenza, e di mostrare maggiore serietà nei negoziati per la pace e la sicurezza nella regione”. Questo è un linguaggio che Obama ha poi nuovamente utilizzato in seguito.

L’ “addomesticamento” di Obama

Con l’elezione di Obama al senato in rappresentanza dello Stato dell’Illinois, e con i primi accenni ad una sua possibile candidatura alla presidenza americana da parte del partito democratico, era necessario che egli utilizzasse toni che fossero maggiormente in accordo con la linea politica tradizionale degli Stati Uniti.

Uno degli elementi essenziali della linea politica ufficiale americana è Israele, ed il sostegno assoluto nei suoi confronti, al di là di qualsiasi possibile divergenza. Si tratta di una questione che non è legata a considerazioni di partito, ed è proprio a questo che ha accennato lo stesso Obama nel suo famoso discorso del 4 giugno 2008, tenuto presso l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) a Washington.

Dopo l’esperienza al senato americano, è apparso in maniera evidente il cambiamento nelle posizioni di Obama. Lo dimostra il fatto che egli ha votato a favore dei provvedimenti legislativi legati ad Israele, tra i quali figura l’appoggio allo stato ebraico nella sua guerra contro Hezbollah nell’estate del 2006.

Tuttavia il breve curriculum di Obama a sostegno di Israele, durante i due anni al senato che hanno preceduto la sua candidatura alle presidenziali, non è stato sufficiente a spingere le organizzazioni ebraiche americane ad aver fiducia in lui.

Nel gennaio del 2008, con la sua sorprendente vittoria nell’Iowa durante le primarie del partito democratico, e con il crescere delle sue probabilità di divenire il candidato presidenziale dei democratici, fu scatenata contro di lui una violenta campagna, soprattutto da parte della sua principale concorrente di allora, la senatrice Hillary Clinton. Tale campagna insinuava che egli fosse nascostamente musulmano, oltre a mettere in dubbio il suo appoggio nei confronti di Israele.

Ad aumentare le pressioni nei confronti di Obama, giunse la diffusione delle dichiarazioni di Jeremiah Wright, il pastore della chiesa frequentata dal senatore democratico – dichiarazioni nelle quali aveva criticato Israele e l’occupazione dei territori palestinesi.

Per contrastare questa campagna su vasta scala, Obama optò per l’adozione di un linguaggio più apertamente favorevole ad Israele. Questo suo spostamento su posizioni più favorevoli ad Israele raggiunse il suo culmine in occasione del discorso che egli tenne alla conferenza dell’AIPAC nel giugno del 2008.

Un chiaro atteggiamento filo-israeliano

Nel suo discorso all’AIPAC, Obama giunse ad esaltare Israele ed il sogno che lo stato ebraico rappresenta, annunciando che: “La nostra alleanza si fonda su interessi e valori condivisi. Coloro che minacciano Israele, minacciano noi…Lavorerò per garantire che Israele sia in grado di proteggersi da qualsiasi minaccia, da Gaza a Teheran”.

Obama cercò anche di dare l’impressione che la sua opposizione alla guerra in Iraq fosse dovuta ai timori che egli nutriva per gli interessi di Israele, giacché la guerra in Iraq aveva rafforzato l’Iran, il quale rappresenta la vera minaccia per lo stato ebraico.

Nel suo discorso, egli si spinse ad annunciare il suo sostegno a favore di una “Gerusalemme unificata” capitale di Israele, una posizione che è in contrasto con la linea adottata dalle amministrazioni americane a partire dalla guerra del 1967 fino ad oggi.

E’ vero che, nel corso della sua campagna elettorale, egli ha poi smentito questa dichiarazione sostenendo di essere stato frainteso, e affermando che la questione sarà decisa dai negoziati finali fra israeliani e palestinesi, tuttavia questa dichiarazione dimostra fin dove Obama è disposto a spingersi per ingraziarsi il favore degli ebrei americani e di coloro che li appoggiano all’interno degli Stati Uniti.

Nello stesso discorso, Obama ha cercato di dare l’idea che il suo impegno a favore di Israele e della sua sicurezza rappresenti una sua convinzione personale. Egli ha paragonato la propria esperienza di ricerca dell’identità – in qualità di figlio di un africano del Kenya e di una donna bianca del Kansas, che non ha vissuto con suo padre, ma con il secondo marito di sua madre in Indonesia, per poi stabilirsi nello Stato delle Hawaii – all’esperienza degli ebrei che hanno cercato di incarnare la propria identità nella terra di Israele dopo anni di sofferenze e di speranze.

D’altra parte, il programma di politica estera Obama-Biden indica che la pietra angolare delle strategie della nuova amministrazione americana in Medio Oriente sarà Israele, e che tale programma ruoterà intorno all’impegno assoluto a garantire la sicurezza dello stato ebraico, ad aiutarlo a sviluppare un proprio sistema di difesa antimissile, e ad assicurare la continuità del sostegno economico e militare americano nei suoi confronti.

Una pace nell’interesse di Israele

Tornando alla questione delle contraddizioni esistenti fra le posizioni moderate di Obama nella fase precedente alla sua elezione al senato, e le sue dichiarazioni filo-israeliane del periodo successivo – e tornando ad esaminare il modo in cui tali contraddizioni si riflettono sulla scelta della squadra dei suoi consiglieri – osserviamo che Obama potrebbe effettivamente fare della questione legata al raggiungimento di una “pace definitiva” in Palestina uno degli obiettivi principali della sua amministrazione.

Tuttavia, la realizzazione di una pace del genere richiede numerose concessioni da parte israeliana. Obama si rende conto di questo, così come si rende perfettamente conto del fatto che simili concessioni richiederanno una pressione da parte americana nei confronti di Israele, e ciò farà infuriare lo stato ebraico ed i suoi sostenitori a Washington. Dunque, come farà Obama a conciliare il suo impegno a realizzare la pace con il suo orientamento favorevole ad Israele?

Nel suo discorso davanti all’assemblea dell’AIPAC a cui abbiamo accennato sopra, il candidato Obama aveva cercato di affrontare la questione dalla prospettiva secondo cui la pace sarebbe al servizio del supremo interesse di Israele. Egli disse che “tutte le componenti politiche all’interno di Israele si rendono conto del fatto che la sicurezza si ottiene con la pace; dunque è bene che noi, in qualità di amici di Israele, facciamo tutto quanto è in nostro potere per aiutare Israele ed i suoi vicini a realizzare questo obiettivo”.

Tuttavia, per raggiungere tale obiettivo vi sono delle condizioni che la controparte palestinese ed araba deve soddisfare in via preliminare – secondo quanto ha affermato Obama nello stesso discorso. I palestinesi devono combattere il terrorismo, e gli arabi devono normalizzare i propri rapporti con Israele.

In cambio, lo stato ebraico adotterà delle misure – che non siano in contrasto con le sue esigenze di sicurezza – per favorire la circolazione dei palestinesi, migliorare le condizioni economiche in Cisgiordania, ed impedire la costruzione di nuovi insediamenti.

E’ vero che Obama ha parlato, nello stesso discorso, della “necessità” che i palestinesi dispongano di uno stato geograficamente contiguo e coeso che permetta loro di prosperare, tuttavia qualsiasi accordo con i palestinesi dovrà garantire il carattere ebraico dello stato di Israele, all’interno di confini sicuri, riconosciuti e facilmente difendibili.

Obama ha anche sostenuto il diritto di Israele ad avviare nuovamente i negoziati con la Siria senza alcun veto da parte dell’amministrazione americana, aggiungendo che egli continuerà ad esercitare pressioni nei confronti della Siria affinché quest’ultima ponga fine alle sue ingerenze in Libano e smetta di appoggiare il “terrorismo”, alludendo con questa espressione a Hezbollah ed alle organizzazioni della resistenza palestinese presenti in Siria.

Conclusioni

Da quanto esposto fin qui emerge che Obama cercherà realmente di portare avanti i negoziati di pace in Medio Oriente, ma dovrà affrontare numerose sfide.

In primo luogo, sebbene egli parta da una posizione filo-israeliana, ciò non significa che Israele agirà di comune accordo con gli sforzi del nuovo inquilino della Casa Bianca. I governi israeliani si sono infatti sempre mostrati restii ad ottemperare agli impegni presi con le precedenti amministrazioni americane.

In secondo luogo, Obama non ha una visione chiara del tipo di soluzione che egli si prefigge di raggiungere. Sebbene egli abbia parlato di uno stato palestinese geograficamente contiguo, e dello stop alla costruzione di nuovi insediamenti, non ha chiarito quali saranno i confini di questo stato, e non ha indicato quale sarà la sorte degli insediamenti attuali, che occupano circa il 20% della Cisgiordania, per non parlare poi delle questioni di Gerusalemme, dei profughi, delle risorse idriche, ecc..

Naturalmente, l’ovvia risposta che verrà data a questi interrogativi è che queste questioni saranno lasciate al negoziato fra le due controparti. Tuttavia, l’esperienza di 17 anni di negoziati israelo-palestinesi dimostra senza ombra di dubbio che non ci si può affidare soltanto alla trattativa fra le parti coinvolte.

A ciò si aggiunga il fatto che lo stesso Obama ha indicato con chiarezza che qualunque soluzione dovrà tenere in considerazione la “sicurezza” di Israele – un’espressione estremamente vaga e dal significato manipolabile a piacere. Per non parlare poi del fatto che egli ha dichiarato che gli Stati Uniti non cercheranno di imporre alcuna soluzione ad Israele. Ma quest’ultima è un’affermazione che svuota di qualsiasi significato il ruolo di mediazione che ci si attende dall’America.

Inoltre, Obama sta compiendo gli stessi errori commessi dalle precedenti amministrazioni americane. Egli continua infatti a rifiutarsi di coinvolgere nei negoziati quelle forze palestinesi che hanno una presenza reale sul terreno, ed in particolare Hamas, che ottenne un’ampia maggioranza attraverso elezioni libere ed imparziali.

Obama chiede infatti il soddisfacimento di alcune precondizioni per accettare Hamas come partner nei negoziati. Queste condizioni sono il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele in qualità di stato ebraico, la condanna della violenza (ovvero della resistenza), ed il riconoscimento degli accordi firmati in precedenza dall’OLP. Si tratta, in altre parole, di questioni che dovrebbero essere discusse all’interno dei negoziati, e non imposte come precondizioni per avviare i negoziati stessi.

In breve, possiamo dire che Obama è incline ad adottare il modello di Bill Clinton nella gestione del processo di pace in Medio Oriente, piuttosto che quello di Bush. Se Clinton era intervenuto personalmente nei negoziati, Bush se ne era astenuto, o lo aveva fatto con estrema riluttanza.

Tuttavia, l’avvilente situazione economica in cui si trovano gli Stati Uniti potrebbe far sì che la promessa di Obama di impegnarsi direttamente ed immediatamente nei negoziati di pace non sia realizzabile nei primi due anni del suo mandato, sebbene questa questione si trovi in cima alla lista delle priorità della nuova amministrazione.

Inoltre, l’impegno dell’amministrazione americana nei negoziati avverrà in ogni caso da una prospettiva filo-israeliana, poiché l’orientamento filo-israeliano è una caratteristica stabile delle politiche americane che nessun presidente, da solo, può cambiare.

Tuttavia, vi è la speranza che l’orientamento filo-israeliano dell’amministrazione Obama sia un orientamento consapevole, e permetta di conseguenza di giungere a risultati che le precedenti amministrazioni non avevano ottenuto.

Ma, ancora una volta si tratta soltanto di speranze, visto che la semplice candidatura di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato indica che ci troviamo di fronte ad una replica dell’esperienza dell’amministrazione filo-israeliana di Bill Clinton, anche se in un contesto diverso.

E’ infatti evidente che la natura e la storia dei rapporti israelo-americani è tale che questi rapporti sono ben più saldi e più forti di qualsiasi presidente, a prescindere dalla comprensione che quest’ultimo può avere della situazione dei palestinesi e della legittimità delle loro richieste.

Osama Abu Irsheid è un analista politico palestinese residente a Washington; è direttore del giornale ‘al-Mizan’

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