29 luglio 2008

Quando i coloni coabitano con i militari.


Un bel giorno i soldati di una compagnia della Brigata Golani hanno “scoperto” che all’interno della loro base si erano materializzate ben sei roulotte piene di coloni della comunità ebraica di Hebron, ben sistemati e contenti di poter usufruire di tutti i servizi forniti dalla struttura militare.

Sembra incredibile, ma è quello che è accaduto nella base militare israeliana di Mitkanim, situata nei pressi del quartiere Avraham Avinu nella città di Hebron, nella West Bank. Come si può osservare nel video di Channel 10, una ripresa dall’alto mostra la struttura militare e il centro di comando e, in basso, lo spazio occupato dalle roulotte per le famiglie dei coloni, ivi compresi dei prati per far giocare i bambini.

Il movimento Peace Now in questi giorni ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana, chiedendo che l’esercito provveda a evacuare immediatamente i coloni che attualmente risiedono all’interno della base militare.

In risposta, l’esercito israeliano ha dichiarato che l’assegnazione del terreno è stata approvata dalle “autorità competenti”, ma esiste un precedente – relativo al caso della petizione “Alon Moreh” – in relazione al quale la Suprema Corte ha già statuito che è illegale annettere terreni per scopi militari e successivamente cederli in uso ai civili.

Perché due aspetti entrano in gioco in questa gravissima vicenda.

Il primo riguarda la circostanza che vede dei civili risiedere all’interno di una base militare, in violazione delle norme del diritto umanitario che definiscono il principio di separazione tra popolazione civile e militari.

Sempre che possano definirsi come civili quelle vere e proprie bande paramilitari costituite dai coloni, gentaglia barbara e razzista, pesantemente armata e dedita all’aggressione della popolazione civile palestinese, e che non disdegna peraltro di attaccare persino i soldati dell’Idf nei rari casi in cui questi cercano di imporre il rispetto della legge.

Ma, soprattutto, la vicenda di Mitkanim mostra come, ancora una volta, l’esercito israeliano sottragga estensioni di terreno sempre più ampie ai legittimi proprietari palestinesi, accampando falsamente esigenze di carattere militare, ma in realtà aiutando subdolamente i coloni israeliani a stabilire nuovi avamposti del tutto illegali. Ciò è ancor più grave laddove si consideri che questo accade in un’area “sensibile” come quella di Hebron, più e più volte teatro di violenze dei coloni e di brutali crimini dell’esercito israeliano ai danni della popolazione residente.

Mentre continuano i proclami di chi vede un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi a portata di mano, la realtà sul terreno mostra quali siano le reali intenzioni di Israele, le sue spudorate menzogne e le false rassicurazioni che, a giorni alterni, riguardano la rimozione dei check point, l’evacuazione degli avamposti, il miglioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, la fine dell’assedio a Gaza.

La realtà è che non uno degli avamposti illegali di cui la road map ha chiesto l’evacuazione è stato rimosso, ed anzi lo stato israeliano e il suo esercito si attivano con encomiabile efficienza a facilitarne l’insediamento di nuovi.

La realtà è che Israele è un partner subdolo, menzognero e assolutamente inaffidabile per la pace, e sarebbe ora che la comunità internazionale cominciasse a tenerne conto.

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27 luglio 2008

Gaza libera! Un aggiornamento.

Dal blog di guerrillaradio riprendo queste brevi note scritte dall’amico Vittorio, in procinto di partire, insieme ai suoi compagni del Free Gaza Movement, per una spedizione umanitaria a Gaza.

Note scritte nei giorni in cui l’UN Relief and Works Agency (UNRWA) rende noto, nel suo ultimo
rapporto pubblicato il 24 luglio, che alla fine del 2007 il tasso di disoccupazione nella Striscia di Gaza ha raggiunto il livello senza precedenti del 45,3%, mentre il numero delle famiglie il cui reddito si situa al di sotto della soglia di povertà è pari al 51,8%. Circa il 35% dei nuclei familiari si trova addirittura sotto la soglia della povertà estrema, rappresentata da un reddito mensile di $457 per una famiglia di sei persone, e questo nonostante i significativi aumenti riscontrati nel livello di aiuti umanitari e di emergenza.

Note scritte nei giorni in cui John Ging, direttore operativo dell’UNRWA a Gaza, ha
dichiarato che “i poveri qui a Gaza non godono dei benefici della tregua e le loro condizioni di vita continuano a peggiorare, dal momento che Israele ancora non consente le forniture di tutti i generi di beni essenziali e di cibo a Gaza”, criticando aspramente Israele, inoltre, per le scarse quantità di carburanti fornite alla Striscia, pari a circa il 25% di quanto precedentemente consentito.

La realtà insomma è che, spenti i riflettori dei media e distolta l’attenzione dell’opinione pubblica, Israele continua a strangolare la Striscia di Gaza e a imporre una criminale punizione collettiva a un milione e mezzo di Palestinesi, pur avendo ottenuto in cambio quanto aveva chiesto, e cioè la cessazione dei lanci di Qassam verso il proprio territorio.

Per questo l’iniziativa del Free Gaza Movement assume una importanza basilare e va sostenuta in ogni modo, ivi inclusa la meritoria donazione di sia pur piccole somme di danaro.

Aiutiamo Gaza e i Palestinesi!


In viaggio per lenire la catastrofe innaturale di Gaza.
25/7/2008

Si apprende così tanto dal dolore proprio,
nel sondare le radici dell'urlo,
setacciando le cocenti delusioni,
seppellendo i propri morti,
giorno per giorno,
cadavere per cadavere, cicatrice per cicatrice,
le vittime delle speranze incolte,
costatando che le illusioni non sono altro che stelle comete di un firmamento fossile,
sogni cadenti, appunto, suicidi.

A frequentare il dolore si diventa come laureati in dolore,
senza mai aver frequentato alcuna facoltà universitaria,
se non la propria esistenza, avara di gioie, generosa di asperità,
di cruda amarezza.
Per alcuni il destino è benevolo,
per altri cinico e beffardo.

Quale destino è più cinico e beccamorto dei palestinesi imprigionati a Gaza?

Ci sono vite più spendibili di altre, più dedite al sacrificio avendo testato sulla propria pelle tutta la sofferenza del mondo, e non riuscendo a scrollarsela di dosso, si impegnano per prevenirla, lenirla a chi sta più a cuore.

Sulla mia stessa barca, solcando onde di una marea di speranza, di giustizia, di legalità per un popolo oppresso, ci saranno dei docenti del dolore, tre settantenni vittime sopravvissute alla Nakba, la catastrofe palestinese del '48, e Hedy Epstein, ebrea 84enne sopravvissuta all'Olocausto.
Veri e propri docenti in disperazione ed esilio, che hanno impegnato la loro longeva vita affinchè disperati non ce ne siano più come loro.

E' inconcepibile voler far pagare l'irrisarcibile prezzo della tragedia dell'Olocausto al popolo palestinese, ma l'inerzia della comunità internazionale, se non una vera e propria complicità ai crimini perpetrati da Israele paiono voler avvalorare questa tesi.

Noi, attivisti per i diritti umani e operatori umanitari che per il nostro operato pacifista e non violento in Palestina siamo stati arrestati, incarcerati, e processati dalle corti israeliane, se non uccisi, abbiamo condiviso giorno per giorno, lutto per lutto, devastazione dopo devastazione, tutta la tragedia di un popolo oppresso ma mai e poi mai piegato alla resa dinnanzi al lento ma costante genocidio messo in atto da Israele.

Per tutto quello che abbiamo convissuto, e imparato dai palestinesi, una lezione di stoica resistenza, di umanità generosa, di umiltà fiera, non possiamo voltare le spalle dinnanzi alla loro tragedia, "la questione morale dei nostri tempi", come dice Nelson Mandela.

Oltre ai premi Nobel per la Pace Desmond Tutu e Jimmy Carter, anche un altro premio Nobel per la Pace, Mairead Maguire, ha recentemente espresso il suo sostegno alla nostra missione.

Il regista inglese Ken Loach ci ha inviato un contributo in sterline e ha espresso il suo supporto.

Su questo sito non siamo soliti chiedere denaro, ma i compagni di Free Gaza Movement mi comunicano che alla vigilia della partenza siamo sotto di alcune migliaia di dollari, per cui chiedo a chi ne ha la possibilità di versare una piccola somma tramite questo indirizzo:

http://www.freegaza.org/index.php?module=our_mission

Il fine della nostra missione è quello di rompere l’assedio in cui è imprigionata Gaza, aprire il suo porto, restituirle sovranità, un barlume di libertà.
Oltre a portare con noi delle reti, e se riusciremo a sbarcare per prima cosa vorremo scortare a pescare con noi i pescatori palestinesi, desideriamo andare ad aiutare nelle scuole, negli ospedali, sulle ambulanze.
Sulla via del ritorno verso Cipro, vogliamo portare con noi tutti quei palestinesi che necessitano di cure mediche urgenti ed immediate.

Ci sono terribili catastrofi naturali a questo mondo, come terremoti e uragani, inevitabili.
A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria perpetrata da Israele ai danni di un popolo che vorrebbe ridotto alla più completa miseria, sottomissione.
Il mondo intero non può ignorare questa tragedia, e se lo fa, non includeteci in questo mondo.
Chiediamo solo che alcune semplici imbarcazioni approdino a Gaza con il loro carico di pace, amore, empatia, che a tutti i palestinesi siano concessi gli stessi diritti di cui godono gli israeliani, e qualsiasi altro popolo del pianeta.

Vittorio Arrigoni
(attivista per i diritti umani e blogger)

blog:http://guerrillaradio.iobloggo.com/
website della missione: http://www.freegaza.org/
mail: guerrillaingaza@gmail.com

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24 luglio 2008

La psiche scissa di Israele.

Avevo già notato e apprezzato questo articolo di Carlo Strenger, apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 2 luglio scorso, ma le incombenze quotidiane mi avevano costretto a metterlo da parte e poi a dimenticarlo. Per fortuna, ancora una volta, soccorre l’aiuto della preziosa traduzione del sito Arabnews, riportata qui di seguito.

In questo articolo, Strenger mette bene in evidenza l’anomalia di uno Stato e di una collettività che, da una parte, formalmente riconoscono i diritti umani fondamentali e, dall’altra, li negano con spietata ferocia e determinazione ai Palestinesi che vivono nei Territori occupati.

Il filosofo ebreo si rende ben conto del profondo degrado morale – peraltro già da altri segnalato – che la società israeliana attraversa a causa dell’occupazione e della difesa ad oltranza di colonie e “avamposti” illegali, e lo ricollega a quella sorta di “sindrome dell’accerchiamento” che continua ad attanagliare gli ebrei israeliani (ma anche quelli della diaspora…), facendoli sentire perennemente assediati e in pericolo di fronte ad un nemico soverchiante ed ostile, sì da giustificare ogni crimine e ogni abominio in nome della “sicurezza” di Israele e dei suoi cittadini.

Tale degrado morale, aggiungo io, non si limita peraltro solo all’occupazione e alle politiche di apartheid praticate nei Territori palestinesi, ma si estende pericolosamente anche all’interno di Israele, con il prevalere di pratiche legislative e amministrative caratterizzate da una palese discriminazione razziale.

Scrive Strenger che “solo quando (noi israeliani) ci sveglieremo al mattino con la consapevolezza che non ci sono più orrori indifendibili da mettere a tacere, non più giovani soldati inviati a compiere un incarico che li segnerà per tutta la vita, e non più donne palestinesi che perdono i loro bambini solo perché non riescono a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo capaci di superare gli enormi problemi interni alla nostra società”.

Si tratta di un appello accorato su cui ogni persona di buon senso in Israele dovrebbe riflettere.

La psiche scissa di Israele.
2.7.2008

In occasione del convegno annuale sullo “stato della nazione” organizzato dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, il deputato Avishay Braverman (membro del partito laburista, n.d.t.) ha lamentato che Israele sta andando in pezzi. Il nostro sistema educativo, di cui un tempo in Israele s’andava fieri, è allo sfascio; la corruzione nella pubblica amministrazione è alle stelle; le nostre università stanno morendo di fame; e il debito pubblico è drammatico quasi quanto quello del Brasile.

Le lamentele di Braverman riflettono un disagio generalizzato che pervade lo stato d’animo della popolazione israeliana. Per la prima volta nella storia di Israele lo scetticismo riguardo alle sue possibilità di sopravvivenza, le preoccupazioni sul suo sistema di norme statali, e l’interrogativo se esisterà ancora fra 50 anni, serpeggiano nella società e nei media. Ciò è strano, se si pensa che in passato Israele è stato in situazioni di pericolo esterno ben più gravi, e che oggi le sue risorse economiche e militari sono meglio sviluppate che mai.

Allora perché Israele è incapace di affrontare i suoi problemi sociali? Perché gli scandali per corruzione, lo stato penoso del nostro sistema educativo, o lo stallo della nostra situazione geopolitica, non portano la gente in piazza? Dopo Sabra e Chatila l’opinione pubblica israeliana era eccitata: centinaia di migliaia di persone si mobilitarono per dimostrare in quella piazza dove 13 anni più tardi Yitzhak Rabin sarebbe stato assassinato. La Commissione Kahan, nominata a seguito delle pressioni della protesta popolare, stabilì che Ariel Sharon non era adatto a svolgere il ruolo di ministro della difesa in futuro.

In passato Israele era certo della sua moralità. Il sentimento attuale che la società israeliana stia andando in pezzi riflette invece qualcosa di essenzialmente inedito: Israele non è più certo dei suoi fondamenti morali. Tale paralisi riflette un diffuso senso di colpa riguardo al comportamento attuale di Israele. Da un lato Israele sta facendo un grosso sforzo per dar vita a una società morale, democratica e creativa; dall’altro, nei Territori occupati Israele continua a costruire doppi sistemi stradali, a espropriare le terre palestinesi, a tagliare in due i villaggi palestinesi con il muro di sicurezza, a impedire alle donne palestinesi di raggiungere gli ospedali per partorire. Sotto questo aspetto, la psiche collettiva di Israele ricorda quella di una personalità scissa in situazione post-traumatica. Gli uomini che hanno subito un trauma, in genere legato al servizio militare, spesso sono capaci di mantenere una apparenza di rispettabilità durante il giorno, per poi dare sfogo a scoppi di violenza apparentemente inspiegabili quando ritornano a casa la sera.

La psiche collettiva di Israele funziona in modo similare: a partire dal 1948 poco dopo l’Olocausto, fino al 1967, l’esistenza di Israele fu realmente in pericolo. Il Paese dipendeva soltanto dal suo valore in battaglia, mentre disponeva solo di pochi alleati fedeli. Proprio come se non ci fossimo mai affrancati dal passato, continuiamo ad agire come se Israele fosse ancora un piccolo e isolato ‘Yishuv’ (letteralmente ‘insediamento’; con tale termine si indicano gli ebrei che risiedevano in Palestina prima della creazione dello stato di Israele n.d.t.) minacciato di estinzione immediata, e come se ogni nostra azione fosse giustificata dalla necessità di salvaci la vita. Israele, come società e come paese, accetta e rispetta il principio morale dei diritti umani universali. Dentro di noi, sappiamo bene che è moralmente indifendibile il fatto che causiamo sofferenze a milioni di palestinesi in Cisgiordania per mezzo degli insediamenti costruiti in profondità nei Territori. Eppure lasciamo questo che accada. Badiamo alla nostra convenienza e tentiamo di tacitare la nostra coscienza dicendo: “Non c’è un interlocutore”, o “I posti di blocco sono necessari per impedire gli attacchi terroristici”, o ancora “Guardate che cos’è accaduto quando abbiamo lasciato Gaza! Ce ne siamo andati, e tutto ciò che abbiamo ottenuto sono gli attacchi dei razzi Qassam!”

Mentre l’ultima affermazione ha una qualche validità, tutti i sondaggi evidenziano che la maggior parte degli israeliani crede che gli insediamenti all’interno della Cisgiordania mettano a repentaglio la sicurezza di Israele invece di accrescerla; e anche gli esperti militari sono di questo parere. E questi insediamenti sono la ragione principale che è alla base della stragrande maggioranza dei posti di blocco e degli espropri che rendono la vita impossibile ai palestinesi, e che hanno portato quasi tutti i palestinesi a ritenere che Israele, in realtà, non desideri la pace.

C’è solo un modo per porre fine al disagio generalizzato e spazzar via il timore che Israele sia costruito sulle sabbie mobili. È rimettere in sesto la spina dorsale di moralità che è stata danneggiata dalla scissione della psiche israeliana tra una metà rispettabile che crede nella democrazia e nei diritti umani, e l’altra metà che insensibilmente e automaticamente continua a violare tutte le norme in cui tutti noi crediamo. Dobbiamo assolutamente recuperare la capacità di fare un sincero esame di coscienza per ritornare a essere responsabili delle nostre azioni.

Io prevedo che la paralisi terminerà nel momento in cui Israele troverà la volontà politica di dire ai coloni: “noi comprendiamo il vostro dolore e la vostra rabbia, ma abbiamo fatto un terribile errore inviandovi nei Territori. La sopravvivenza morale e politica di Israele dipende dal vostro ritorno a casa”.
Solo quando ci sveglieremo al mattino con la consapevolezza che non ci sono più orrori indifendibili da mettere a tacere, non più giovani soldati inviati a compiere un incarico che li segnerà per tutta la vita, e non più donne palestinesi che perdono i loro bambini solo perché non riescono a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo capaci di superare gli enormi problemi interni alla nostra società.

La psiche israeliana ha bisogno di essere liberata dal fardello insostenibile della colpa, se veramente vogliamo ritrovare la nostra capacità di superare le avversità, e la convinzione che abbiamo il diritto di vivere in questa terra. Solo allora sarà liberata anche la creatività e l’intraprendenza che riconosciamo nella gestione degli affari di Israele, nella ricerca e nello sviluppo, nel fiorire della scena artistica, al fine di creare quella società che tutti noi desideriamo.

Carlo Strenger, filosofo e psicanalista, insegna presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv; è membro del comitato permanente di monitoraggio sul terrorismo della World Federation of Scientists

Titolo originale: Israel’s split psyche

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22 luglio 2008

Gaza libera!


Il movimento “Gaza libera” ha reso noto, con un comunicato, che il prossimo 5 agosto una sessantina di attivisti palestinesi, israeliani e di varie altre nazioni – tra cui l’amico Vittorio Arrigoni – partiranno in nave da Cipro con destinazione Gaza, per sfidare e, insieme, denunciare al mondo l’assurdo e inaudito assedio imposto da Israele a un milione e mezzo di Palestinesi residenti nella Striscia di Gaza.

Nonostante il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 giugno scorso, infatti, Israele non ha mantenuto se non in minima parte l’impegno preso a ridurre gradualmente le restrizioni all’accesso di persone e merci nella Striscia; in tal modo, le importazioni di carburante e di gas da cucina continuano ad essere largamente inferiori a quanto sarebbe necessario, rappresentando rispettivamente il 54% e il 40% del fabbisogno, mentre si riscontrano carenze di vari generi alimentari, in special modo per quanto riguarda la carne.

Ma le conseguenze più devastanti dell’embargo imposto a Gaza riguardano il settore sanitario, con oltre 370 tipi di medicine non più disponibili o in via di esaurimento, e con una crescente mancanza di pezzi di ricambio per le apparecchiature mediche quali tac, eco-doppler, monitor cardiaci.

Questo senza contare il divieto imposto ai malati di Gaza di recarsi in Israele o all’estero per ricevere le cure di cui non possono disporre nella Striscia: ad oggi, sono 213 i Palestinesi deceduti a causa di questa infamia, 46 erano bambini.

La spedizione organizzata dal movimento “Gaza libera”, che comprende varie personalità e alcuni sopravvissuti dell’Olocausto e della Nakba, cercherà di raggiungere Gaza per protestare contro questa barbara punizione collettiva e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla catastrofe umanitaria in atto a Gaza.

Secondo le parole di Hedy Epstein, una reduce dell’Olocausto, “intendiamo aprire il porto, pescare con i pescatori, dare aiuto negli ospedali e lavorare nelle scuole; ma intendiamo anche ricordare al mondo che noi non staremo a guardare un milione e mezzo di persone che muoiono per la fame e per le malattie”.

Che Iddio vi assista.

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18 luglio 2008

Gli ottimi risultati del sistema educativo israeliano.











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14 luglio 2008

Peggiore dell'apartheid.

I media di regime sono pieni di resoconti sul vertice di Parigi per la nascita dell’Unione per il Mediterraneo e delle dichiarazioni ottimistiche di Olmert, Sarzozy, Berlusconi e compagnia varia, i quali tutti all’unisono affermano di non aver mai visto la pace tra Palestinesi e Israeliani così vicina.

Nessuno spazio, nemmeno un minimo accenno, alla recente visita di una delegazione di attivisti per i diritti umani proveniente dal Sud Africa, che solo un paio di giorni prima aveva trovato la situazione dei Territori palestinesi occupati disastrosa e scioccante, tanto da definire l’occupazione militare israeliana come un regime peggiore dell’apartheid.

Questo è il titolo dell’articolo che, il 12 luglio scorso, Gideon Levy di Ha’aretz ha dedicato a questa visita, articolo qui proposto nella traduzione del sito web degli
“Ebrei contro l’occupazione”.

Si continua a far finta di non vedere la realtà dell’occupazione israeliana, del regime dei check point, delle barriere e delle strade a uso esclusivo dei coloni, si continua a ignorare l’espansione degli insediamenti colonici, si dimentica che persino la Banca Mondiale ha avvertito che investire nei Territori palestinesi equivale a buttare soldi in un pozzo senza fondo se non verrà eliminato il regime delle chiusure, dei check point, degli ostacoli alla circolazione.

E giornali e televisioni, ossequiosi fino alla nausea, semplicemente “dimenticano” ogni notizia che possa gettare cattiva luce su Israele, in questo come in mille altri casi.

Ad esempio, evitando di riportare la notizia che Israele ha negato l’ingresso a una delegazione del Comitato Speciale dell’Onu che investiga sulle violazioni dei diritti umani praticate da Israele a danno dei Palestinesi dei Territori occupati, senza alcuna spiegazione né alcun motivo.

Il Presidente del Comitato, Prasad Kariyaawasam, dopo aver protestato ufficialmente, ha ritenuto di dover denunciare “il deterioramento dei diritti umani e della situazione umanitaria nei Territori palestinesi occupati, la grave situazione nella Striscia di Gaza, l’impatto del muro di separazione sui diritti umani del popolo palestinese, e la continuazione della politica degli insediamenti colonici.

Ma l’Onu, è ormai risaputo, è solo un’accolita di ottusi burocrati o, peggio, di biechi antisemiti, che non si accorgono di quanto ormai sia vicina la pace…

Haaretz, 10 luglio 2008

Pensavo che si sentissero a casa propria nei vicoli del campo profughi di Balata, nella Casbah e al posto di blocco di Hawara. Ma hanno detto che non c'era paragone: per loro il regime dell'occupazione israeliana è peggiore di qualunque avessero conosciuto sotto l'apartheid. Questa settimana, 21 attivisti per i diritti umani, provenienti dal Sud Africa, hanno visitato Israele. Fra loro, vi erano appartenenti all'African National Congress di Nelson Mandela; almeno uno aveva preso parte alla lotta armata, e almeno due erano stati in carcere. Vi erano due giudici della Corte Suprema del Sud Africa, un ex vice-ministro, parlamentari, avvocati, scrittori e giornalisti; neri e bianchi, almeno la metà ebrei, oggi in conflitto con l'atteggiamento conservatore della comunità ebraica nel loro Paese. Alcuni erano stati qui in precedenza, per altri era la prima visita.

Per cinque giorni sono stati a visitare Israele in modo anticonformistico – senza Sderot, l'esercito e il Ministero degli Affari Esteri (ma con Yad Vashem, il monumento allo sterminio, e un incontro con la Presidente della Corte Suprema, la Giudice Dorit Beinisch). Hanno passato la maggior parte del tempo nelle aree occupate, dove quasi nessun ospite ufficiale va – nei luoghi evitati pure dalla maggior parte degli israeliani.

Il lunedì hanno visitato Nablus, la città più imprigionata della Cisgiordania; da Hawara alla Casbah, dalla Tomba di Giuseppe al monastero del Pozzo di Giacobbe. Si sono spostati da Gerusalemme a Nablus con l'Autostrada 60, osservando i villaggi imprigionati che non hanno accesso alla strada principale, e vedendo le “strade per gli indigeni”, che vi passano sotto. Hanno visto e non hanno detto alcunché. Non c'erano strade separate, sotto l'apartheid. Sono passati, muti, attraverso il posto di blocco di Hawara: non avevano mai avuto barriere di quel tipo.

Jody Kollapen, che dirigeva gli Avvocati per i Diritti Umani nel regime dell'apartheid, osserva in silenzio. Vede la “giostra” in cui si schiacciano masse di persone che vanno al lavoro, a vedere la famiglia o all'ospedale. Neta Golan, che è vissuta per diversi anni nella città assediata, spiega che solo lo 1% degli abitanti ha il permesso di lasciare la città in auto; si sospetta che siano dei collaborazionisti con Israele. Nozizwe Madlala-Routledge, ex vice-ministro della difesa e della sanità, attualmente parlamentare, figura riverita nel suo Paese, è colpita dal vedere un ammalato portato in barella. “Privare la gente di cure mediche umane? Sapete, si muore, per quello”, dice sottovoce.

Le guide del tour – attivisti palestinesi – spiegano che Nablus è isolata da sei posti di blocco; fino al 2005, uno era aperto. “Si suppone che vi siano motivi di sicurezza per i posti di blocco, ma chiunque voglia perpetrare un attacco può pagare 10 shekel per un taxi e percorrere circonvallazioni, o camminare sulle colline.

Il vero scopo è rendere la vita difficile agli abitanti. La popolazione civile soffre”, dice Said Abu Hijla, lettore all'Università Al-Najah, nella città.

Nell'autobus, faccio conoscenza con i mie due vicini: Andrew Feinstein, figlio di sopravvissuti allo sterminio, che ha sposato una musulmana proveniente dal Bangladesh, ed è stato parlamentare per sei anni per l'ANC; e Nathan Gefen, che ha come partner un uomo musulmano, e che da giovane apparteneva al movimento di destra Betar. Nel suo Paese, devastato dalla malattia, Gefen è attivo nel Comitato contro l'AIDS.

“Guardate a sinistra e a destra”, spiega la guida, con l'altoparlante, “sulla cima di ogni collina, sul Gerizim e sull'Ebal, c'è un avamposto dell'esercito israeliano che ci osserva”. Qui ci sono fori di proiettili nel muro di una scuola e c'è la Tomba di Giuseppe, sorvegliata da un gruppo di poliziotti palestinesi armati. Qui c'era un posto di blocco, e qui è dove è stata uccisa una passante a cui avevano sparato, due anni fa. L'edificio governativo che c'era qui è stato bombardato e distrutto da aerei da guerra F-16. Mille abitanti di Nablus sono stati uccisi nella seconda intifada: 90 nell'Operazione Scudo Difensivo, più che a Jenin. Due settimane fa, il giorno che è entrata in vigore la tregua nella Striscia di Gaza, Israele ha compiuto quelli che, ad oggi, sono i suoi due ultimi assassinii. La notte scorsa i soldati sono di nuovo entrati, arrestando gente.

È passato molto tempo, da quando qui ci sono stati turisti in visita. C'è qualcosa di nuovo: gli innumerevoli poster-memoriali, attaccati ai muri per commemorare i caduti, sono stati sostituiti, in ogni angolo della Casbah, da monumenti di marmo e da placche di metallo.

“Non gettate la carta nel gabinetto, perché manca l'acqua”, dicono agli ospiti negli uffici del Comitato Popolare della Casbah, posto in alto, in un edificio spettacolare, di pietra vecchia. L'ex vice-ministro si siede a capotavola. Dietro di lei ci sono ritratti di Yasser Arafat, Abu Jihad e Mrwan Barghouti, il leader dei Tanzim, in carcere. Rappresentanti dei residenti nella Casbah descrivono le difficili esperienze a cui fanno fronte. Nell'antico quartiere, il novanta per cento dei bambini soffrono di anemia e di malnutrizione, la situazione economica è terribile, continuano le incursioni notturne, e alcuni abitanti non sono autorizzati a lasciare la città per alcun motivo. Usciamo per un giro sulla traccia delle devastazioni compiute negli anni dall'esercito israeliano.

Edwin Cameron, giudice nella Corte Suprema d'Appello, dice ai suoi ospiti: “Siamo venuti qui con scarse conoscenze, e abbiamo sete di sapere. Siamo colpiti da quanto abbiamo visto finora, ci è molto chiaro che la situazione qui è intollerabile”. Un poster, attaccato a un muro esterno, ha la foto di un uomo che ha trascorso 34 anni in un carcere israeliano. Mandela è stato in prigione per sette anni di meno. Uno dei componenti ebrei della delegazione è pronto a dire, purché non si faccia il suo nome, che il paragone con l'apartheid è assai pertinente, e che gli israeliani sono persino più efficienti nell'implementare il regime di separazione razziale di quanto non fossero i Sud Africani. Se lo affermasse pubblicamente, sostiene, sarebbe attaccato dagli appartenenti alla comunità ebraica.

Sotto un albero di fichi, nel centro della Casbah, uno degli attivisti palestinesi spiega: “I soldati israeliani sono vigliacchi. È per questo che hanno creato vie per spostarsi con i bulldozer. Nel far ciò, hanno ucciso con i bulldozer tre generazioni di una famiglia, gli Shubi”. Qui c'è il monumento in pietra alla famiglia – nonno, due zie, mamma e due bambini. Sulla pietra sono incise le parole “Non dimenticheremo mai, non perdoneremo mai”.

Non meno bello del famoso Pere-Lachaise, a Parigi, il cimitero centrale di Nablus riposa all'ombra di un bosco di pini. Fra le centinaia di pietre tombali, spiccano quelle delle vittime dell'intifada. Qui c'è la sepoltura fresca di un ragazzo ucciso alcune settimane fa al posto di blocco di Hawara. I Sud Africani camminano silenziosamente fra le tombe, fermandosi davanti a a quella di Abu Hijla, madre della nostra guida; era stata raggiunta da 15 proiettili. “Non ci arrenderemo, te lo promettiamo”, hanno scritto i bambini sulla sua lapide; era conosciuta come “madre dei poveri”.

Il pranzo è in un albergo della città, e parla Madlala-Routledge. “È difficile per me descrivere quel che sento. Quel che vedo qui è peggiore di quello che abbiamo sperimentato. Ma mi dà coraggio trovare che qui ci sono dei coraggiosi. Vogliamo sostenervi nella lotta, con ogni mezzo possibile. C'è un discreto numero di ebrei nella nostra delegazione, e siamo molto orgogliosi che siano stati loro a condurci qui; dimostrano il loro impegno a sostenervi. Nel nostro Paese siamo stati capaci di unire tutte le forze in una sola lotta, e fra di noi vi erano bianchi coraggiosi, ebrei compresi. Spero che vedremo più ebrei israeliani unirsi alla vostra battaglia”.È stata vice-ministro alla difesa dal 1999 al 2004; nel 1987 era stata in carcere. Più tardi, le ho chiesto in quali modi la situazione qui è peggiore dell'apartheid. “L'assoluto controllo sulla vita delle persone, la mancanza di libertà di movimento, la presenza dell'esercito dappertutto, la separazione totale e le ampie distruzioni che abbiamo visto”.
Madlala-Routledge pensa che la lotta contro l'occupazione non abbia successo qui a causa del sostegno USA per Israele: con l'apartheid, che le sanzioni internazionali hanno contribuito a distruggere, il caso era diverso. Qui, l'ideologia razzista è anche rinforzata dalla religione; in Sud Africa non era così. “Discorsi sulla 'terra promessa' e il 'popolo eletto' aggiungono una dimensione religiosa, che noi non avevamo, al razzismo”.

Egualmente aspre sono le osservazioni del caporedattore del Sunday Times del Sud Africa, Mondli Makanya, di 38 anni. “Quando osservi da lontano sai che qui va male, ma non sai quanto male. Nulla può prepararti a quanto abbiamo visto qui. In un certo senso, è peggiore, peggiore, peggiore, di tutto quel che abbiamo sopportato. Il livello di discriminazione, il razzismo e la brutalità sono peggiori di quelli del periodo più cupo dell'apartheid”.

“Il regime dell'apartheid considerava i neri inferiori; io penso che gli israeliani non considerino affatto i palestinesi esseri umani. Come può il cervello di un uomo architettare questa separazione totale, le strade separate, i posti di blocco? Quel che abbiamo passato era terribile, terribile, terribile – e tuttavia non c'è paragone. Qui è più terribile ancora. Noi sapevamo anche che un giorno sarebbe finito; qui non c'è una fine in vista. L'uscita dal tunnel è nerissima”.

“Sotto l'apartheid, vi erano posti in cui bianchi e neri si incontravano. Gli israeliani e i palestinesi non si incontrano più affatto; la separazione è totale. Mi sembra che agli israeliani piacerebbe che i palestinesi sparissero. Nel nostro caso, non c'è mai stato alcunché del genere: i bianchi non volevano che i neri si dileguassero. Ho visto i coloni a Silwan [a Gerusalemme Est] – persone che vogliono espellerne altre, dalle loro case”.

Dopo abbiamo camminato in silenzio per i vicoli di Balata, il più grande campo profughi in Cisgiordania, indicato 60 anni fa come rifugio temporaneo per 5.000 persone, che ora ne ospita 26.000. Nei vicoli scuri, ampî all'incirca quanto un individuo magro, vi era un silenzio opprimente. Ognuno era immerso nei suoi pensieri, e il silenzio era interrotto solo dalla voce del muezzin.
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13 luglio 2008

In Iraq gli Usa copiano Israele.

Da Arabnews riporto la traduzione di questo interessante articolo di Ahmad bin Rashid bin Saeed, pubblicato il 5 luglio sul website in lingua inglese Dar al Hayat, in cui si da conto della “israelizzazione” della guerra condotta dagli Usa in Iraq, attraverso l’adozione delle medesime tecniche utilizzate da Israele contro la popolazione civile palestinese: muri, barriere, ghetti, raid aerei, eliminazioni “mirate”, squadroni della morte. Con gli stessi risultati in termini di vittime civili innocenti e di violazione dei diritti umani fondamentali, e con il sospetto che gli Usa si stiano attrezzando a perpetuare l’occupazione anziché pianificarne la fine.

5.7.2008

In Iraq, l’esercito americano che ha occupato il paese è impegnato a costruire muri e barriere di cemento, in applicazione della teoria delle ‘comunità chiuse’ (Gated Communities). Soltanto a Baghdad sono stati eretti 12 muri che separano almeno 11 quartieri sunniti e sciiti, determinando una frammentazione sociale e commerciale che l’Iraq non aveva mai conosciuto prima. Altri muri sono stati costruiti in diverse città irachene, mentre la città di Fallujah è completamente circondata da una barriera di filo spinato che ha un solo varco, in corrispondenza del quale vi è l’ingresso della città.

Nel frattempo, le truppe americane compiono periodicamente campagne di arresti, e bombardano le abitazioni dei ‘sospettati’. Gran parte della città di al-Dawra, come ha riferito un giornalista americano, è ormai una “città di spettri”. La vittoria americana in Iraq ha ridotto la città in uno stato di avvilente miseria. Le acque delle condotte fognarie riempiono le strade, e cumuli di rifiuti e di detriti spiccano fra le pozze inquinate.

Ma la cosa che maggiormente attira l’attenzione della gente di al-Dawra è il muro, alto più di tre metri e mezzo, costruito dagli americani per separare le fazioni in conflitto ed obbligare gli abitanti a rimanere nei propri luoghi di residenza. A causa di quel muro, al-Dawra appare desolata e priva di vita. In Iraq, la strategia americana della violenza, fondata sulle operazioni militari, sui bombardamenti mirati, e sulla costruzione di muri, non è un’invenzione dei teorici del Pentagono, ma è derivata dall’esperienza israeliana nello scontro con il popolo palestinese. In tutta la Cisgiordania, ed intorno alla sventurata Striscia di Gaza, Israele ha eretto muri di separazione, barriere e posti di blocco, trasformando le regioni palestinesi in ghetti ed in zone isolate fra loro, separando il fratello dal fratello, il vicino dal vicino, il contadino dalla sua terra, lo studente dalla sua scuola. Intorno alla terra assediata, ed anche al suo interno, è stata impiantata una serie di insediamenti, che si propagano (in base a quello che viene chiamato uno ‘sviluppo naturale’) ed i cui abitanti si moltiplicano.

Questa politica dei muri viene sostenuta da una continua osservazione dall’alto dei movimenti della resistenza, in preparazione di operazioni di ‘bonifica’ portate a termine con i missili degli elicotteri Apache. Nella Striscia di Gaza, la barbarie delle barriere di cemento ha raggiunto il culmine dopo il ritiro israeliano del 2005. Più di un milione e mezzo di persone vivono ora una vita disumana all’interno di una grande gabbia in cui tutti i progressi che l’umanità aveva compiuto in termini di libertà e diritti umani sono stati cancellati. Gli israeliani, da soli, controllano le necessità vitali degli abitanti di Gaza, attraverso valichi di confine attrezzati con le più moderne tecnologie, da cui lanciano campagne di morte e distruzione sistematica nella Striscia di Gaza. Ciò che accade a Gaza è stato riprodotto in Iraq, dove gli americani hanno portato avanti una ‘israelizzazione’ del conflitto. Un cittadino iracheno, riferendosi al varco nel muro di cemento che circonda al-Amariya (un sobborgo a ovest di Baghdad), lo ha chiamato il ‘valico di Rafah’ (il valico che separa la Striscia di Gaza dall’Egitto (N.d.T.) ).

L’impronta israeliana salta agli occhi. La guerra che gli americani conducono in Iraq e in Afghanistan adotta le stesse tattiche degli israeliani. Il pantano iracheno ha spinto il Pentagono a fare ricorso alle esperienze israeliane. Secondo il commentatore americano Mike Davis, alcuni ‘consulenti’ israeliani hanno addestrato elementi dei marines nelle più moderne tecniche di caccia all’uomo, di distruzione delle abitazioni e di assedio dei quartieri abitati. L’ ‘israelizzazione’ della guerra americana è stata il risultato, come afferma Davis, della ‘sharonizzazione’ della visione del Pentagono.

Questa visione può essere riassunta nell’affermazione secondo cui la violenza è l’unica strada per “risolvere il problema palestinese”. In altre parole, per usare l’affermazione dello stesso Sharon, “ciò che non può essere ottenuto con la forza, lo si può ottenere facendo un uso maggiore della forza”. Sharon teneva sul proprio comodino una traduzione ebraica del libro ‘A Savage War of Peace: Algeria 1954–1962’ dello storico inglese Alistair Horne, che documenta la sconfitta della Francia in Algeria. Molti ritenevano che quella sconfitta fosse la dimostrazione del fallimento del colonialismo, ma Sharon era convinto che la sconfitta della Francia fosse una lezione che Israele doveva mettere a frutto, e che gli israeliani potessero evitare gli errori commessi dai francesi in Algeria. Il giornalista britannico Robert Fisk racconta che Sharon disse all’ex presidente francese Jacques Chirac, nel corso di una conversazione telefonica, che gli israeliani sono “come voi in Algeria”, con una sola differenza, e cioè che “noi resteremo”.

Un altro giornalista britannico, Justin Huggler, scrisse sul quotidiano ‘The Independent’ che l’operazione ‘Scudo Difensivo’ scatenata da Sharon contro la città di Jenin nell’aprile del 2002 fu seguita con interesse dai militari americani e britannici che stavano pianificando l’invasione dell’Iraq. La violenza americana in Iraq è dunque debitrice nei confronti di Sharon e delle esperienze israeliane accumulate nella guerra con i palestinesi. E’ una violenza totale e sistematica che prevede la chiusura delle città e dei villaggi con il filo spinato, l’irruzione nelle case, la distruzione delle abitazioni dei ‘sospettati’, dei sistemi d’irrigazione e dei campi coltivati, la presa in ostaggio dei civili, l’uso della tortura, l’utilizzo di squadre specializzate negli assassini mirati.

Il giornalista Julian Borger del ‘Guardian’ ha attribuito a un ex responsabile dei servizi segreti americani una dura critica nei confronti del ricorso americano all’esperienza israeliana durante la guerra in Iraq. Egli avrebbe detto: “Ecco che nel mondo arabo veniamo paragonati a Sharon; ma noi lo abbiamo dimostrato copiando gli israeliani e creando squadre specializzate negli assassini mirati”. Borger riferisce che un altro responsabile americano aveva affermato che unità speciali israeliane avevano addestrato soldati americani a Fort Bragg, nel North Carolina, e che “alcuni israeliani sono andati in Iraq, non per addestrare soldati, ma per fornire servizi di consulenza”.

Ma le prove più evidenti dell’ ‘israelizzazione’ della guerra americana in Iraq sono rappresentate dalla trasformazione delle regioni irachene in settori separati e ghetti, circondati da muri e barriere, ed attentamente monitorati e sorvegliati dall’alto. Gli Stati Uniti hanno imparato dall’alleato israeliano a gestire l’occupazione, invece di pianificarne la fine. Israele non prova un solo giorno il senso di sicurezza che cerca, e sembra che non lo proverà mai, poiché sa di aver usurpato una terra non sua, e di aver distrutto la società che l’abitava prima della fondazione dello stato ebraico.

Ma perché l’America si è mischiata con lo stato ebraico, uno stato che vive un senso di insicurezza e di guerra perenne? Perché ne ha adottato le tattiche barbare di assedio e di isolamento delle città? In Cisgiordania avanza la barbarie del muro, che inghiotte pascoli e terreni coltivati, devasta villaggi e distrugge uliveti. Il muro raggiunge una lunghezza di 600 Km, e un’altezza di 8 metri (il muro di Berlino era lungo 155 Km ed alto 3,6 metri). Centinaia di terreni coltivati sono stati brutalmente divisi in due, ed i loro proprietari non sanno come raggiungerli. In pratica, il muro annette il 54 % della Cisgiordania a Israele, tracciando in questo modo i confini del promesso stato palestinese. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, più di 274.000 palestinesi si troveranno a vivere nelle regioni racchiuse fra il muro e la linea verde, o in enclave completamente circondate dal muro. La cittadina di Abu Dis, a est di Gerusalemme, è stata letteralmente divisa in due dal muro, che ha inghiottito il 40 % dei suoi terreni coltivati, facendo sì che gli abitanti di questa città corrano il rischio di doverla abbandonare.

Non ha senso parlare di globalizzazione, di dialogo fra le culture e di rispetto delle libertà fino a quando i muri, il filo spinato e i posti di blocco soffocheranno interi popoli. Soltanto il dialogo ed il prevalere del linguaggio della ragione sul linguaggio della violenza possono garantire la convivenza e la stabilità a livello mondiale. Verso la fine dello scorso aprile il governo egiziano ha completato la costruzione di un muro al confine con la Striscia di Gaza, con un costo stimato di 400 milioni di dollari, e con l’aiuto del genio militare americano. Il giornalista Steve Niva ricorda che nell’inverno del 2006 Henry Kissinger regalò al presidente Bush una copia dello stesso libro di Horne, ‘A Savage War of Peace’. Tuttavia gli americani non hanno realizzato la pace, e sembra che non abbiano imparato le lezioni della storia.

Ahmad bin Rashid bin Saeed è un giornalista e accademico saudita; insegna presso la King Saud University

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7 luglio 2008

La guerra israeliana al terrorismo.



Mentre guardate questo video, riflettete su questi dati, tratti dall'ultimo rapporto statistico dell'OCHA (oPt Protection of Civilians - Report to the end of May 2008), relativi al periodo 1° gennaio 2005 - 31 maggio 2008.

2005
Palestinesi uccisi 216 (60 bambini), feriti 1.260
Israeliani uccisi 48 (6 bambini), feriti 484
Rapporto uccisi 4,5:1

2006
Palestinesi uccisi 678 (140 bambini), feriti 3.194
Israeliani uccisi 25 (2 bambini), feriti 377
Rapporto uccisi: 27:1

2007
Palestinesi uccisi 396 (53 bambini), feriti 1.844
Israeliani uccisi 13 (0 bambini), feriti 322
Rapporto uccisi 30,4:1

2008
Palestinesi uccisi 397 (80 bambini), feriti 1.844
Israeliani uccisi 24 (4 bambini), feriti 170
Rapporto uccisi: 16,5:1

Dei 110 Israeliani uccisi nel periodo considerato, soltanto 29 (pari al 26,4%) erano civili, mentre il restante 73,6% delle vittime erano soldati uccisi durante raid militari.

Dei 1.687 Palestinesi uccisi nel periodo considerato, il 47,13% erano militanti morti in combattimento, il 43,62% erano civili inermi, il 9,25% erano vittime di assassinii mirati o ricercati uccisi durante operazioni di "arresto".

Per riassumere, dunque, tra il 1° gennaio del 2005 e il 31 maggio di quest'anno, i Palestinesi hanno ucciso 110 Israeliani (12 bambini), dei quali il 26% erano civili inermi.

Nello stesso periodo, gli Israeliani hanno ucciso 1.687 Palestinesi (333 bambini), dei quali il 43% erano civili inermi.

Considerando il totale delle persone uccise, per ogni morto israeliano se ne contano 15,3 Palestinesi; limitandoci a considerare i civili disarmati, questo rapporto sale a un Israeliano contro 24,4 Palestinesi!

Questo è Israele, uno vero e proprio Stato-canaglia stando ai parametri dell'amministrazione Usa, in quanto possiede armi di distruzione di massa illegali, opprime intere popolazioni, pratica la tortura, mantiene un gran numero di civili in detenzione spesso illegale e arbitraria, pratica l'assassinio al di fuori dei propri confini.

Questo è Israele, la sola potenza coloniale occupante rimasta al mondo, una potenza occupante brutale, feroce e oppressiva, la cui condotta è eticamente indifendibile e le cui azioni nei Territori palestinesi occupati violano quotidianamente le più basilari norme del diritto umanitario internazionale.

Questo è Israele, il Paese con cui intratteniamo rapporti sempre più stretti in campo economico e politico e che, al contrario, dovrebbe essere sottoposto al più stretto boicottaggio e bandito dal consesso delle nazioni civili.

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3 luglio 2008

A letto con il nemico.

“A letto con il nemico” (Sleeping with the enemy) non è solo il titolo di un film del 1991, peraltro non memorabile, che aveva tra i suoi protagonisti la bella Julia Roberts, ma è anche il titolo di un documentario che in questi giorni viene mostrato in giro per le scuole di Kiryat Gat – una cittadina israeliana nel deserto del Negev – in cui si ammoniscono le giovani studentesse ebree a non farsi coinvolgere sentimentalmente dai giovani Beduini, e soprattutto a non farsi mettere in cinta da questi “arabi in caccia”, al fine di evitare delle abominevoli unioni “miste”.

Sembra incredibile che ciò accada in un Paese democratico e “civile” come si vanta di essere Israele, eppure è proprio così.

Il video fa parte di un progetto che ha il supporto della municipalità e della polizia locale di Kiryat Gat, ed è guidato dal responsabile del Welfare per la cittadina; in esso compaiono le interviste a un ufficiale della polizia locale e a una donna appartenente al Dipartimento Anti-Assimilazione (!), una branca dell’organizzazione religiosa Yad L’ahim, che ha lo scopo principale di evitare come la peste che le giovani ragazze ebree abbiano alcun tipo di appuntamento con Arabi israeliani.

Secondo il responsabile del progetto, Chaim Shalom, i giovani beduini del Negev sono solo degli “sfruttatori”, che non ci pensano due volte a mettere in cinta le ragazze ebree per poi abbandonarle, e questo progetto mira solo ad evitare il problema, e non ha niente a che vedere con il razzismo.

Già, e che c’entra il razzismo con un progetto che mira a scoraggiare le relazioni tra giovani di diverse etnie e religioni? E come non giudicare positivamente che un’amministrazione pubblica sponsorizzi un video realizzato da un ente ultra-ortodosso che ha un nome che è tutto un programma, il Dipartimento Anti-Assimilazione?

Il vero è che, come già abbiamo avuto modo di rilevare, Israele è un Paese profondamente permeato dalla discriminazione e dal razzismo, sia per ciò che attiene il comune sentire della collettività sia per quanto attiene la legislazione e la pratica amministrativa.

Sul primo punto basterà ricordare che, secondo l’Israeli Democracy Index 2007, solo il 50% degli Israeliani ritiene che Arabi ed Ebrei debbano avere eguali diritti, mentre il 55% degli Ebrei israeliani sostiene l’idea che il governo debba incoraggiare gli Arabi a “emigrare”; uno studio dell’Università di Haifa inoltre mostra come, per il 74% dei giovani ebrei in Israele, gli Arabi siano “sporchi”.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, si potrebbe citare la Legge sulla Cittadinanza, che lo stesso editore del quotidiano Ha’aretz, dalle colonne del suo giornale, ha definito degna di uno Stato dell’apartheid, le pratiche di racial profiling negli aeroporti, la discriminazione nella allocazione delle terre e nel riconoscimento del diritto alla casa, la diseguale distribuzione dei fondi per il welfare e per lo sviluppo.

E stupisce come i governi della Ue, in altri casi vigili e severi su ogni questione attinente al rispetto dei diritti umani fondamentali, consentano il permanere ed anzi il miglioramento di rapporti privilegiati con Israele, “dimenticando” che tali rapporti e relazioni sono vincolati al “rispetto” di entrambe le parti “dei diritti umani e dei principi democratici cui si ispira la loro politica interna e internazionale”.

Solo vuote parole?

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1 luglio 2008

Giornalisti nel mirino di Israele.


Il giornalista palestinese Mohammed Omer scrive sul Washington Report on Middle East Affairs (WRMEA), un magazine pubblicato negli Usa con 9 uscite l’anno che tratta dei rapporti tra gli Usa e i Paesi dell’area mediorientale.

In questo ambito, Omer tratta della questione palestinese e, in questi ultimi tempi, soprattutto delle difficili condizioni che i Palestinesi di Gaza si trovano a dover affrontare a causa dell’assurdo e spietato assedio a cui Israele sottopone circa un milione e mezzo di residenti della Striscia.

Per i suoi articoli, il giornalista palestinese quest’anno è stato insignito del prestigioso “Martha Gelhorn Journalism Prize”, un premio giornalistico che, nel 2002, era stato vinto dal giornalista inglese Robert Fisk.

Omer, che risiede a Rafah, si era dunque recato in Inghilterra a ritirare il prestigioso riconoscimento, ed era stato anche invitato a parlare alla Camera dei Comuni e in altri Parlamenti europei; sulla via del ritorno, tuttavia, egli è stato informato dall’ambasciata olandese che non era considerato benvenuto in Israele, e tuttavia la stessa ambasciata è infine riuscita a coordinare il suo ingresso con le autorità israeliane.

Il 26 giugno, tuttavia, giunto al Ponte di Allenby – il confine tra la Giordania e la West Bank controllato da Israele – Omer è stato trattenuto per circa quattro ore dalle guardie di frontiera israeliane, insultato, costretto a spogliarsi di fronte agli altri passeggeri, umiliato e picchiato; soltanto dopo che il giornalista ha cominciato a vomitare ed è svenuto, il personale della sicurezza israeliana ha acconsentito a chiamare un’ambulanza.

Grazie ai buoni uffici dell’ambasciata olandese, Omer è riuscito finalmente a tornare nella Striscia di Gaza e a farsi ricoverare in ospedale dove, tra le altre cose, gli hanno riscontrato la rottura di alcune costole.

Non si tratta dell’unico incidente di questo genere. Soltanto un mese fa, abbiamo dato notizia di una petizione in favore del giornalista palestinese Khalid Amayreh, al quale veniva impedito di allontanarsi dalla Cisgiordania per andare in Germania, per svolgere il proprio lavoro.

Ancora una volta i giornalisti nel mirino di Israele, dunque, e non solo in senso figurato.

Dall’inizio della seconda Intifada ad oggi, l’esercito israeliano ha ucciso 9 giornalisti, tra cui l’inglese James Miller e l’italiano Raffaele Ciriello, e ne ha feriti almeno 170; l’ultimo caso è quello di un cameraman della Reuters, il 23enne Fadel Subhi Shana’a, massacrato a Gaza dalle granate a flechettes nel corso di una sanguinosa giornata che ha visto la morte di 13 civili palestinesi, tra cui 8 bambini, e il ferimento di altri 32.

E, detto per inciso, è davvero singolare che il nome di Ciriello sia stato completamente cancellato dalla politica e dai media italiani, e che nessun Governo abbia fatto la benché minima pressione per far luce sull’accaduto e per individuare i responsabili dell’assassinio del coraggioso giornalista.

Giornalisti picchiati e intimiditi, giornalisti uccisi sol perché cercavano di fare il proprio mestiere e testimoniare la verità dei crimini di guerra e delle violazioni dei diritti umani compiuti da Israele a Gaza e nella West Bank, e non è un caso che ciò accada.

Israele, la potenza occupante brutale e spietata, dopo essere assurta a pieno titolo quasi al livello di un Paese membro della Ue grazie alla pavidità e all’acquiescenza dei Governi europei, ha bisogno di vincere la battaglia per conquistare i cuori e le menti dei cittadini europei, in realtà ancora non molto ben disposti verso questo Paese che porta avanti una pluridecennale occupazione militare unica al mondo.

E, dunque, è necessario tacitare le voci di chi testimonia le quotidiane violazioni dei diritti umani fondamentali, la brutalità dell’occupazione, la violazione della legalità internazionale, i raid militari, gli assassinii di civili inermi.

In questo quadro, peraltro, già si intravede il passo successivo: tagliare i finanziamenti alle ong di tutela dei diritti umani che operano in Israele e nei Territori palestinesi.

Ma questa è un’altra storia…

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