Lo scorso 27 settembre, una quarantina di coloni israeliani appartenenti ad un gruppo religioso estremista – pesantemente scortati dalla polizia e dalle guardie di frontiera – ha cercato di fare irruzione nel recinto della moschea al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam che si trova nel territorio occupato di Gerusalemme est.
I Palestinesi presenti nell’area sono intervenuti prontamente per far fronte alla provocazione, scontrandosi con i coloni e con le forze di sicurezza israeliane e riuscendo ad impedire l’ingresso ai coloni. L’intervento palestinese è stato però pagato a caro prezzo, perché la polizia e le guardie di frontiera israeliane hanno reagito con durezza sparando proiettili rivestiti di gomma, candelotti lacrimogeni e bombe assordanti contro i civili palestinesi, ferendone tre in maniera abbastanza seria (due sono stati colpiti ad un occhio da un proiettile rivestito di gomma) e una ventina in modo più lieve.
Si tratta dell’ennesima, gravissima provocazione - condotta peraltro in violazione di norme di diritto umanitario contenute nei protocolli addizionali alla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 – che ricorda molto da vicino la provocatoria passeggiata di Ariel Sharon che nove anni fa portò allo scoppio della seconda Intifada.
Si soffia dunque sul fuoco, da parte israeliana, in una situazione che già di per sé è esplosiva e carica di tensioni.
Sin dall’occupazione di Gerusalemme est, avvenuta nel 1967, l’obiettivo primario di Israele è stato infatti sempre quello di portare avanti un’opera di giudaizzazione del territorio occupato, creando una situazione geografica e demografica tale da rendere vano ogni tentativo di sottrarre questo territorio alla sovranità israeliana e di creare uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale.
Questo obiettivo è stato perseguito in questi anni attraverso varie misure, quali l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, a mezzo del Muro dell’apartheid e dei checkpoint, la revoca della residenza ai Palestinesi che si sono allontanati dal territorio municipale per almeno sette anni o che non sono in grado di dimostrare che Gerusalemme est è il centro della propria vita e dei propri interessi, la diseguale suddivisione del budget municipale per le infrastrutture e i servizi destinato alle due parti della città, la discriminazione nella concessione dei permessi per costruire e, soprattutto, le demolizioni degli edifici “illegali”.
Nelle ultime settimane, tanto per fare un esempio, nel solo quartiere di Sheikh Jarrah gli Israeliani hanno pianificato la costruzione di 540 unità abitative coloniche, mettendo a rischio di espropriazione e di allontanamento circa 475 Palestinesi (cfr. OCHA, The Humanitarian Monitor, agosto 2009).
Il rischio che i disordini a Gerusalemme est possano sfociare nello scoppio di una terza Intifada è dunque molto alto, ed è questo l’argomento dell’articolo che segue, scritto da Mel Frykberg per l’agenzia Inter Press Service e qui proposto nella traduzione del sito Medarabnews. Ogni giorno che passa, del resto, appare sempre più evidente l’impotenza del Presidente Usa Barack Obama nell’imporre una significativa pressione sul riottoso “alleato” israeliano, non riuscendo nemmeno ad ottenere un semplice “congelamento” dell’attività di costruzione e di espansione degli insediamenti colonici illegali costruiti da Israele nella West Bank.
Se gli Usa non riescono nemmeno ad ottenere un semplice stop a tempo determinato dell’attività edilizia di espansione degli insediamenti, come potranno mai risolvere il nodo ben più complesso relativo a Gerusalemme est?
La politica israeliana e ogni atto compiuto da Israele a Gerusalemme est – in primo luogo la decisione del 30 luglio 1980 di considerare Gerusalemme unita come capitale dello Stato di Israele – ledono gravemente i diritti dei Palestinesi residenti a Gerusalemme est e costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e di svariate, rilevanti risoluzioni dell’ONU.
Il permanere di tali violazioni – incredibilmente tollerate dalla comunità internazionale – e il mancato riconoscimento dei sacrosanti diritti del popolo palestinese, alla lunga, non potranno che innescare una nuova spirale di violenza e di morte, e forse è già iniziato il conto alla rovescia.
Nei giorni scorsi sono scoppiati scontri tra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane dopo che un gruppo di coloni israeliani estremisti, scortato da soldati israeliani e dalla polizia, aveva cercato di entrare nel recinto della moschea Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam, che si trova nella città vecchia di Gerusalemme.
Giovani palestinesi hanno lanciato pietre e sedie contro la polizia israeliana. Gli israeliani hanno risposto con percosse, gas lacrimogeni, e proiettili di gomma. Decine di poliziotti e manifestanti sono rimasti feriti nelle violenze che ne sono seguite.
Domenica 27 settembre, Israele ha sigillato la Cisgiordania per lo Yom Kippur, uno dei giorni più sacri per l’ebraismo. Questa festa religiosa spesso coincide con la fine del mese sacro del Ramadan, aumentando le tensioni tra israeliani e palestinesi.
Un gruppo religioso estremista di coloni israeliani, i “Fedeli del Monte del Tempio”, celebra lo Yom Kippur ogni anno cercando di entrare nel recinto della moschea di Al-Aqsa, che ritiene sia costruita sui resti del secondo Tempio ebraico, distrutto dai romani nel 70 d.C.
L’organizzazione ha ripetutamente dichiarato la propria intenzione di distruggere la moschea di Al-Aqsa e di costruire il Terzo tempio ebraico sui suoi resti.
Nel contesto della crescente giudaizzazione di Gerusalemme Est da parte israeliana, nel tentativo di tenere unita la città sotto un controllo israeliano a tempo indeterminato e di usurpare le aspirazioni palestinesi che guardano a Gerusalemme Est come alla capitale di un futuro Stato palestinese, Al-Aqsa è diventata sempre più un punto di attrito.
L’emotività musulmana nei confronti di Al-Aqsa, accompagnata da ciò che viene percepito come un attacco scandaloso alla sensibilità islamica, è stata una delle cause che hanno chiamato a raccolta i palestinesi, sia di fede cristiana che musulmana, così come i musulmani di diverse correnti politiche e nazionalità.
Il movimento di resistenza libanese Hezbollah ha condannato l’azione israeliana, mentre Hamas ha invitato i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e di Israele, a scendere in piazza dando inizio a una nuova rivolta contro Israele in risposta agli scontri.
L’arcivescovo Atallah Hanna, una delle figure cristiane di più alto grado a Gerusalemme, ha dichiarato che le violenze di domenica 27 settembre sono un oscuro presagio riguardo a quelli che ha definito “i piani di Israele per la città”.
“Noi, come palestinesi cristiani e abitanti di Gerusalemme, non possiamo restare a guardare con le mani in mano di fronte a quello che è successo. Domenica scorsa si è trattato di Al-Aqsa, domani sarà la volta della Chiesa del Santo Sepolcro”, ha detto Atallah, riferendosi alla chiesa costruita sul luogo in cui si crede che sia stato sepolto Gesù.
Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto che “l’attacco contro i fedeli e i comuni civili è inaccettabile. Israele deve cessare tutte quelle azioni che servono solo a infiammare la situazione”.
Muhammad Dahlan, un altro alto funzionario dell’AP, e presunto istigatore della guerra civile a Gaza tra Hamas e Fatah, ha avvertito che una terza rivolta palestinese potrebbe essere all’orizzonte.
Bassam Abu Sharif, un ex consigliere del defunto presidente dell’AP Yasser Arafat, e membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha aggiunto la sua voce al coro di quelli che prefigurano la possibilità di una terza Intifada contro Israele.
“I palestinesi si stanno preparando a lanciare un’altra Intifada per l’indipendenza e la libertà in risposta alle violazioni israeliane, ai massacri e alle politiche contro i palestinesi e contro Gerusalemme, alla confisca delle terre, e alla separazione geografica dei territori palestinesi”.
Lunedì 28 settembre, le forze di sicurezza israeliane hanno fatto irruzione nelle abitazioni palestinesi in tutta Gerusalemme Est, arrestando più di 60 palestinesi sospettati da Israele di aver preso parte ai disordini.
Il martedì successivo abbiamo visitato il luogo degli scontri, e nonostante la calma apparente in superficie, la rabbia e il risentimento sembravano covare sotto la cenere.
Gruppi di soldati israeliani pesantemente armati, e unità di polizia motorizzata e a piedi, sono stati dislocati negli angoli strategici della città vecchia e in altre zone di Gerusalemme Est, mentre veniva dichiarato un elevato stato di allerta.
Molti palestinesi sembravano troppo spaventati per parlare con noi, mentre la polizia e i soldati israeliani si avvicinavano per controllare da vicino le nostre conversazioni.
Un residente di Gerusalemme che ha assistito agli scontri ma ha voluto mantenere l’anonimato, ci ha raccontato: “Ci saranno gravi violenze durante la preghiera del Venerdì, se questi fanatici israeliani tenteranno di nuovo i loro trucchi. Siamo stufi di loro”.
Samir Awad dell’Università di Birzeit, a nord di Ramallah, afferma che una grave ondata di violenza è sicuramente in vista.
“Ma io non credo che i palestinesi saranno in grado di sostenere un’Intifada a lungo termine. Sono troppo deboli politicamente ed economicamente, oltre ad essere emotivamente esauriti”, ci ha detto Awad.
“I palestinesi sono disperati, e non nutrono più alcuna fiducia nell’ormai defunto processo di pace. Hanno perso le loro speranze, ora che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sembra aver rinnegato la sua promessa sugli insediamenti e il suo impegno ad esercitare pressioni su Israele”.
“La possibilità che l’amministrazione americana preveda una contromossa che includa i piani per la creazione di uno Stato palestinese come primo passo, per poi affrontare le questioni degli insediamenti, di Gerusalemme Est e del diritto al ritorno dei profughi, come modo per contrastare l’ostinazione israeliana, sembra troppo ottimistica”, ha aggiunto Awad.
Tuttavia, il professor Moshe Maoz dell’Università Ebraica di Gerusalemme, afferma che il governo degli Stati Uniti potrebbe ancora tener fede alle sue promesse.
“Gli israeliani talvolta fraintendono la cultura americana che è più sobria e prudente rispetto all’approccio tipico degli israeliani, i quali tendono a essere espliciti e impazienti. Il fatto che Obama non abbia insistito sulla questione degli insediamenti ai recenti colloqui di New York, non significa che abbia rinunciato”, ha detto Maoz.
“Tuttavia, un’altra Intifada è del tutto possibile se non vi sarà alcuna svolta. La pazienza palestinese dopo 42 anni di occupazione è ormai in via di esaurimento”.
Il dottor Yousef Natsche, direttore delle Antichità e del Turismo presso il Waqf islamico che gestisce la moschea di Al-Aqsa, ha detto di sperare che non vi saranno ulteriori disordini.
“Ma le visite provocatorie da parte di estremisti ebrei sono in aumento sia di numero che di frequenza, e sono appoggiate dalle autorità israeliane.
“Le violenze di domenica 27 settembre sono un indicatore di ciò che potrebbe accadere in futuro su scala ancora più grande, se gli israeliani continueranno a non ascoltare i nostri avvertimenti”, ci ha detto Natsche.
Mel Frykberg è un giornalista australiano; è corrispondente dalla Palestina per l’Inter Press Service
Etichette: gerusalemme est, intifada, palestina, processo di pace