29 ottobre 2009

Una testimone dell'orrore di Gaza racconta.

Durante l'operazione "Piombo Fuso" (27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009), l'esercito israeliano ha usato ogni tipo di arma contro la popolazione di Gaza.

Il risultato è stato devastante: 1.419 Palestinesi uccisi, di cui 1.167 civili inermi (l'82,2% del totale!); tra questi, 429 erano donne e bambini, il 30,2% del totale delle vittime e il 46,7% del totale dei civili uccisi.

I Palestinesi feriti sono stati oltre 5.300, 2.430 dei quali donne e bambini.

In questo video girato a Berlino, Ewa Jasiewicz, coordinatrice Free Gaza nella Striscia, racconta quanto ha vissuto come testimone oculare durante i 22 giorni di massacro dei civili a Gaza.

Il racconto di quanto vissuto assieme ad altri 7 volontari, è straziante. Israele ha ucciso deliberatamente 16 medici mentre svolgevano il proprio lavoro nel tentativo di salvare la vita ad altri Palestinesi, sono stati il loro bersaglio diretto. Ewa e gli altri volontari di Free Gaza e International Solidarity Movement accompagnavano le ambulanze, inorriditi da quanto vedevano.

Il video racconta molto chiaramente le condizioni di vita della popolazione di Gaza, come cercano di procurare cibo alle proprie famiglie mentre le forze di occupazione Israeliana sparano su pescatori e contadini, per ucciderli, molto dopo che le operazioni Piombo Fuso sono apparentemente terminate.

Ascoltate il racconto, guardate le immagini filmate da coloro che erano presenti quando Israele utilizzava bombe al fosforo bianco e altre armi letali contro la popolazione civile. Intere famiglie sono state smembrate, 29 membri di un’unica famiglia sono stati assassinati nelle proprie case mentre fuori sventolava una bandiera bianca .

Come racconta Ewa, “L’obiettivo Israeliano è liberare la Palestina dai Palestinesi: pezzo per pezzo, corpo dopo corpo, persona per persona, villaggio dopo villaggio.”

Lei, come tanti altri speakers, sono disponibili a raccontare alle vostre associazioni. Per eventuali contatti:

http://www.freegaza.org/join-in/speaker-bureau

Si può chiedere che qualcuno di loro venga a parlare dei viaggi del Free Gaza Movement, del lavoro svolto a Gaza e a testimoniare riguardo i tentativi di Israele di massacrare la popolazione civile con le armi e il denaro americano.

Perchè l'orrore di Gaza è davvero un crimine spaventoso, che deve essere denunciato con forza in ogni sede possibile.

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Lebanon, un film razzista.

Ricevo e pubblico.

A pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto Goldstone, da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, che documenta le violazioni del diritto internazionale, i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante il massacro di Gaza (dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 ci sono stati oltre 1400 morti, tra i quali centinaia bambini), esce nelle sale LEBANON, di Samuel Maoz, Leone d’Oro a Venezia.

Al film ha contribuito l’Israel Film Fund, l’ente nazionale per il cinema, che continua la politica tesa a mostrare al mondo il volto umano e tormentato di Israele: uno stato che da 60 anni occupa illegalmente i territori palestinesi, discrimina i suoi cittadini in base all’etnia, impedisce il diritto al ritorno nella loro terra dei palestinesi cacciati da una pulizia etnica che prosegue tuttora, con il genocidio a Gaza, con uccisioni mirate, insediamenti illegali, imprigionamenti, distruzione e sottrazione delle risorse economiche e il Muro dell’aparheid, in tutta la Palestina.

LEBANON non è il primo film israeliano che compatisce, deresponsabilizza e, infine, assolve i massacratori, ieri in Libano oggi a Gaza. Valzer con Bashir ne è un altro esempio.
LEBANON è un film razzista: il 6 giugno 1982 inizia l’invasione israeliana del Libano. Dopo le immagini di un campo di girasoli maturi, la scena si sposta all’interno del carro armato, dove fanno la loro parte nella guerra quattro giovani soldati, ignari, perché probabilmente distratti a scuola.

Come il loro comandante, un duro dal cuore tenero, sono belli, umani, sensibili fino alle lacrime, affettuosi e rispettosi della famiglia.

Almeno quanto gli altri, nemici o alleati, sono brutti, disumani, insensibili: il guerrigliero, con tanto di kefiah, usa addirittura una famigliola come scudo umano (mentre il rapporto Goldstone sui crimini di guerra e umanitari a Gaza denuncia l’uso di scudi umani da parte di Israele.).

Compiuto il loro dovere, con perdite limitate (mentre l’invasione lasciò sul terreno 19.085 morti libanesi) il carro armato si ritrova nel campo di girasoli: e una scritta recita “gli uomini sono d’acciaio, i carri armati sono ferraglia”.

LEBANON è un film brutto: dopo l’originale scenografia claustrofobica, non si risparmia nulla: dall’allevatore di polli colpito dal fuoco israeliano che, rimasto senza due gambe e un braccio, continua a gridare “pace”, alle lacrime dell’asino squarciato, alla donna usata come scudo umano che, con le vesti incendiate dal fosforo, viene prima denudata (per salvarla) poi ricoperta e accarezzata da chi le ha appena ucciso il marito e la bambina. Non è solo pacifismo grossalano, è solo un brutto film, che oscilla, senza decidersi, fra il sentimentale e il grottesco.

Come spiegare la vittoria a Venezia se non con il piano del governo israeliano di recuperare una immagine dopo la feroce aggressione contro la popolazione inerme di Gaza? Il documentario, altrettanto razzista Amos Oz: la natura dei sogni presentato al festivaletteratura di Mantova ne è la clamorosa conferma.

Per misurare il livello morale e intellettuale del regista Samuel Maoz, reduce dall’invasione del Libano del 1982, come Ari Folman regista di “Valzer con Bashir”, basta questa dichiarazione:
“…Comunque per fare la pace in Medio Oriente il migliore era Clinton. Anzi, secondo me, sarebbe bene che Obama guardasse un po’ di filmati su Clinton per capire come comportarsi.… in Israele Clinton resta il più amato e anche gli arabi lo preferiscono... forse c’entra la storia della Levinsky. In America hanno gridato allo scandalo, in Europa non è stato così. Anzi, quell’episodio fa parte del suo fascino, vederlo mentire senza battere ciglio, come un qualunque marito, gli ha fatto guadagnare simpatie”.

PER QUESTI MOTIVI CONSIGLIATE AI VOSTRI AMICI DI NON VEDERE QUESTO FILM.

LE VERITÀ SU “PACE IN GALILEA”

L’operazione “pace in Galilea”, nome in codice della seconda invasione del Libano del 1982 da parte di Israele, vede le truppe israeliane arrivare fino a Beirut, la capitale libanese, teatro di un assedio che durerà quasi tre mesi. L'eliminazione senza mezzi termini di un movimento nazionale tanto radicato nella popolazione palestinese come l'OLP, che gode di un ampio sostegno da parte di vasti settori della popolazione libanese, richiedeva una campagna militare di una portata e di una violenza senza precedenti, che si realizza scatenando la potenza di fuoco israeliana contro i campi-profughi palestinesi, definiti «focolai del terrorismo», e contro le città e i villaggi libanesi. L’altro obiettivo era l’occupazione di territorio libanese.

Le testimonianze di alcuni soldati israeliani, veterani della guerra del Libano raccolte da Irit Gal e Ilana Hammerman per il loro libro, De Beyrouth à Jenin [Da Beirut a Jenin], La Fabrique 2003, narrano l'orrore di questa guerra di eliminazione. Ouri Schwartzman, sergente riservista in servizio sui carri armati, ricorda: «Il mio primo shock è stato l'entrata a Tiro. Niente può prepararti a entrare in una città bombardata e piena di civili. Gli aerei e la marina avevano bombardato la città prima del nostro arrivo. Quando sono giunte le forze di terra, la città era in fiamme. Si vedevano strade che andavano a fuoco come in un film catastrofe, e automobili polverizzate; nell'aria aleggiava un odore di carne bruciata che impregnava tutto; qua e là, gruppetti di civili vagavano senza meta, in stato confusionale, in quell’incomprensibile desolazione [ ... ]. Non so se qualcuno abbia mai fatto il calcolo delle vittime di Tiro e di Sidone, ma mi ricordo che, dopo la guerra, un ministro ha affermato che il numero delle vittime era stato sovrastimato, che probabilmente erano solo 3000. Sono inorridito nel sentire tale cifra: uccidere 3000 civili è un crimine, un crimine spaventoso!».

Qualche giorno dopo, il sergente Schwartzman è alle porte della capitale: «Il bombardamento di Beirut era impreciso, non selettivo, selvaggio. Le granate dell'artiglieria si abbattevano senza tregua. Una batteria di artiglieria pesante situata poco dietro di noi sparava senza sosta. [ ... ] Nessuno dei politici responsabili di quanto accaduto a Tiro, a Sidone, a Damur o a Beirut ne ha pagato il prezzo. E in questo caso non si può neanche dire, come per Sabra e Chatila*, che sono state le falangi a compiere i massacri di Tiro, di Sidone, di Damur e di Beirut; siamo stati noi a uccidere i civili».

L'operazione «pace in Galilea» si concluse con 19.085 morti, 31.915 feriti, 2.202 invalidi e circa mezzo milione di profughi e con la devastazione dell'economia libanese.

Il carro armato di Lebanon è il simbolo di Israele, una società militarizzata dominata da un complesso culturale-militare-industriale, votato alla guerra contro popolazioni civili.

Un paese che dall’11 settembre ha ricavato enormi profitti con l’industria della “sicurezza”, diventando leader nella progettazione e nella produzione di sistemi di controllo delle popolazioni civili. Un paese che possiede, senza alcun controllo, oltre 200 testate nucleari con le quali può controllare e minacciare i paesi del Mediterraneo e non solo.

* Sabra e Shatila sono due campi profughi alla periferia di Beirut dove furono massacrati, tra il 16 e 18 settembre del 1982, dalle milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano,. più di 3.000 palestinesi, uomini, donne e bambini.

QUESTO VOLANTINO E' PRODOTTO NEL QUADRO DELLA CAMPAGNA DI BOICOTTAGGIO ACCADEMICO E CULTURALE DI ISRAELE, seguendo un appello palestinese al boicottaggio accademico e culturale.

Per saperne di più sull’appello BDS, sul boicottaggio accademico e culturale di Israele e sull’ISM – Italia consulta il sito:
http://sites.google.com/site/italyism e i siti http://www.bdsmovement.net/, http://www.pacbi.org/, http://www.boicottaisraele.it/.

Palestina News - voce di ISM (International Solidarity Movement) Italia http://www.ism-italia.it/

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28 ottobre 2009

La menzogna israeliana dell'autodifesa.

In relazione al conflitto israelo-palestinese (ma non solo…), gli ebrei d’Israele mantengono un atteggiamento vittimista così radicato da spingerli a rappresentare la realtà in modo incredibilmente distorto, se non addirittura sovvertito.

Solo così si può spiegare come uno stato che mantiene una occupazione militare pluridecennale, brutale e spietata, su territori non propri, che vessa, umilia e massacra un intero popolo, costringendolo a vivere sotto un regime di vero e proprio apartheid, possa avere il coraggio di accampare un preteso diritto all’autodifesa contro quei “terroristi” di Palestinesi che osano combattere per la propria indipendenza e autodeterminazione.

Solo così si possono spiegare le reazioni determinate nell’opinione pubblica israeliana dalla pubblicazione del
rapporto Goldstone, che ha inchiodato Israele alla sua responsabilità nella commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità gravissimi e inauditi.

Non è un caso che il Presidente israeliano Peres, un premio Nobel per la pace divenuto con l’età senile una canaglia della peggiore specie, abbia affermato che il rapporto Goldstone “si fa beffe della storia” e che le Nazioni Unite, approvandolo, rischiano di “
sostenere i terroristi, piuttosto che lottare contro di loro”.

Ma Peres è degno Presidente di un popolo che ha approvato con il 71 per cento dei
consensi la guerra (rectius, il massacro) di Gaza, mentre soltanto il 20% a gennaio ne chiedeva la cessazione il prima possibile.

E, attenzione, tra questi la gran parte erano favorevoli allo scatenamento dell’offensiva, soltanto volevano che non diventasse troppo sanguinosa. Ivi compreso il trio delle meraviglie finto-pacifista Grossman, Oz e Yehoshua, che per il solo fatto di essere arruolati tra le “colombe” israeliane fa ben capire a quale fondo sia caduta la tempra morale della società israeliana.

Questo per non dimenticare la tristemente nota cantante finto-pacifista
Noa, che in una lettera aperta ai Palestinesi aveva avuto il coraggio di scrivere: “Io so che nel profondo del vostro cuore DESIDERATE (il maiuscolo è nel testo, n.d.t.) la morte di questa bestia chiamata Hamas che vi ha terrorizzato e massacrato, che ha trasformato Gaza in un cumulo di spazzatura fatto di povertà, malattia e miseria”. Aggiungendo poi: “Posso soltanto augurarvi che Israele faccia il lavoro che tutti noi sappiamo deve esser fatto, e VI LIBERI definitivamente da questo cancro, questo virus, questo mostro chiamato fanatismo, oggi chiamato Hamas.”.

Il rapporto Goldstone ha reso noto al mondo – ma ancora prima lo avevano fatto i vari report di HRW Amnesty B’tselem e altre ong di tutela dei diritti umani – che l’esercito israeliano ha compiuto a Gaza crimini inenarrabili, ha massacrato intere famiglie a cannonate, ha arso vivo persone con il fosforo bianco o le ha devastate con i proiettili a frammentazione, ha ucciso civili con la bandiera bianca in mano, ha ucciso madri e figlie sol perché avevano sbagliato la strada indicata dai soldati, ha usato civili come scudi umani, ha sparato su medici, infermieri e giornalisti, e probabilmente dimentico qualcosa d’altro ancora.

E questa guerra la pubblica opinione israeliana l’ha approvata a grande maggioranza, e qualcuno andava addirittura al confine con Gaza per godersi lo spettacolo, munito di bibite, panini e macchinetta per il caffè (Lavazza, se interessa…).

Per fortuna in Israele esiste ancora gente che la pensa in maniera diversa, e sa bene quale è la realtà delle cose. Una di queste è Larry Derfner, giornalista israeliano che abitualmente scrive sul JPost, che, nell’articolo che segue (qui riportato nella traduzione di
Medarabnews), ci illustra bene il criterio dei due pesi e due misure insito nel concetto israeliano di “autodifesa”.

Ma quanto pesano i Larry Derfner nella società israeliana di oggi?

Praticamente tutta Israele sta ora parlando a una sola voce contro la relazione Goldstone, contro qualsiasi tentativo di incolparci per la guerra di Gaza. Abbiamo affinato al massimo il nostro messaggio e, ispirati dalla performance del primo ministro Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite, lo stiamo trasmettendo con il giusto tono di sdegno:

Come può osare qualcuno negarci il diritto all’autodifesa! Come può osare negarci il diritto di combattere contro il terrorismo!

Suona bene. Mette chiunque altro sulla difensiva. Il diritto all’autodifesa è elevato al massimo grado, come la mamma e la torta di mele – chi si permetterà di esprimersi contro di esso, soprattutto se riguarda noi, Israele, gli ebrei, il popolo della Shoah?

Il diritto all’autodifesa – perfetto.

Ma vorrei chiedere: i palestinesi hanno anch’essi il diritto all’autodifesa?

Probabilmente non lo ammettiamo a voce alta, ma nella nostra testa ci diciamo – ancora una volta, a una sola voce – “No!”

Questa è la nozione che ha Israele di un trattamento equo: siamo in diritto di fare quello che diavolo ci pare ai palestinesi, perché, per definizione, qualunque cosa facciamo a loro è autodifesa. Essi, tuttavia, non hanno il diritto di alzare un dito contro di noi perché, per definizione, qualunque cosa facciano a noi è terrorismo.

E’ così che è sempre andata, è così che è andata con l’operazione “Piombo Fuso”.

E non ci sono limiti al nostro diritto all’autodifesa. Non esiste nulla di “sproporzionato”. Possiamo assediare Gaza, possiamo rispondere ai razzi Qassam con gli F-16 e con gli Apache, possiamo prendere cento occhi per un occhio.

Possiamo deliberatamente distruggere migliaia di case di Gaza, il parlamento di Gaza, il Ministero della Giustizia, il Ministero degli Interni, i tribunali, l’unico stabilimento che a Gaza produce farina, il principale stabilimento che produce pollame, l’impianto di depurazione, i pozzi d’acqua e Dio sa cos’altro.

Deliberatamente.

Dopo tutto, stiamo agendo per autodifesa. Per definizione.

E con quale diritto i palestinesi devono difendersi da tutto questo?

Nessun diritto.

Perché? Perché noi siamo meglio di loro. Perché noi siamo una democrazia e loro sono un mucchio di islamo-fascisti. Perché la nostra è una cultura della vita e la loro è una cultura di morte. Perché loro sono qui per distruggerci, mentre tutto quello che stiamo dicendo noi è di dare una possibilità alla pace.

Uno sguardo alle rovine di Gaza dovrebbe rendere tutto questo abbastanza evidente.

Ecco la nostra idea del “diritto di guerra”: quando i bulldozer israeliani sono andati al di là del confine, nei villaggi di Gaza, e hanno spianato casa dopo casa, in modo che Hamas non avrebbe potuto usarle come rifugio una volta che le Forze di Difesa Israeliane se ne fossero andate, quella è stata legittima difesa. Ma se un ragazzo palestinese che viveva in una di quelle case ha scagliato un sasso contro uno dei bulldozer, quello è terrorismo.

I Goldstone del mondo chiamano tutto ciò ipocrisia, l’uso di due pesi e due misure. Ma come osano! Da queste parti, noi la chiamiamo chiarezza morale.

Larry Derfner è un giornalista israeliano che si occupa di questioni interne e mediorientali; scrive abitualmente sul Jerusalem Post.

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23 ottobre 2009

Negare l'Olocausto aiuta solo Israele.

L’uso spregiudicato della tragedia dell’Olocausto e della sofferenza degli ebrei – la cd. “industria dell’Olocausto” – ha sempre assicurato nel tempo ad Israele cospicui dividendi economici e politici.

Non è un mistero che l’ondata emotiva susseguente alla conoscenza dello sterminio degli ebrei ad opera del regime nazista fu proprio uno dei motivi che portò l’Onu ad assegnare il 55% della Palestina agli ebrei, benché questi rappresentassero soltanto un terzo della popolazione presente sul territorio e ne occupassero soltanto un misero 10%.

Questo senza considerare la profonda ingiustizia e, probabilmente, la illegalità di una risoluzione (la n.181 del 1947) che imponeva alla popolazione indigena di spartire la propria terra con una colonia di nuovi venuti, molti dei quali appena arrivati dall’Europa.

In seguito, l’arma dell’Olocausto servì ad ottenere cospicui risarcimenti monetari da parte di vari Stati europei e, soprattutto, a garantire ad Israele lo status di “vittima” e a renderlo pressocché immune da ogni critica, e ciò benché questo vero e proprio Stato-canaglia mantenga da più di 60 anni una brutale occupazione militare di territori altrui, violi quotidianamente la legalità internazionale e il diritto umanitario, abbia una fedina penale impressionante riguardante la violazione dei diritti umani fondamentali del popolo palestinese e il massacro di migliaia di civili inermi ed innocenti.

E’ chiaro quindi che il mondo arabo, che vede l’occupazione dei Territori palestinesi come una profonda ingiustizia per via della quale essi sono chiamati a” pagare” per un crimine che, comunque, è a loro del tutto estraneo, possa dimostrarsi permeabile alle teorie negazioniste dell’Olocausto, usate come arma politica.

Ne è il classico esempio il presidente iraniano Ahmadinejad, secondo cui lo Stato di Israele – che gode dell’incondizionato appoggio degli Usa – è potuto venire ad esistenza solamente sfruttando questo “presunto” genocidio. E’ dunque attraverso il negazionismo, associato all’antiamericanismo, che si arriverà a “cancellare” lo Stato ebraico dalla carta geografica.

Ma si tratta di un grave errore, che serve solo la causa di Israele e supporta il suo status di eterna “vittima” di una congiura mondiale antisemita, e di una strumentalizzazione che non serve affatto alla causa del popolo palestinese. Di questo e altro tratta l’articolo di Tahar Ben Jelloun, pubblicato dal settimanale L’espresso in edicola la settimana passata (n.42 del 22 ottobre).

La questione palestinese non ha nulla a che vedere con l’Olocausto degli ebrei, si tratta puramente e semplicemente di una questione di giustizia, di legalità internazionale, di affermazione del diritto alla autodeterminazione dei popoli. Il regime dell’apartheid instaurato da Israele nei Territori occupati, un’occupazione di stampo razzista e colonialista, è una scandalosa vergogna che va eliminata, ma per farlo non c’è alcun bisogno di ricorrere alla rivisitazione e alla riscrittura della storia.

Nel famoso discorso tenuto qualche tempo addietro all’Università del Cairo, il presidente Usa Barack Obama, mentre esprimeva la sua volontà di riconciliazione tra gli Stati Uniti e l’Islam, si premurava nel contempo di affermare l’immoralità di chi vuole mettere in dubbio la realtà storica della Shoah.

Possiamo anche concordare su questo, purché nel momento in cui gridiamo “mai più!” riferendoci allo sterminio degli ebrei, siamo altrettanto pronti e conseguenti nell’adoperarci a far cessare quell’autentico e vergognoso crimine costituito dall’assedio e dalla riduzione alla fame di un milione e mezzo di Palestinesi che, nella Striscia di Gaza, vivono in condizioni degne del ghetto di Varsavia, e ad impedire che vengano massacrati civili innocenti a Gaza come in Cisgiordania, sia pure se si tratta “solo” di alcune migliaia di persone.

Perché altrimenti, ancora una volta, le parole di Obama saranno destinate a restare un vacuo esercizio di retorica.

Quanto sin qui detto si ricollega, in qualche modo, al caso che riguarda il professor Antonio Caracciolo e l’incredibile gogna mediatica a cui è sottoposto in questi giorni da parte del quotidiano” La Repubblica”.

Antonio Caracciolo, 59 anni, ricercatore di Filosofia del Diritto all’Università La Sapienza di Roma, gestisce un certo numero di blog tra i quali, almeno tra quelli a me noti, vi sono
Clubtiberino e Civium Libertas.

Riportando come titolo dell’articolo una frase virgolettata che non compare in alcuno dei due siti e che il professore afferma di non aver mai pronunciato (“lo sterminio degli ebrei è una leggenda”), Antonio Caracciolo viene additato da Repubblica come un pericoloso negazionista antisemita, scatenando le ovvie reazioni della politica romana e quelle del rettore dell’Ateneo, il quale minaccia provvedimenti disciplinari. L’atto d’accusa di Repubblica lo potete trovare
qui e qui, l’autodifesa del povero Caracciolo in questa pagina del suo blog Civium Libertas.

Premesso che le teorie revisioniste e/o negazioniste dell’Olocausto non mi hanno mai minimamente interessato, che non ho alcuna remora nell’accettare le cifre ufficiali degli ebrei morti a causa delle persecuzioni naziste e che sono estremamente ligio alle leggi della Repubblica italiana (così, tanto per evitare equivoci…), devo dire che a me pare una grave abdicazione al principio della libertà di manifestazione del pensiero – che pure è un diritto di rango costituzionale – l’impossibilità di fatto di sottoporre a revisione e riesame critico di un fatto storico datato ormai diverse decine di anni fa, sia pure quando si tratti di una tragedia immane quale è la Shoah.

Trovo inoltre gravissimo che un uomo possa essere sospeso e, in ipotesi estrema, perdere il lavoro, solo in ragione delle sue idee; va rilevato, infatti, che il professor Caracciolo afferma di non aver mai pronunciato la frase incriminata riportata da Repubblica, e che lo stesso quotidiano deve ammettere che mai, nel corso delle sue lezioni, si è trattato di teorie negazioniste.

Trovo inusitate e pericolose le affermazioni del presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, secondo cui “bisogna evitare che certe persone possano entrare in contatto con gli studenti”: ma stiamo scherzando?

Questo per tacere del fatto che quello che è ormai divenuto il “caso Caracciolo” rappresenta la nuova scusa per riesumare il solito vittimismo tipicamente ebraico, con Pacifici che afferma che nelle università italiane esiste una vera e propria “rete negazionista”, unita dall’odio verso Israele e gli ebrei e alimentata, tra l’altro, dalle esternazioni del presidente iraniano Ahmadinejad (e con ciò torniamo al punto di partenza…). L’obiettivo sarebbe quello di ottenere un intervento legislativo, sanzionando penalmente le esternazioni negazioniste e mettendo un bavaglio al web per evitare il proliferare di siti con contenuti antisemiti e negazionisti.

E’ certo un mondo strano quello contemporaneo, in cui – in alcuni Paesi – un reato di opinione come la negazione dell’Olocausto può condurre in galera, mentre la comunità internazionale non riesce a incriminare e a sanzionare penalmente gli assassini che hanno massacrato a Gaza oltre 1.400 persone, l’83% dei quali civili inermi, devastati dai proiettili a frammentazione o arsi vivi dal fosforo bianco.

E’ un mondo strano quello che vede i discendenti di un popolo vittima di un’orrenda persecuzione mandare il proprio potentissimo esercito – il più “morale” al mondo – a macchiarsi di atrocità e crimini di ogni sorta, mentre le comunità ebraiche di tutto il mondo, inclusa quella italiana, si schierano pressoché compattamente a giustificare, se non addirittura ad esaltare, i crimini bestiali di soldati che, per carità, si limitano soltanto a “difendere” la sicurezza di Israele. Minacciata, come è noto, da donne e bambini.

Tra le frasi incriminate del professor Caracciolo, indicate da Repubblica come venate da antisemitismo, vi è anche questa: "Le leggi razziali furono cose di 70 anni fa che si collocano in un contesto di 70 anni fa. Molti italiani, la stragrande maggioranza, hanno meno di 70 anni e quasi tutti gli italiani di oggi non hanno nessuna memoria diretta di quegli anni. A trarne profitto sono gli ebrei di età avanzata che sono diventati una sorta di eroi nazionali”.

Vorrei allora riportare a confronto di queste affermazioni un breve brano, tratto dal libro “L’industria dell’Olocausto” di Norman Finkelstein.

“Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento…

Dal momento che l’interpretazione dell’Olocausto assumeva forme sempre più assurde, a mia madre piaceva citare, non senza ironia, Henry Ford: "La storia è una sciocchezza". I racconti dei "sopravvissuti all’Olocausto" (tutti prigionieri dei campi di concentramento, tutti eroi della resistenza) a casa mia erano una fonte particolare di amaro divertimento.

D’altronde già molto tempo fa John Stuart Mill aveva compreso che "le verità se non sottoposte a continua revisione, cessano di essere verità. E, attraverso le esagerazioni, diventano falsità".
Mio padre e mia madre mi chiesero spesso perché m’indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello stato di Israele e il sostegno americano a tale politica.".

Ma Finkelstein, ebreo americano figlio di sopravvissuti ai lager nazisti, certe cose può permettersi di affermarle, il professor Caracciolo evidentemente no, e non se ne comprende la ragione.

L’autogol di Ahmadinejad
Il negazionismo sull’Olocausto non aiuta la causa palestinese
di Tahar Ben Jelloun

Ury Avnery, militante israeliano per la pace, si è posto la questione di sapere perchè il governo israeliano abbia boicottato la commissione Goldstone incaricata dall’Onu di indagare su quello che è realmente accaduto a Gaza. ” Perchè sapeva che la commissione, a prescindere da quale fosse, sarebbe arrivata alle conclusioni alle quali è arrivata”.

Richard Goldstone è stato giudice della Corte costituzionale del Sudafrica, primo procuratore del Tribunale penale internazionale ed ex militante anti-apartheid. Ha accettato di guidare questa commissione perchè crede nella supremazia dei diritti e delle leggi di guerra.

L’inchiesta è stata condotta in condizioni difficili. Non essendo stata autorizzata a entrare sul suolo israeliano nè nei Territori palestinesi, per accedere a Gaza – dove è stata accolta dai dirigenti di Hamas che hanno risposto alle sue domande – la commissione è dovuta passare dall’Egitto.

Il rapporto che ha redatto è schiacciante per Israele e non risparmia Hamas.

Il rapporto parla infatti di 1387 palestinesi morti, di cui 300 bambini, 115 donne e 85 uomini di età superiore a 50 anni; di 2700 edifici distrutti; e di 13 israeliani uccisi, di cui 5 soldati.Queste cifre non necessitano di nessun commento. Il problema è che Israele, come Hamas, ha ammazzato dei civili e ha commesso quindi “crimini di guerra”: è questa la conclusione alla quale approda il rapporto, anche se la guerra è stata particolarmente sbilanciata.

Human Rigthts Watch che svolge inchieste sulle violazioni dei diritti umani, non è riuscita a interrogare i responsabili israeliani e nel rapporto si deplora questo fatto. Le reazioni delle autorità di Israele confermano in qualche modo una consapevolezza di cui si rifiutano le premesse. Così, per esempio, il presidente Shimon Peres ha dichiarato che questo rapporto è una “pagliacciata storica, che non distingue tra chi aggredisce e uno Stato che esercita il proprio diritto alla legittima difesa”. Quanto al primo ministro Netanyahu, ha paragonato i razzi di Hamas ai blitz dei nazisti in Inghilterra!

Queste modalità di difesa e di negazione della realtà non fanno che deteriorare sempre più l’immagine dello Stato di Israele presso l’opinione pubblica internazionale e in particolare arabo-musulmana. Ciò incoraggia l’iraniano Ahmadinejad a parlare di ”leggenda dell’Olocausto”. La confusione su questo argomento è totale e non serve assolutamente la causa palestinese. Non si rende un servizio alla Storia e al popolo palestinese negando la tragedia che ha sterminato gli ebrei.

Tutti i negazionisti che si sono avvicinati ai palestinesi per dar loro un aiuto non hanno fatto che ingenerare nuova confusione. Si tratta di aiuti di cui i palestinesi non hanno bisogno, perchè la loro causa non ha nulla a che spartire con il passato nel quale l’Europa si rese colpevole dello sterminio degli ebrei. La Germania nazista, l’Italia fascista, la Francia di Vichy hanno mandato gli ebrei a morire. Perchè oggi i palestinesi che lottano per avere una patria sarebbero responsabili dei massacri commessi dall’Europa?

Quando Netanyahu mette sullo stesso piano i razzi di Hamas e i blitz nazisti, cambia i termini reali della questione, che è e rimane quella dell’occupazione dei Territori, una faccenda coloniale, che non ha nulla a che spartire con l’Olocausto degli ebrei.

Nel mondo arabo prevale un sentimento anti-israeliano molto forte. Alcuni vorrebbero confonderlo con l’antisemitismo. Il razzismo contro gli ebrei esiste un po’ dappertutto nel mondo, ma le critiche e la denuncia della politica del governo israeliano non sono antisemitismo, anche se alcuni media indulgono un po’ in questa confusione.

Gli israeliani, uomini politici o intellettuali, che criticano severamente il modo in cui il loro governo ha combattuto in Libano nel 2006 e a Gaza nel 2008 sono forse antisemiti?

Ahmadinejad si spinge molto oltre nel suo odio per lo Stato di Israele, pur ricordando che in Iran vivono decine di migliaia di ebrei che non si lamentano. I suoi discorsi sono violenti, intollerabili.

Nel momento in cui si prepara a sfidare gli Stati Uniti e l’Europa con il suo programma nucleare, provoca in primis Israele, che cerca in tutti i modi di impedire che l’Iran si procuri l’atomica.Tutto ciò è preoccupante, perchè un attacco israeliano contro l’Iran avrebbe conseguenze più gravi dei bombardamenti dell’Iraq quando Saddam cercava di procurarsi uranio arricchito.

Non resta che sperare che la pazienza e la saggezza di Obama siano più validi dello spirito bellicoso di Netanyahu.

(traduzione di Anna Bissanti)

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22 ottobre 2009

Marcia per Gaza - Delegazione europea.

Ricevo e pubblico volentieri.

Gaza Freedom March
27 dicembre – 3 gennaio

Nei giorni del primo anniversario dell'assalto e massacro israeliano a Gaza, centinaia e centinaia di attivisti internazionali tenteranno di rompere l'assedio per partecipare ad una grande manifestazione nonviolenta, marciando al fianco della popolazione di Gaza il 31 dicembre 2009.

La Gaza Freedom March (http://www.gazafreedommarch.org/) sarà una manifestazione di solidarietà che intende inoltre richiamare l'attenzione sulla crisi umanitaria in corso e sulla illegalità dell'assedio, chiedendo alla comunità internazionale che vi metta fine.

Il Coordinamento europeo per la Palestina (ECCP) aderisce e parteciperà alla Gaza Freedom March del 31 dicembre con una delegazione europea, che si incontrerà prima al Cairo. Parteciperemo alla storica manifestazione, insieme a Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo, al premio Pulitzer Alice Walker, allo scrittore Walden Bello, ad attivisti provenienti da più di 30 paesi e alla società civile di Gaza per dire a Israele e alla comunità internazionale: Basta con l'assedio di Gaza!

È ora di far sapere a tutto il mondo che Gaza non è sola.

Qui potete trovare l'appello internazionale tradotto.

Per inviare l'adesione, per maggiori informazioni o per esprimere interessealla delegazione ECCP/Italia, scrivi a: europa.marciapergaza@gmail.com

LOGISTICA

Durante la permanenza a Gaza, verranno organizzati incontri con la società civile palestinese e visite in tutta la striscia.

Ipotesi di itinerario

27 dic: Incontro al Cairo, partenza la notte per Rafah

28 dic: Ingresso a Gaza*

29 dic: Visite a Gaza e incontri con la società civile

30 dic: Visite a Gaza e incontri con la società civile

31 dic: Gaza Freedom March

1 gen: Incontri con la società civile, evento per la pace in serata

2 gen: Uscita da Gaza**, ritorno al Cairo

* Data la natura dell'assedio, non è possibile garantire l'ingresso. In caso non si possa entrare, verrà organizzato un programma alternativo.
**Per chi desidera restare più a lungo, ci sarà un gruppo internazionale che rimane a Gaza per uscire tutti insieme il 9 gennaio. Si consiglia di prenotare il volo dal Cairo dal 10 gennaio in poi.

Considerato che le partenze avvengono da diverse città italiane mentre le date di ritorno non sono omogenee, chiediamo ad ognuno di organizzareautonomamente il proprio viaggio a/r , in modo di essere al Cairo entro il 27 dicembre con il volo di ritorno dal 3 gennaio in poi. Il punto diincontro per la delegazione ECCP verrà comunicato successivamente.

Il periodo è alta stagione quindi bisogna agire in fretta! Suggeriamo dicontattare l'agenzia Impronte con cui abbiamo già lavorato per viaggi inMedio Oriente e che offre condizioni più vantaggiose:

Impronte Viaggi

Tel. 067001909 – 067001906; Fax. 067001876

Riferimento: Marcia per Gaza

I partecipanti pagheranno una quota di 200 euro che comprende trasporti a/r dal Cairo a Gaza e all’interno di Gaza, 2 pasti al giorno, alloggi a Gazadel tipo dormitorio, spese dell'organizzazione. In caso di alloggio inalbergo il costo sarà di 450 euro.

Ogni partecipante dovrà coprire le proprie spese per il visto egiziano (10euro), i trasporti dall'airporto (taxi: circa 8 euro fino a 4 persone),l'albergo al Cairo (circa 20-30 Euro camera doppia), tasse doganali alvalico di Rafah (circa 28 euro).

L'iscrizione e il pagamento della quota devono essere fatti entro il 15 novembre.

Verrà convocata una riunione in Italia prima della partenza con tutti i partecipanti.

Unisciti a noi!

Action for Peace

Di seguito la traduzione dell'appello per la marcia a Gaza, insieme alla dichiarazione di contesto.

Appello Internazionale per la Gaza Freedom March

L'assedio israeliano di Gaza è una flagrante violazione del diritto internazionale che ha portato alla sofferenza di massa. Gli Stati Uniti, l'Unione Europea, e il resto della comunità internazionale sono complici.

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa. Eppure, l'assedio di Gaza continua. È giunto il momento di agire! Il 31 dicembre 2009 concluderemo l'anno marciando al fianco del popolo palestinese di Gaza in una manifestazione nonviolenta per rompere il blocco illegale.

Il nostro scopo in questa marcia è rompere l'assedio di Gaza. Chiediamo che Israele ponga fine al blocco. Chiediamo anche all'Egitto di aprire la frontiera di Gaza a Rafah. I palestinesi devono avere la libertà di viaggiare per motivi di studio, di lavoro, e di cura e anche di ricevere visitatori provenienti dall'estero.

Essendo noi una coalizione internazionale, non spetta a noi sostenere una soluzione politica specifica a questo conflitto. Eppure la fiducia nella nostra comune umanità ci spinge a chiedere a tutte le parti di rispettare e sostenere il diritto internazionale e i diritti umani fondamentali per porre fine all'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi del 1967 e per perseguire una pace giusta e duratura.

La marcia potrà avere successo soltanto se risveglierà la coscienza dell'umanità.

Vi invitiamo tutti ad unirsi a noi.

La Coalizione internazionale per la fine dell'assedio illegale di Gaza

Gaza Freedom March
Dichiarazione di Contesto

Amnesty International ha descritto il blocco di Gaza come una "forma di punizione collettiva di tutta la popolazione di Gaza, una flagrante violazione di obblighi di Israele nel quadro della quarta convenzione di Ginevra." Human Rights Watch ha chiamato il blocco una "grave violazione del diritto internazionale". Il Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, Richard Falk, ha condannato l'assedio israeliano di Gaza che rappresenta un "crimine contro l'umanità".

L'ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha detto che la gente di Gaza viene trattata "come animali", e ha chiesto di "porre fine all'assedio di Gaza" che sta privando "un milione e mezzo di persone delle necessità della vita."

Uno dei principali esperti a livello mondiale di Gaza, Sara Roy dell'Università di Harvard, ha detto che le conseguenze dell'assedio "provocano innegabilmente una situazione di sofferenza di massa, che è creata in gran parte da Israele, ma con la complicità attiva della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e l'Unione Europea".

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa.

I palestinesi di Gaza hanno esortato la comunità internazionale ad andare oltre le parole di condanna.

Eppure, l'assedio di Gaza continua.

La difesa del diritto internazionale

L'assedio illegale di Gaza non avviene nel vuoto. E 'uno dei tanti atti illeciti commessi da Israele nei territori palestinesi occupati militarmente nel 1967.

Il muro e gli insediamenti sono illegali, secondo la Corte internazionale di giustizia dell'Aia.

La demolizione di case e la distruzione indiscriminata delle terre agricole sono illegali.

La chiusura e il coprifuoco sono illegali.

I blocchi stradali e i checkpoint sono illegali.

La detenzione e la tortura sono illegali.

L'occupazione stessa è illegale.

La verità è che se il diritto internazionale fosse applicato l'occupazione finerebbe.

La fine della occupazione militare iniziata nel 1967 è una condizione fondamentale per instaurare una pace giusta e duratura. Per oltre sei decenni, al popolo palestinese sono stati negati il diritto alla libertà, all’ autodeterminazione e all’ uguaglianza. Alle centinaia di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case con la creazione di Israele nel 1947-48 sono ancora negati i diritti riconosciuti loro dalla risoluzione ONU 194.

Fonti d'ispirazione

La Gaza Freedom March trae ispirazione da decenni di anni di resistenza non violenta palestinese, dalla sollevazione popolare di massa della prima Intifada agli abitanti dei villaggi in Cisgiordania che attualmente resistono al furto di terre attuato con la costruzione dal muro annessionista di Israele.

Trae ispirazione dalla stessa gente di Gaza, che ha formato una catena umana da Rafah a Erez, ha demolito la barriera di confine che separa Gaza dall'Egitto, e ha marciato verso i sei posti di blocco che separa la Striscia di Gaza occupata da Israele.

La Gaza Freedom March trae ispirazione anche dai volontari internazionali che hanno difeso gli agricoltori palestinesi durante durante il periodo raccolta nei campi, dagli equipaggi delle navi che hanno sfidato il blocco di Gaza via mare, e dai conducenti dei convogli che hanno consegnato gli aiuti umanitari a Gaza.

Ed è ispirato da Nelson Mandela che ha detto: "Ho camminato nella lunga strada verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho fatto passi falsi lungo il percorso. Ma ho scoperto che, dopo aver scalato una grande collina, ci sono ancora molte altre colline da scalare. Non oso indugiare, per il mio lungo cammino non è finita. "

Si da ascolto alle parole del Mahatma Gandhi, che chiamò il suo movimento “Satyagraha “cioè “aggrapparsi alla verità”. Noi ci aggrappiamo alla verità che l'assedio israeliano di Gaza è illegale e disumano.

Gandhi ha detto che lo scopo dell'azione nonviolenta è quello di "accelerare" la coscienza dell'umanità. Attraverso la Gaza Freedom March, l'umanità non solo deplorerà la brutalità israeliana, ma interverrà per fermarla.

La società civile palestinese ha seguito i passi di Gandhi e Mandela. Proprio come i due leader, ha invitato la società civile internazionale a boicottare i prodotti e le istituzioni dei propri oppressori. Associazioni, sindacati e movimenti di massa palestinesi nel 2005 hanno lanciato un appello che invita tutte le persone di coscienza a sostenere una campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni fino a quando Israele non rispetterà pienamente i suoi obblighi di diritto internazionale.

La Gaza Freedom March trae anche ispirazione dal movimento dei diritti civili negli Stati Uniti.
Se Israele svaluta la vita dei palestinesi allora noi internazionali dobbiamo sia interporre i nostri corpi per proteggere i palestinesi dalla brutalità israeliana che testimoniare personalmente la disumanità con la quale i palestinesi si confrontano ogni giorno.

Se Israele sfida il diritto internazionale allora le persone di coscienza devono inviare corpi civili nonviolenti da tutto il mondo per applicare la legge della comunità internazionale a Gaza. La Coalizione internazionale, per porre fine all'assedio illegale di Gaza, invierà contingenti provenienti da tutto il mondo a Gaza per ricordare l'anniversario del sanguinoso assalto israeliano durato 22 giorni dal dicembre 2008 al gennaio 2009.

La Gaza Freedom March non vuole assumere alcuna posizione rispetto alla politica interna palestinese. Si schiera solo con il diritto internazionale e il primato dei diritti umani.

La marcia è un altro anello nella catena di resistenza nonviolenta e di opposizione al totale disprezzo di Israele nei confronti del diritto internazionale.

I cittadini del mondo sono chiamati ad unirsi ai palestinesi il 31 gennaio per rompere l'assedio disumano di Gaza.

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21 ottobre 2009

In Israele vanno di moda i tatuaggi.


Ieri il quotidiano La Repubblica – citando un articolo apparso qualche giorno fa sull’israeliano Ha’aretz – ci ha reso edotti del fatto che sempre più ebrei si tatuano.


Nonostante il divieto imposto dalla Torah, “non farete incisioni sul vostro corpo” (Deuteronomio, 14.1), pare infatti che tra gli ebrei più giovani, in Israele come all’estero, si stia diffondendo sempre più la moda di adornare il proprio corpo con tatuaggi, e già a Tel Aviv gli studi che eseguono tatuaggi e piercing si contano a decine.


Ne sono davvero lieto, ma sono anche un po’ curioso: quand’è che anche i giovani assassini di Tsahal cominceranno a farsi tatuare sul corpo immagini come quella che trovate qui sopra, che ricorda come, uccidendo una donna incinta palestinese, si uccidono due esseri umani in un colpo solo?


D’altra parte passare dalle foto di palestinesi uccisi usate come screen-saver dei cellulari alle magliette con disegni edificanti e, ora, ai tatuaggi, mi sembrerebbe la normale evoluzione degna di un paese civile come Israele.

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15 ottobre 2009

Continua il silenzio Usa sul nucleare israeliano.

Come abbiamo già avuto modo di rilevare, il segreto peggio conservato al mondo è probabilmente costituito dal fatto che Israele possiede la bomba atomica.

Ufficialmente, gli Stati Uniti hanno sempre adottato una politica di ambiguità riguardo all’arsenale atomico detenuto da Israele, non riconoscendo mai esplicitamente – ma neppure negando – che lo Stato ebraico sia in possesso di svariate testate nucleari, stimate dai diversi analisti del settore in un numero compreso tra le duecento e le quattrocento testate.

Secondo indiscrezioni riportate dal Washington Times nell’articolo che segue, proposto nella traduzione del sito
Medarabnews, di recente il Presidente americano Barack Obama avrebbe accettato di riconfermare la tacita intesa stipulata fra gli Stati Uniti ed Israele ai tempi di Nixon, in base alla quale Washington si impegna a non esercitare pressioni su Tel Aviv in merito al programma nucleare di Israele.

Questo fatto, come è ovvio, stride maledettamente con la politica volta al disarmo, alla pace e alla non proliferazione nucleare che costituisce uno dei cardini programmatici della presidenza Obama e che, secondo molti, ha costituito uno dei motivi principali per cui allo stesso Obama è stato conferito il premio Nobel per la pace.

In questo periodo in cui molti paventano come catastrofica l’ipotesi che l’Iran si doti dell’arma atomica, sarebbe utile puntare i riflettori anche sull’arsenale atomico detenuto da Israele e pronto ad essere usato alla bisogna senza alcuna remora.

E’ utile qui ricordare come, già nel 1991, il reporter investigativo Seymour Hersh avesse pubblicato un libro intitolato “
The Samson Option” (curiosamente uno dei pochi non tradotti in italiano…), in cui si rivelava nel dettaglio la strategia israeliana di un massiccio attacco nucleare contro i Paesi arabi nel caso in cui l’esistenza stessa di Israele fosse stata messa a repentaglio. Il libro tra l’altro rivelava che, già nel 1973, al terzo giorno della guerra dello Yom Kippur, Israele aveva minacciato di usare la bomba atomica, ricattando l’allora Presidente Usa Nixon e inducendolo ad autorizzare ulteriori aiuti militari.

Ancora una volta, dunque, il principale ostacolo lungo il percorso di pace prefigurato da Obama è costituito proprio dal suo principale “alleato” in Medio Oriente, Israele. Per ricordare quanto sostenuto di recente dal Direttore dell’AIEA Mohamed El Baradei, il regime di non proliferazione nucleare rischia di perdere ogni credibilità e ogni legittimità di fronte alla pubblica opinione nel mondo arabo (ma non solo), poiché non viene a costituire altro che l’ennesimo esempio di doppio standard a favore dello Stato ebraico, l’unico paese della regione al di fuori del Trattato di non proliferazione e di cui è noto che possiede armi nucleari.

E ciò, oggi, e ancor più grave a seguito della presentazione del rapporto Goldstone, che ha mostrato al mondo come Israele non abbia avuto alcuna remora nel dispiegare a Gaza tutta la terrificante potenza del proprio arsenale bellico, massacrando un’intera popolazione civile inerme con i suoi missili, le granate al fosforo bianco, i proiettili all’uranio impoverito, le granate a flechettes.

E se un giorno, anziché la Striscia di Gaza, Israele decidesse di attaccare l’Iran, quali armi sarebbe disposto ad usare?

Il presidente Obama ha recentemente riconfermato una quarantennale intesa segreta che ha permesso a Israele di mantenere un arsenale nucleare senza aprirsi alle ispezioni internazionali. Lo hanno affermato tre funzionari che hanno avuto a che fare con questo accordo.

I funzionari, che hanno parlato in condizione di anonimato, hanno dichiarato che Obama aveva promesso di confermare l’accordo quando ha ospitato per la prima volta il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso maggio.

In base all’intesa, gli Stati Uniti non hanno esercitato pressioni su Israele perché divulgasse le proprie armi nucleari o firmasse il Trattato di Non Proliferazione (NPT), il quale potrebbe richiedere che Israele rinunci alle diverse centinaia di bombe nucleari che si stima siano in suo possesso.

Israele ha avuto il timore che Obama non avrebbe confermato l’intesa del 1969 a causa del suo forte impegno a favore della non proliferazione e della priorità di impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari. Gli Stati Uniti ed altre cinque potenze mondiali hanno compiuto progressi durante i colloqui con l’Iran, giovedì 1° ottobre a Ginevra,quando Teheran ha accettato in linea di principio di trasferire fuori dal paese il combustibile potenzialmente utile alla costruzione di armi nucleari, e di aprire alle ispezioni internazionali un impianto scoperto di recente.

Netanyahu si è lasciato sfuggire la notizia del confermato accordo USA-Israele alla fine di settembre, nel corso di un’osservazione che ha attirato poca attenzione. Gli era stato chiesto dal Canale 2 di Israele se era preoccupato della possibilità che il recente discorso di Obama all’Assemblea Generale dell’ONU, che invocava un mondo senza armi nucleari, si applicasse anche ad Israele.

“Era assolutamente chiaro dal contesto del discorso che egli stava parlando della Corea del Nord e dell’Iran”, ha risposto il leader israeliano. “Ma vi voglio anche ricordare che nel corso del mio primo incontro con il presidente Obama a Washington ho ricevuto da lui, ed ho chiesto di ricevere da lui, una lista dettagliata delle intese strategiche che esistono da molti anni fra Israele e gli Stati Uniti su questo tema. Non è per niente che ho richiesto [quel documento], e non è per niente che l’ho ricevuto”.

L’importante intesa nucleare fu raggiunta in occasione di un vertice fra il presidente Nixon ed il primo ministro israeliano Golda Meir che ebbe inizio il 25 settembre 1969. Avner Cohen – autore di “Israel and the Bomb”, oltre che la principale autorità, eccetto il governo israeliano, sulla storia del programma nucleare israeliano – ha affermato che l’accordo consiste nel fatto che “gli Stati Uniti accettino passivamente la situazione delle armi nucleari israeliane fino a quando Israele non rivelerà pubblicamente le sue capacità, o non testerà apertamente un’arma”.

Non vi è una registrazione formale dell’accordo, né i governi israeliani ed americani lo hanno mai pubblicamente riconosciuto. Nel 2007, tuttavia, la biblioteca Nixon declassificò un promemoria del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger che praticamente spiega la politica USA sull’argomento. Il promemoria afferma: “Sebbene idealmente potrebbe piacerci fermare l’effettivo possesso [di armi nucleari] da parte israeliana, ciò che realmente vogliamo come misura minima potrebbe essere semplicemente evitare che il possesso israeliano diventi un fatto stabilito a livello internazionale”.

Avner Cohen ha affermato che la politica che ne è risultata equivaleva alla formula “non chiedere, non dire”.

Il governo Netanyahu ha cercato di riaffermare l’intesa anche a causa della preoccupazione che l’Iran, nei negoziati con gli Stati Uniti e con le altre potenze mondiali, avrebbe cercato di ottenere la divulgazione, da parte di Tel Aviv, del programma nucleare israeliano. L’Iran ha frequentemente accusato gli Stati Uniti di usare due pesi e due misure non opponendosi all’arsenale israeliano.

Cohen ha detto che la riconferma dell’intesa, ed il fatto che Netanyahu abbia chiesto e ricevuto una registrazione scritta dell’accordo, suggeriscono che “non soltanto non vi era un’intesa condivisa su ciò che era stato concordato nel settembre del 1969, ma è anche evidente che perfino le note dei due leader potrebbero non esistere più. Ciò significa che Netanyahu ha voluto avere qualcosa di scritto che implicasse quell’intesa. Ciò conferma anche l’opinione che gli Stati Uniti siano in effetti un partner della politica di ‘opacità’ nucleare portata avanti da Israele”.

Jonathan Peled, un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, ha rifiutato di commentare, così come ha fatto il National Security Council della Casa Bianca.

L’intesa segreta potrebbe compromettere l’obiettivo dell’amministrazione Obama di un mondo senza armi nucleari. In particolare, potrebbe scontrarsi con gli sforzi americani di far applicare il Trattato sul bando complessivo dei test (Comprehensive Test-Ban Treaty – CTBT) e il Trattato sul taglio del materiale fissile (Fissile Material Cut-off Treaty – FMCT), due accordi che secondo alcune amministrazioni americane del passato avrebbero dovuto essere applicati anche ad Israele. Questi trattati mettono al bando i test nucleari e la produzione di materiale fissile a scopi bellici.

Un membro dello staff del Senato che ha dimestichezza con la riconferma dell’intesa avvenuta lo scorso maggio – il quale ha chiesto di non essere nominato a causa della delicatezza della questione – ha affermato che “ciò che questo significa è che riguardo al programma nucleare israeliano il presidente si è impegnato su cose rispetto a cui non poteva fare altrimenti. Tuttavia, in linea di principio, ciò mette in questione tutti gli aspetti dell’agenda presidenziale di non proliferazione. Il presidente ha dato ad Israele un’esenzione gratuita dall’NPT”.

Daryl Kimball, direttore esecutivo dell’organizzazione Arms Control, ha affermato che questo passo non è così nocivo per la politica USA.

“Credo che sia corretto che i due nuovi leader degli Stati Uniti e di Israele abbiano voluto chiarire le precedenti intese fra i loro governi sulla questione”, ha detto.

Tuttavia Kimball ha aggiunto: “Con tutto il rispetto non sono d’accordo con Netanyahu. Il discorso del presidente Obama e la risoluzione 1887 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU si applicano a tutti i paesi a prescindere dalle intese segrete fra gli Stati Uniti ed Israele. Un mondo senza armi nucleari è in armonia con l’obiettivo dichiarato di Israele di giungere a un Medio Oriente libero da armi di distruzione di massa. Il messaggio di Obama è che le stesse responsabilità in materia di disarmo e non proliferazione dovrebbero essere applicate a tutti gli stati, e non solo ad alcuni”.

La dottrina nucleare israeliana è nota come “il lungo corridoio”. In base ad essa, Israele comincerebbe a considerare il disarmo nucleare solo dopo che tutti i paesi ufficialmente in guerra con lo stato ebraico avranno firmato un trattato di pace, e dopo che tutti i paesi vicini avranno abbandonato non solo i programmi nucleari ma avranno anche rinunciato agli arsenali chimici e biologici. Israele considera le armi nucleari come una garanzia esistenziale in un ambiente ostile.

David Albright, presidente dell’Institute for Science and International Security, ha detto di sperare che l’amministrazione Obama non conceda troppo a Israele.

“Si spera che il prezzo di simili concessioni sia l’accettazione da parte di Israele dei trattati CTBT e FMCT, oltre che dell’obiettivo a lungo termine di un Medio Oriente libero da armi di distruzione di massa”, ha dichiarato. “Altrimenti l’amministrazione Obama ha pagato un prezzo troppo alto, considerato il suo impegno per un mondo libero dalle armi nucleari”.

Eli Lake

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8 ottobre 2009

La miccia accesa di Gerusalemme est.

Lo scorso 27 settembre, una quarantina di coloni israeliani appartenenti ad un gruppo religioso estremista – pesantemente scortati dalla polizia e dalle guardie di frontiera – ha cercato di fare irruzione nel recinto della moschea al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam che si trova nel territorio occupato di Gerusalemme est.

I Palestinesi presenti nell’area sono intervenuti prontamente per far fronte alla provocazione, scontrandosi con i coloni e con le forze di sicurezza israeliane e riuscendo ad impedire l’ingresso ai coloni. L’intervento palestinese è stato però pagato a caro prezzo, perché la polizia e le guardie di frontiera israeliane hanno reagito con durezza sparando proiettili rivestiti di gomma, candelotti lacrimogeni e bombe assordanti contro i civili palestinesi, ferendone tre in maniera abbastanza seria (due sono stati colpiti ad un occhio da un proiettile rivestito di gomma) e una ventina in modo più lieve.

Si tratta dell’ennesima, gravissima provocazione - condotta peraltro in violazione di norme di diritto umanitario contenute nei protocolli addizionali alla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 – che ricorda molto da vicino la provocatoria passeggiata di Ariel Sharon che nove anni fa portò allo scoppio della seconda Intifada.

Si soffia dunque sul fuoco, da parte israeliana, in una situazione che già di per sé è esplosiva e carica di tensioni.

Sin dall’occupazione di Gerusalemme est, avvenuta nel 1967, l’obiettivo primario di Israele è stato infatti sempre quello di portare avanti un’opera di giudaizzazione del territorio occupato, creando una situazione geografica e demografica tale da rendere vano ogni tentativo di sottrarre questo territorio alla sovranità israeliana e di creare uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale.

Questo obiettivo è stato perseguito in questi anni attraverso varie misure, quali l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, a mezzo del Muro dell’apartheid e dei checkpoint, la revoca della residenza ai Palestinesi che si sono allontanati dal territorio municipale per almeno sette anni o che non sono in grado di dimostrare che Gerusalemme est è il centro della propria vita e dei propri interessi, la diseguale suddivisione del budget municipale per le infrastrutture e i servizi destinato alle due parti della città, la discriminazione nella concessione dei permessi per costruire e, soprattutto, le demolizioni degli edifici “illegali”.

Nelle ultime settimane, tanto per fare un esempio, nel solo quartiere di Sheikh Jarrah gli Israeliani hanno pianificato la costruzione di 540 unità abitative coloniche, mettendo a rischio di espropriazione e di allontanamento circa 475 Palestinesi (cfr. OCHA, The Humanitarian Monitor, agosto 2009).

Il rischio che i disordini a Gerusalemme est possano sfociare nello scoppio di una terza Intifada è dunque molto alto, ed è questo l’argomento dell’articolo che segue, scritto da Mel Frykberg per l’agenzia Inter Press Service e qui proposto nella traduzione del sito Medarabnews.

Ogni giorno che passa, del resto, appare sempre più evidente l’impotenza del Presidente Usa Barack Obama nell’imporre una significativa pressione sul riottoso “alleato” israeliano, non riuscendo nemmeno ad ottenere un semplice “congelamento” dell’attività di costruzione e di espansione degli insediamenti colonici illegali costruiti da Israele nella West Bank.

Se gli Usa non riescono nemmeno ad ottenere un semplice stop a tempo determinato dell’attività edilizia di espansione degli insediamenti, come potranno mai risolvere il nodo ben più complesso relativo a Gerusalemme est?

La politica israeliana e ogni atto compiuto da Israele a Gerusalemme est – in primo luogo la decisione del 30 luglio 1980 di considerare Gerusalemme unita come capitale dello Stato di Israele – ledono gravemente i diritti dei Palestinesi residenti a Gerusalemme est e costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e di svariate, rilevanti risoluzioni dell’ONU.

Il permanere di tali violazioni – incredibilmente tollerate dalla comunità internazionale – e il mancato riconoscimento dei sacrosanti diritti del popolo palestinese, alla lunga, non potranno che innescare una nuova spirale di violenza e di morte, e forse è già iniziato il conto alla rovescia.

Nei giorni scorsi sono scoppiati scontri tra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane dopo che un gruppo di coloni israeliani estremisti, scortato da soldati israeliani e dalla polizia, aveva cercato di entrare nel recinto della moschea Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam, che si trova nella città vecchia di Gerusalemme.

Giovani palestinesi hanno lanciato pietre e sedie contro la polizia israeliana. Gli israeliani hanno risposto con percosse, gas lacrimogeni, e proiettili di gomma. Decine di poliziotti e manifestanti sono rimasti feriti nelle violenze che ne sono seguite.

Domenica 27 settembre, Israele ha sigillato la Cisgiordania per lo Yom Kippur, uno dei giorni più sacri per l’ebraismo. Questa festa religiosa spesso coincide con la fine del mese sacro del Ramadan, aumentando le tensioni tra israeliani e palestinesi.

Un gruppo religioso estremista di coloni israeliani, i “Fedeli del Monte del Tempio”, celebra lo Yom Kippur ogni anno cercando di entrare nel recinto della moschea di Al-Aqsa, che ritiene sia costruita sui resti del secondo Tempio ebraico, distrutto dai romani nel 70 d.C.

L’organizzazione ha ripetutamente dichiarato la propria intenzione di distruggere la moschea di Al-Aqsa e di costruire il Terzo tempio ebraico sui suoi resti.

Nel contesto della crescente giudaizzazione di Gerusalemme Est da parte israeliana, nel tentativo di tenere unita la città sotto un controllo israeliano a tempo indeterminato e di usurpare le aspirazioni palestinesi che guardano a Gerusalemme Est come alla capitale di un futuro Stato palestinese, Al-Aqsa è diventata sempre più un punto di attrito.

L’emotività musulmana nei confronti di Al-Aqsa, accompagnata da ciò che viene percepito come un attacco scandaloso alla sensibilità islamica, è stata una delle cause che hanno chiamato a raccolta i palestinesi, sia di fede cristiana che musulmana, così come i musulmani di diverse correnti politiche e nazionalità.

Il movimento di resistenza libanese Hezbollah ha condannato l’azione israeliana, mentre Hamas ha invitato i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e di Israele, a scendere in piazza dando inizio a una nuova rivolta contro Israele in risposta agli scontri.

L’arcivescovo Atallah Hanna, una delle figure cristiane di più alto grado a Gerusalemme, ha dichiarato che le violenze di domenica 27 settembre sono un oscuro presagio riguardo a quelli che ha definito “i piani di Israele per la città”.

“Noi, come palestinesi cristiani e abitanti di Gerusalemme, non possiamo restare a guardare con le mani in mano di fronte a quello che è successo. Domenica scorsa si è trattato di Al-Aqsa, domani sarà la volta della Chiesa del Santo Sepolcro”, ha detto Atallah, riferendosi alla chiesa costruita sul luogo in cui si crede che sia stato sepolto Gesù.

Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto che “l’attacco contro i fedeli e i comuni civili è inaccettabile. Israele deve cessare tutte quelle azioni che servono solo a infiammare la situazione”.

Muhammad Dahlan, un altro alto funzionario dell’AP, e presunto istigatore della guerra civile a Gaza tra Hamas e Fatah, ha avvertito che una terza rivolta palestinese potrebbe essere all’orizzonte.

Bassam Abu Sharif, un ex consigliere del defunto presidente dell’AP Yasser Arafat, e membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha aggiunto la sua voce al coro di quelli che prefigurano la possibilità di una terza Intifada contro Israele.

“I palestinesi si stanno preparando a lanciare un’altra Intifada per l’indipendenza e la libertà in risposta alle violazioni israeliane, ai massacri e alle politiche contro i palestinesi e contro Gerusalemme, alla confisca delle terre, e alla separazione geografica dei territori palestinesi”.

Lunedì 28 settembre, le forze di sicurezza israeliane hanno fatto irruzione nelle abitazioni palestinesi in tutta Gerusalemme Est, arrestando più di 60 palestinesi sospettati da Israele di aver preso parte ai disordini.

Il martedì successivo abbiamo visitato il luogo degli scontri, e nonostante la calma apparente in superficie, la rabbia e il risentimento sembravano covare sotto la cenere.

Gruppi di soldati israeliani pesantemente armati, e unità di polizia motorizzata e a piedi, sono stati dislocati negli angoli strategici della città vecchia e in altre zone di Gerusalemme Est, mentre veniva dichiarato un elevato stato di allerta.

Molti palestinesi sembravano troppo spaventati per parlare con noi, mentre la polizia e i soldati israeliani si avvicinavano per controllare da vicino le nostre conversazioni.

Un residente di Gerusalemme che ha assistito agli scontri ma ha voluto mantenere l’anonimato, ci ha raccontato: “Ci saranno gravi violenze durante la preghiera del Venerdì, se questi fanatici israeliani tenteranno di nuovo i loro trucchi. Siamo stufi di loro”.

Samir Awad dell’Università di Birzeit, a nord di Ramallah, afferma che una grave ondata di violenza è sicuramente in vista.

“Ma io non credo che i palestinesi saranno in grado di sostenere un’Intifada a lungo termine. Sono troppo deboli politicamente ed economicamente, oltre ad essere emotivamente esauriti”, ci ha detto Awad.

“I palestinesi sono disperati, e non nutrono più alcuna fiducia nell’ormai defunto processo di pace. Hanno perso le loro speranze, ora che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sembra aver rinnegato la sua promessa sugli insediamenti e il suo impegno ad esercitare pressioni su Israele”.

“La possibilità che l’amministrazione americana preveda una contromossa che includa i piani per la creazione di uno Stato palestinese come primo passo, per poi affrontare le questioni degli insediamenti, di Gerusalemme Est e del diritto al ritorno dei profughi, come modo per contrastare l’ostinazione israeliana, sembra troppo ottimistica”, ha aggiunto Awad.

Tuttavia, il professor Moshe Maoz dell’Università Ebraica di Gerusalemme, afferma che il governo degli Stati Uniti potrebbe ancora tener fede alle sue promesse.

“Gli israeliani talvolta fraintendono la cultura americana che è più sobria e prudente rispetto all’approccio tipico degli israeliani, i quali tendono a essere espliciti e impazienti. Il fatto che Obama non abbia insistito sulla questione degli insediamenti ai recenti colloqui di New York, non significa che abbia rinunciato”, ha detto Maoz.

“Tuttavia, un’altra Intifada è del tutto possibile se non vi sarà alcuna svolta. La pazienza palestinese dopo 42 anni di occupazione è ormai in via di esaurimento”.

Il dottor Yousef Natsche, direttore delle Antichità e del Turismo presso il Waqf islamico che gestisce la moschea di Al-Aqsa, ha detto di sperare che non vi saranno ulteriori disordini.

“Ma le visite provocatorie da parte di estremisti ebrei sono in aumento sia di numero che di frequenza, e sono appoggiate dalle autorità israeliane.

“Le violenze di domenica 27 settembre sono un indicatore di ciò che potrebbe accadere in futuro su scala ancora più grande, se gli israeliani continueranno a non ascoltare i nostri avvertimenti”, ci ha detto Natsche.

Mel Frykberg è un giornalista australiano; è corrispondente dalla Palestina per l’Inter Press Service

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1 ottobre 2009

Il mare raccontato dai Palestinesi.

Cos’è il mare per i Palestinesi che vivono nella West Bank? In questo bel video di poco più di 3 minuti la domanda viene posta a varie persone, che raccontano le proprie esperienze, le memorie e i sogni di mare, in netto contrasto con la quotidiana, amara realtà fatta di checkpoint e restrizioni alla libertà di movimento.

Due parole vanno dette riguardo al Mar Morto e all’impossibilità per i Palestinesi di recarvisi.

Il Mar Morto è un sito naturale unico al mondo ed un luogo di vacanza molto frequentato. Contrariamente a quello che molti - anche in Israele – ritengono, la parte nord-occidentale del Mar Morto fa parte della West Bank ed è dunque territorio palestinese.

Fino allo scoppio della seconda Intifada, la zona nord-occidentale del Mar Morto rappresentava quasi l’unico svago per i Palestinesi, che vi si recavano nei fine settimana e per trascorrervi le vacanze. Nel corso degli anni, tuttavia, Israele ha ivi costruito numerosi insediamenti colonici, iniziando a trattare la zona come se fosse parte effettiva del territorio israeliano, separandola – al pari dell’intera Valle del Giordano – dal resto della Cisgiordania.

A partire dal marzo del 2007, l’esercito israeliano ha iniziato ad istituire con sempre maggior frequenza una serie di checkpoint “volanti” nell’area di Beit Ha’arava, vietando l’accesso al Mar Morto ai Palestinesi, con l’eccezione dei residenti o di chi lavorava nei villaggi circostanti. Tali checkpoint operavano in prevalenza nei fine settimana, quando l’afflusso degli allegri gitanti israeliani si faceva più intenso.

Nel maggio del 2007, infine, il checkpoint di Beit Ha’arava è divenuto permanente, e da allora l’esercito israeliano ha negato l’ingresso alla zona nord-occidentale del Mar Morto a tutti i Palestinesi non residenti, persino a quelli muniti di visti validi per l’ingresso in Israele.

E’ degno di nota come il divieto di accesso al Mar Morto per i Palestinesi non è sancito da alcun ordine militare scritto o direttiva di alcun genere.

Secondo quanto riportato dalla ong Association for Civil Rights in Israel, il comandante della brigata di stanza nella zona aveva sostenuto, durante un incontro con membri dell’associazione, che il divieto era stato istituito per evitare possibili “danni alle entrate delle comunità ebraiche sulle rive del Mar Morto quando i Palestinesi visitano le spiagge”! E’ ovvio, come consentire che i bravi coloni e gli allegri gitanti israeliani frequentino le stesse spiagge affollate da Palestinesi sporchi e cattivi?

Nel giugno del 2008, a seguito di intese raggiunte tra il governo israeliano e l’inviato del “Quartetto” Tony Blair, il portavoce dell’Idf dichiarò che il checkpoint di Beit Ha’arava era stato rimosso. Controlli effettuati dagli attivisti dell’ong israeliana B’tselem, tuttavia, hanno rilevato che il checkpoint è tutt’ora saltuariamente in funzione, specialmente nei fine settimana quando molti israeliani si recano sulle spiagge del Mar Morto.

La realtà è che Israele priva i Palestinesi che vivono in Cisgiordania dell’unico accesso ad una striscia di costa, rendendola disponibile per il divertimento dei soli Israeliani e per il profitto degli insediamenti colonici della zona.

Come sempre accade, e qui in maniera ancor più intollerabile, le “ragioni di sicurezza” sono del tutto inesistenti, mentre si è in presenza di un regime degli accessi e della libertà di movimento razzista e discriminatorio, come è tipico in ogni regime di stampo coloniale.

Alla fine di agosto di quest’anno, Israele mantiene all’interno della Cisgiordania ben 619 checkpoint e ostacoli vari alla circolazione. Questi checkpoint, questi ostacoli, questi blocchi ledono gravemente diritti fondamentali dei Palestinesi e impediscono loro di raggiungere agevolmente i luoghi di lavoro, le scuole, gli ospedali, i parenti, gli amici, i luoghi di culto.

E negano ai Palestinesi persino il diritto di passare una giornata di riposo e di divertimento in spiaggia.

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