Palestina libera!
Un piccolo spazio di informazione e riflessione per rimediare al colpevole silenzio dei media sulla tragedia del popolo palestinese.
26 febbraio 2011
23 febbraio 2011
Una "giornata della rabbia" per protestare contro il veto Usa a difesa delle colonie israeliane
La bozza di risoluzione che, in realtà, non era stata presentata solo da “un gruppo di Paesi arabi” (sempre qualche imprecisione, vero cari giornalisti della Repubblica?), ma anche da Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda, Norvegia, Portogallo solo per citare alcune delle nazioni firmatarie, si limitava invero a “riaffermare che le colonie israeliane costruite nei Territori palestinesi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme est, sono illegali e costituiscono il principale ostacolo per il raggiungimento di un accordo di pace giusto, durevole e globale” e a reiterare la richiesta ad Israele “di cessare immediatamente e completamente” ogni attività di espansione di tali insediamenti.
Come si vede, una risoluzione interamente basata sul diritto internazionale, del tutto condivisibile e, soprattutto, dal valore puramente formale, dato che non prevedeva alcuna sanzione nell’immediato nei confronti di Israele.
Ma, ancora una volta, lo strapotere della lobby ebraica e la sua pervasiva capacità di condizionamento della politica estera americana ha indotto gli Stati Uniti ha usare il proprio potere di veto per bloccare la risoluzione, costringendo la rappresentante Usa al Consiglio di Sicurezza ad arrampicarsi sugli specchi.
E, infatti, Susan Rice, se da una parte ha pur dovuto ricordare che gli Stati Uniti “respingono con la massima forza la legittimità” della continua attività di espansione delle colonie, dall’altra ha ribadito che il componimento del conflitto spetta solo ad Israeliani e Palestinesi, e che la risoluzione proposta avrebbe rischiato soltanto di irrigidire la posizione delle due parti.
Tesi, questa, in realtà un po’ bizzarra, perché è semmai l’ostinazione israeliana a costruire e ad ampliare le colonie che impedisce di fare il pur minimo passo verso la pace; non a caso, la responsabile Ue per gli affari esteri, Catherine Ashton, il giorno successivo ha rilasciato un comunicato ufficiale da cui traspare il disappunto per la posizione assunta dagli Usa: “Rilevo con rammarico che non è stato possibile raggiungere il consenso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla risoluzione relativa agli insediamenti. La posizione della Ue sulle colonie, incluse quelle a Gerusalemme est, è chiara: esse sono illegali secondo il diritto internazionale, sono un ostacolo verso la pace e costituiscono una minaccia per una soluzione a due stati”.
Ma, soprattutto, il punto debole delle argomentazioni della Rice riguarda il fatto che ogni soluzione del conflitto israelo-palestinese andrebbe demandata esclusivamente ai negoziati tra le parti: è vero invece l’esatto contrario, perché non stiamo parlando di due contraenti posti su un piano di parità, ma di un negoziato in cui una delle parti contraenti è infinitamente più debole rispetto all’altra, e dunque necessita di sostegno ed assistenza, soprattutto ove si consideri che null’altro chiede se non il rispetto della legalità internazionale.
L’ennesimo uso del potere di veto, peraltro, rafforza tra i Palestinesi e in tutto il mondo arabo la percezione che gli Usa, in realtà, si adoperino soltanto per garantire gli interessi del loro alleato israeliano, e solo in seconda battuta per raggiungere un equo (ma per chi?) accordo di pace.
Su quest’ultimo aspetto della vicenda si sofferma la corrispondente del Guardian da Gerusalemme, Harriet Sherwood, nell’articolo che segue proposto nella traduzione di Medarabnews.
I Palestinesi pianificano una “giornata della rabbia” dopo il veto Usa a una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani
di Harriet Sherwood – 20.2.2011
I Palestinesi stanno organizzando una “giornata della rabbia” per venerdì, in risposta al veto statunitense su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che avrebbe condannato gli insediamenti israeliani.
La decisione degli Stati Uniti di usare il veto ha suscitato una reazione furiosa nella West Bank e a Gaza.
Questo fine settimana ci sono state proteste anti-americane nelle città di Betlemme, Tulkarem e Jenin della West Bank in seguito al voto di 14 a 1, con il quale gli Stati Uniti si sono opposti da soli a tutto il Consiglio di Sicurezza, incluse la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. Gli USA hanno fra l’altro votato contro la loro stessa politica.
A Gaza, Hamas ha detto che la posizione degli Stati Uniti è oltraggiosa e ha incalzato affermando che Washington è “completamente dalla parte” di Israele.
Ibrahim Sarsour, un membro arabo-israeliano della Knesset, ha affermato che è giunto il momento di dire a Barack Obama di “andare al diavolo”.
“Non ci si può fidare di Obama”, ha scritto in una lettera aperta al presidente palestinese Mahmoud Abbas. “Sapevamo che le sue promesse erano solo bugie. E’ arrivato il momento di sputare in faccia agli Americani”.
Il ministero degli esteri egiziano ha detto che il veto degli Stati Uniti avrebbe “condotto a un ulteriore indebolimento tra gli Arabi della credibilità degli Stati Uniti come mediatori negli sforzi di pace”.
L’uso del veto, per la prima volta sotto la presidenza Obama, rafforzerà nel mondo arabo la percezione che per gli Stati Uniti la protezione del suo alleato Israele supera la volontà di trovare una giusta soluzione per i Palestinesi all’eterno conflitto.
Questa mossa probabilmente intralcerà gli sforzi statunitensi volti a convincere le parti a ritornare al tavolo dei negoziati, che si erano arenati a settembre proprio sulla questione dell’espansione degli insediamenti.
Con le proteste contro la repressione, la corruzione, il carovita e le disastrose prospettive economiche, che stanno infiammando tutto il Medio Oriente, Washington è consapevole della sfiducia nei confronti degli Stati Uniti diffusa in tutta la regione.
Il primo ministro israeliano, Binyamin Netanyahu, ha dichiarato che il suo paese ha “molto apprezzato” l’uso del veto da parte Stati Uniti.
Tuttavia, alcuni commentatori israeliani hanno avvertito che il voto è servito solo a rafforzare l’isolamento internazionale di Israele e hanno affermato che Washington si aspetterà qualcosa in cambio dal suo alleato. Essi hanno suggerito che gli Stati Uniti non saranno disposti a riutilizzare il veto in un altro caso simile.
La leader dell’opposizione, Tzipi Livni, ha detto che Israele è ora in una situazione di “collasso politico”.
“Scopriamo ora che la Germania, la Gran Bretagna e la Francia – tutti amici di Israele, che la vogliono aiutare a difendersi – hanno votato contro le posizioni di Israele, e che gli Stati Uniti stanno venendo costretti in un angolo, e si trovano, con Israele, contro tutto il mondo”, ha dichiarato.
Il voto di venerdì scorso ha fatto seguito a frenetici sforzi diplomatici per evitare che la risoluzione venisse sottoposta a votazione.
Obama aveva parlato con Abbas per più di 50 minuti giovedì, offrendogli vari incentivi, incluse eventuali dichiarazioni pubbliche, in cambio del ritiro della risoluzione.
Secondo la stampa palestinese, Obama ha anche minacciato di bloccare gli aiuti americani all’Autorità Palestinese se la risoluzione fosse stata presentata.
Anche il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha contattato Abbas venerdì per convincerlo ad abbandonare la risoluzione.
In ogni caso, il presidente palestinese – rendendosi conto degli umori infiammabili nella regione e del contraccolpo che egli avrebbe subito qualora avesse accettato le richieste di Obama – si è rifiutato di tornare sui propri passi. Un funzionario palestinese ha dichiarato alla Reuters che “la gente sarebbe scesa in piazza e avrebbe rovesciato il presidente” se egli avesse ceduto.
Dopo il voto, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza che Washington “è d’accordo con gli altri membri del Consiglio, e con il resto del mondo, sulla follia e l’illegittimità della persistente attività di Israele negli insediamenti”.
Ma ha aggiunto: “Pensiamo che non sia saggio che questo Consiglio tenti di risolvere le questioni essenziali che dividono gli Israeliani ed i Palestinesi”.
Sottolineando la crescente distanza che vi è fra gli Stati Uniti e l’Europa sulla questione israelo-palestinese, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania hanno emesso una dichiarazione congiunta affermando che la costruzione degli insediamenti va contro il diritto internazionale.
Il veto è servito a unire Hamas e Fatah nella condanna del comportamento di Washington. I leader palestinesi stanno considerando la possibilità di presentare una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Harriet Sherwood è corrispondente da Gerusalemme per il Guardian
Etichette: consiglio di sicurezza, Israele, palestina, Usa, veto
22 febbraio 2011
Non sparate sui civili (tranne che a Gaza)!
Alle prime luci del mattino di giovedì, 17 febbraio, l’esercito israeliano apriva un intenso fuoco di armi automatiche e di artiglieria, con l’appoggio aereo, contro alcuni palestinesi che si trovavano nei pressi del confine tra Gaza e Israele nell’area di As-Siafa, a nord-ovest della cittadina di Beit Lahya.
Una volta cessato l’intenso fuoco israeliano, durato almeno un’ora, venivano ritrovati i cadaveri di tre palestinesi: Jihad Fathi Mohammed Khalaf, 20 anni, di Jabalia, Ashraf Abdel Lateef Rasheed Iqteefan, 32 anni, e Tala’t Mohammed Salama Ar-Rawagh, 40 anni, entrambi di Gaza City.
Nella versione dell’esercito israeliano, i tre stavano cercando di introdursi illegalmente in Israele, ma, secondo quanto affermato dall’ong palestinese Al Mezan, i tre palestinesi erano invece dei semplici civili che stavano lavorando nella zona insieme ad altri, raccogliendo conchiglie da rivendere.
Le tre povere vittime, i cui cadaveri sono stati recuperati orrendamente sfigurati e straziati, erano solite recarsi nell’area di As-Siafa per raccogliere conchiglie e, in ogni caso, erano vestite in abiti civili, non avevano alcuna arma con sé, non costituivano in alcun modo una minaccia per Israele e i soldati israeliani.
“Incidenti” come questo accadono nel contesto della pratica israeliana – assolutamente arbitraria ed illegale – di imporre una “zona-cuscinetto” alle sue frontiere larga fino a un chilometro e mezzo all’interno della Striscia di Gaza, in tal modo impedendo ai palestinesi di coltivare e finanche di poter entrare in circa il 17% dell’intera superficie della Striscia.
Salgono così a 6 i Palestinesi uccisi a Gaza dall’inizio del 2011 (cinque civili), mentre i feriti ammontano a 33 (31 civili); di questi ultimi, ben 17 sono stati feriti mentre lavoravano nei pressi del confine con Israele, spesso ragazzini di 14 o 15 anni.
In questi giorni di terribili violenze in Libia, un vero e proprio genocidio secondo il vice ambasciatore libico all’Onu, si sono moltiplicati gli appelli della comunità internazionale, rivolti a Gheddafi e alle autorità libiche, per far cessare le violenze indiscriminate e impedire il massacro della popolazione civile.
Un coro unanime, dal Segretario Onu Ban al Segretario Nato Rasmussen al Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ((la Libia deve porre “fine all’inaccettabile bagno di sangue”), chiede che non si spari contro i dimostranti e la popolazione civile, ma perché questo non deve valere anche per la Palestina e, in specie, per la Striscia di Gaza?
Perché Israele resta libero di imporre a suon di fucilate una “zona-cuscinetto” arbitraria ai confini con Gaza, uccidendo e ferendo civili innocenti e contribuendo in tal modo ad aggravare viepiù la crisi umanitaria in atto nella Striscia?
Perché i soldati israeliani possono tranquillamente esercitarsi al tiro al bersaglio contro i palestinesi di Gaza in spregio dei principi cardine del diritto umanitario della proporzionalità e della distinzione?
Possiamo ancora nutrire qualche speranza che la comunità internazionale si attivi un giorno – come sarebbe suo dovere – per imporre il rispetto della IV Convenzione di Ginevra e fermi, una volta per tutte, gli assassini israeliani?
Etichette: buffer zone, crimini di guerra, diritto umanitario, gaza
17 febbraio 2011
Gaza: Intervista a Vittorio Arrigoni
Leggendo l’intervista di Nicola Lofoco per Medarabnews si resta increduli, una volta di più, per come la comunità internazionale – che pure non fa mancare mai gli appelli perché ai dimostranti che in questi giorni affollano le piazze di molti stati arabi venga consentito di manifestare liberamente – possa nel contempo continuare a permettere ad Israele di proseguire in un assedio contrario al diritto umanitario e ad ogni senso etico, di compiere quotidiani crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, di porre in essere un regime di occupazione brutale e oppressivo paragonabile, per la spietata ferocia e insensibilità, ai peggiori crimini nazisti.
“Restiamo umani” è lo slogan, quasi un grido disperato, scelto da Vittorio, ma il problema è che ai nostri fratelli palestinesi a Gaza è proprio lo status di essere umano che viene ad essere negato dai carnefici di Israele.
Gaza continua a morire – Intervista a Vittorio Arrigoni
Vittorio Arrigoni arriva a Gaza nell’agosto del 2008, come inviato de “Il Manifesto”, ed arriva per raccontare il dramma che vivono i palestinesi della striscia di Gaza. Alla fine del 2008, durante l’operazione israeliana “Piombo Fuso”, una orrenda operazione militare che causerà la morte di migliaia di persone,Vittorio Arrigoni riesce a documentare a tutto il mondo il dramma di quei giorni. Riesce a farlo con dei memorabili reportage inviati dai pochi internet point in funzione durante quelle giornate tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Un capodanno che Vittorio Arrigoni non dimenticherà mai. L’operazione militare “Piombo Fuso” è stata successivamente condannata dalle Nazioni Unite (vedi il rapporto Goldstone) come crimine contro l’umanità.
Non è facile riuscire a parlare con Vittorio. I continui attacchi israeliani e le continue difficoltà di spostamento rendono difficile un contatto. Ma siamo riusciti a metterci in contatto con lui, e con estrema lucidità ci ha raccontato le ultime notizie provenienti da Gaza:
“Gli attacchi israeliani ci sono quotidianamente, sempre contro i civili della Striscia di Gaza. Ci sono ogni giorno alcuni adolescenti che raccolgono al confine materiale riciclabile e sono sempre bersaglio dei cecchini. Ormai sono 4 anni che Israele impedisce l’ingresso di materiali edili per la ricostruzione. Manca il cemento, manca il ferro, manca il vetro. Per cui questi ragazzi si recano spesso al confine, a Nord, dove ci sono molti edifici distrutti dopo “Piombo Fuso”, e cercano di riciclare quello che possono. E questi ragazzi sono sempre le vittime rituali dei cecchini israeliani.
Per i progetti delle Nazioni Unite per la ricostruzione degli oltre 50.000 edifici danneggiati durante l’operazione militare “Piombo Fuso” era necessario l’invio di 670.000 camion per iniziare il progetto della ricostruzione. Di questi 670.000 ne sono entrati solo 700. Parliamo quindi solo dell’ 1% . Si tratta di progetti di ricostruzione certificati dalle “Nazioni Unite”.
Etichette: crimini di guerra, gaza, piombo fuso, vittorio arrigoni
16 febbraio 2011
Solidarietà per Noureddine Adnane.
Etichette: ciss, nourredine adnane, palermo, solidarietà
9 febbraio 2011
In Medio Oriente, l'appoggio americano genera un potere dispotico.
Ciò vale anche e soprattutto per i “cavalli” Abu Mazen e Salam Fayyad su cui hanno puntato gli Usa per tenere a bada Hamas e che hanno portato l’Anp a diventare un vero e proprio braccio operativo dell’occupazione israeliana nella West Bank, un’autorità brutale e repressiva che imprigiona e tortura chiunque sia sospettato di vicinanza all’organizzazione islamica.
Ancora lunedì scorso quattro attivisti di Hamas sono stati arrestati nel villaggio di Assira, uno a Salfit ed un altro a Jenin, mentre a Tulkarem lo Sheikh Hasan Manasra è stato ricoverato in ospedale per le ferite riportate al volto a seguito delle torture inflittegli dai servizi di sicurezza dell’Anp.
Il vero è che l’attuale leadership palestinese ha perso ogni legittimazione sia da un punto di vista formale, essendo ormai scaduto da due anni il mandato elettorale di Abbas, sia da quello sostanziale, dopo che la pubblicazione dei cd. Palestine Papers ha drammaticamente evidenziato come gli attuali dirigenti dell’Autorità palestinese siano pronti ad ogni concessione ad Israele e a svendere i diritti del popolo palestinese pur di mantenere il potere e, soprattutto, l’afflusso dei generosi finanziamenti Usa e Ue.
Di questo tratta l’articolo che segue, scritto da Fadi Elsalameen per il quotidiano israeliano Ha’aretz e qui pubblicato nella traduzione di Medarabnews.
In Meadest, U.S. backing means absolute power
di Fadi Elsalameen – 4.2.2011
I cavalli americani, Salam Fayyad e Mahmoud Abbas, spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.
L’ondata di rivolte popolari che stanno avendo luogo in Medio Oriente manda un chiaro messaggio a coloro che sono – o che aspirano ad essere – al potere nel mondo arabo. Assieme alla serie di documenti segreti recentemente trapelati, tali rivolte dimostrano come non si debba mai puntare sul “cavallo dell’America”.
Il “cavallo dell’America” è il leader arabo sostenuto dagli Stati Uniti, e autorizzato a governare qualora lo ritenga opportuno, purché non minacci la sicurezza di Israele o altri interessi americani nella regione. In cambio, egli è autorizzato a violare i diritti umani e a negare i diritti economici e politici al suo popolo. Con la benedizione dell’America, e sotto la bandiera della lotta al fondamentalismo islamico, può reprimere ogni possibile forma di opposizione.
In tutti i 10 anni trascorsi per studio negli Stati Uniti, ho sognato di tornare in Palestina e di contribuire alla creazione del futuro stato palestinese. Provenendo da un ambiente modesto a Hebron, e avendo avuto il privilegio di studiare in alcune delle migliori università degli Stati Uniti, mi sentivo in dovere di aiutare la mia gente, consapevole di essere stato più fortunato degli amici e fratelli che erano rimasti in Palestina.
Tuttavia, quando lo scorso settembre sono tornato, ho trovato un muro ancora più alto della barriera di separazione israeliana ad impedirmi di aiutare i miei fratelli e le mie sorelle palestinesi. Quel muro era costituito dai “cavalli” palestinesi dell’America: il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad e il presidente Mahmoud Abbas.
Quando ho iniziato a sollevare pubblicamente obiezioni nei confronti dello stato di polizia che si stava formando in Cisgiordania, e contro la paura instillata in coloro che osavano criticare il governo di Fayyad, i servizi segreti hanno cominciato a molestarmi, al punto che non mi sono sentito più al sicuro in Cisgiordania. Anche adesso che sono tornato negli Stati Uniti, ricevo telefonate di minaccia a causa delle mie critiche a Fayyad e Abbas. Molti amici in Palestina sono stati arrestati o convocati per interrogatori da parte di funzionari dell’intelligence palestinese, a causa delle loro critiche a Fayyad e Abbas su Facebook e Twitter.
Quello che si legge sui giornali circa il governo tecnocratico di Fayyad, sulla base di interviste con il primo ministro stesso, non corrisponde alla realtà. Sono colpevole di essere stato tra quelli che hanno ingiustamente elogiato il lavoro di Fayyad. Fayyad offre un approccio teorico molto interessante alla creazione dello stato, ma nella pratica la sua attuazione non potrebbe essere più lontana dai principi di democrazia, trasparenza, libertà e senso di responsabilità. I “cavalli dell’America”, Fayyad e Abbas, mi spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.
Molti prima di me si sono dovuti scontrare con questa realtà. In effetti, ciò che si vede oggi in Palestina e nel mondo arabo in generale non è che una reazione alle politiche repressive dei “cavalli dell’America” nei confronti di popoli istruiti che sognano le riforme.
I “Palestine Papers” pubblicati da Al Jazeera e dal Guardian non sono emersi perché due insoddisfatti ex dipendenti dell’ANP sono stati incoraggiati a farlo da presunti operatori della CIA e dell’MI6, come ha affermato il negoziatore palestinese Saeb Erekat. Al contrario, essi sono la conseguenza di anni di insoddisfazione vissuti da palestinesi intelligenti, capaci, che hanno studiato in Occidente, e che hanno abbandonato gli stipendi redditizi che avevano negli Stati Uniti per tornare in patria ed avere un ruolo nel processo di pace palestinese e nella costruzione delle istituzioni del futuro stato.
Ma il loro duro lavoro e le loro opinioni sono state completamente ignorate dalla leadership dell’Autorità Palestinese. Come risultato, molti di essi hanno smesso di lavorare per l’ANP e, ispirati da Wikileaks, si sono sentiti in dovere di entrare in contatto con network come Al Jazeera per far luce sulle gravi carenze della leadership di Abbas e dei suoi collaboratori.
Ci saranno altre fughe di notizie che comprometteranno ulteriormente ciò che resta della credibilità dell’Autorità Palestinese fino a quando non vi sarà un serio cambiamento nel processo decisionale, affinché sia più inclusivo e rappresentativo del popolo.
Gli Stati Uniti e i paesi occidentali dovranno riconsiderare il loro approccio nei confronti dei regimi del Medio Oriente. Al “cavallo dell’America” non basterà più usare la bandiera della moderazione e dei valori occidentali, e il pretesto di combattere gli islamisti, per reprimere ogni opposizione. Dopotutto, chiunque nel mondo arabo sa che non è in questo modo che l’America sceglie i propri leader e tratta la propria opposizione politica.
Questo è un momento cruciale per gli Stati Uniti, che dovranno riflettere a lungo e con attenzione sui loro interessi nella regione, osservandoli attraverso la lente dei bisogni e dei desideri delle masse arabe, e non giocando d’azzardo e scommettendo su questo o quel “cavallo” americano. Più gli Stati Uniti e Israele ignoreranno le voci dei giovani arabi che chiedono le riforme, più sarà difficile che essi troveranno in tali giovani degli alleati quando questi ultimi prenderanno il destino nelle proprie mani.
La lezione da trarre è che il “cavallo dell’America” non può vincere la gara. Il presidente Obama ha imparato la lezione? Lo capiremo dal modo in cui sta gestendo la crisi in Egitto – e in Palestina – e dal messaggio che sta inviando alle masse arabe desiderose della libertà politica.
Fadi Elsalameen si occupa dell’American Strategy Program presso la New America Foundation; è anche direttore dei giornali online palestinenote.com e diwanpalestine.com
Etichette: Abu Mazen, diritti umani, palestina, salam fayyad, Usa
8 febbraio 2011
Pasqua e 25 aprile in Palestina e Israele.
luisamorgantini@gmail.com tel. 348 3921465 – 370 1055770 - 0686895520
2 febbraio 2011
Le masse egiziane non saranno alleate di Israele.
Nessuno credo si sarebbe potuto aspettare un così repentino precipitare degli eventi in Egitto. Non se lo aspettava il nostro ministro degli esteri Frattini – evidentemente occupato da altre faccende – che sulla sua pagina di Facebook, ancora il 26 gennaio, scriveva “Mubarak continui a governare con saggezza”.
Ma non se lo aspettavano nemmeno i pur solitamente bene informati servizi segreti israeliani che, come ci racconta Gideon Levy di Ha’aretz nell’articolo segue (tradotto a cura di Medarabnews), assicuravano con certezza di come Mubarak fosse saldamente al potere ed avesse la situazione sotto controllo.
Da questa premessa, il giornalista israeliano trae lo spunto per una analisi delle conseguenze della fine del regime del rais egiziano riguardanti più da vicino Israele.
La prima, di carattere generale, concerne l’ipocrisia, ma anche l’inutilità, di sostenere regimi dittatoriali e impopolari nella vana speranza che assicurino pace e stabilità e, soprattutto, che facciano da argine al sempre incombente pericolo dell’estremismo islamico.
La seconda, che riguarda più da vicino lo stato israeliano, concerne il fatto che Israele, per essere davvero accettato in medio oriente, non può limitarsi a contare sull’appoggio di qualche ambasciata amica o a dare un frettoloso maquillage alla propria immagine alleviando in misura minima l’assedio di Gaza, ma deve porre termine senza alcun indugio all’occupazione dei territori e all’oppressione del popolo palestinese.
Se davvero l’obiettivo è quello di tagliare le radici che nutrono l’estremismo fanatico di matrice islamista, esso potrà essere perseguito soltanto favorendo in Egitto e nel mondo arabo i processi democratici, la tutela dei diritti civili e politici, lo sviluppo economico.
Gli Usa sembrano aver compreso tutto ciò, laddove si osservi che ieri il presidente Obama ha dichiarato che il processo di transizione che dovrà portare l’Egitto verso la vera democrazia “deve includere un vasto spettro di voci e di partiti dell’opposizione” e “deve portare a elezioni libere e pulite”. Anche se, va detto, anche Hamas nel 2007 aveva vinto elezioni “libere e pulite”, e tutti sanno come poi è andata a finire…
Gli Israeliani, invece, dapprima si sono mostrati scioccati per le prese di posizione di Ue e Usa, che invitavano Mubarak a non reprimere con la forza le manifestazioni popolari, e ora, addirittura, temono che Obama – dopo aver “pugnalato alle spalle” il rais egiziano – possa un giorno abbandonare Israele al suo destino.
Riuscirà questo timore, invero poco fondato, a determinare un significativo cambiamento della politica israeliana, un rinnovato impegno nel processo di pace, l’abbandono dei territori occupati? Ne dubitiamo fortemente.
Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.
di Gideon Levy – 30.1.2011
Tre o quattro giorni fa, l’Egitto era ancora nelle nostre mani. Il nostro esercito di esperti – compreso il nostro massimo esperto di Egitto, Benjamin Ben-Eliezer – aveva detto che “tutto è sotto controllo”, che il Cairo non è Tunisi e che Mubarak è forte. Ben-Eliezer aveva detto di aver parlato al telefono con un alto funzionario egiziano, il quale gli aveva assicurato che non c’è niente di cui preoccuparsi. Potete contare su Hosni, in procinto di diventare l’ex presidente dell’Egitto.
Venerdì notte tutto è cambiato. Si è scoperto che le valutazioni dei servizi segreti israeliani, che erano state recitate fino alla nausea dagli analisti di corte, erano ancora una volta, potremmo dire, non proprio il massimo dell’accuratezza. Il popolo dell’Egitto ha voluto dire la sua, ed ha avuto il coraggio di non mostrarsi in linea con i desideri di Israele. Un attimo prima che il destino di Mubarak sia sancito una volta per tutte, è giunto il momento di trarre le conclusioni israeliane.
Non la piaga delle tenebre in Egitto, ma la luce del Nilo: la fine di un regime sostenuto dalle baionette è una fine annunciata. Esso può andare avanti per anni, e la rovina a volte arriva quando meno la si aspetta, ma alla fine arriva. Non solo Damasco e Amman, Rabat e Tripoli, Teheran e Pyongyang: anche Ramallah e Gaza sono destinate a crollare.
La divisione ipocrita e bigotta, compiuta dagli Stati Uniti e dall’Occidente, tra paesi appartenenti all’ “asse del male” da un lato, e paesi “moderati” dall’altro, è crollata. Se c’è un asse del male, allora comprende tutti i regimi non democratici, compresi i paesi “moderati”, “stabili” e “filo-occidentali”. Oggi l’Egitto, domani la Palestina. Ieri Tunisi, domani Gaza.
Non solo il regime di Fatah a Ramallah e il regime di Hamas a Gaza sono destinati a cadere, ma un giorno forse anche l’occupazione israeliana, che risponde certamente a tutti i criteri della tirannia e di un regime criminale. Essa si basa fin troppo soltanto sulle armi. Anch’essa è odiata da tutte le componenti del popolo dominato, anche se quest’ultimo si trova impotente, non organizzato e non attrezzato, di fronte a un grande esercito. La prima conclusione: meglio porvi fine con buoni modi, con accordi basati sulla giustizia e non sulla potenza, un attimo prima che le masse dicano la loro e riescano a scacciare le tenebre.
Una seconda, non meno importante, conclusione: le alleanze con regimi impopolari possono essere distrutte nel giro di una notte. Finché le masse in Egitto e in tutto il mondo arabo continueranno a vedere le immagini della tirannia e della violenza provenire dai territori occupati, Israele non riuscirà a farsi accettare, anche se viene accettata da un paio di regimi.
Il regime egiziano era divenuto un alleato dell’occupazione israeliana. L’assedio congiunto di Gaza è la prova inconfutabile di ciò. Al popolo egiziano questo non piaceva. Esso non ha mai gradito l’accordo di pace con Israele, nel quale Israele si è impegnata a “rispettare i diritti legittimi del popolo palestinese” senza mai mantenere la parola. Invece, il popolo egiziano ha ricevuto in cambio le immagini dell’operazione Piombo Fuso.
Non è sufficiente avere una manciata di ambasciate al fine di essere accettati nella regione. Devono esserci anche ambasciate di buona volontà, una giusta immagine e uno Stato che non sia uno Stato occupante. Israele deve farsi strada nel cuore dei popoli arabi, i quali non potranno mai accettare la continua repressione dei loro fratelli, anche se i loro capi dell’intelligence continueranno a collaborare con Israele.
Se c’è una cosa condivisa da tutte le fazioni dell’opposizione egiziana, è il loro odio ribollente nei confronti di Israele. Ora i loro rappresentanti saliranno al potere, e Israele si troverà in una situazione difficile. Né rimarrà alcunché del successo virtuale che Netanyahu ha spesso ostentato – l’alleanza con i regimi arabi “moderati” contro l’Iran. Una vera alleanza con l’Egitto e con i paesi suoi fratelli può essere basata solo sulla fine dell’occupazione, così come desidera il popolo egiziano, e non su un nemico comune, come è nell’interesse del suo regime.
Le masse del popolo egiziano – si prega di notare: a tutti i livelli – hanno preso il loro destino nelle loro mani. C’è qualcosa di impressionante e di rasserenante in questo. Nessun potere, nemmeno quello di Mubarak, che a Ben-Eliezer piace tanto, può impedirlo. A Washington la gravità del momento è già stata compresa, e l’amministrazione americana si è affrettata a dissociarsi da Mubarak, cercando di accattivarsi il favore del popolo egiziano. Lo stesso dovrebbe accadere, ad un certo punto, a Gerusalemme.
Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982
Etichette: egitto, Israele, mondo arabo, questione palestinese
1 febbraio 2011
Israele (a ragione) teme il boicottaggio.
Non è un caso che, in un documento riservato di cui recentemente ha dato notizia Ha’aretz, i pur cauti capi delle missioni diplomatiche Ue in Israele e a Ramallah abbiano mutuato questo tipo di “arma”, suggerendo ai paesi membri dell’Unione europea di utilizzarla contro i prodotti e le aziende israeliane operanti a Gerusalemme est.
Sull’argomento, segue una interessante e divertente analisi di Douglas Hamilton, pubblicata sul sito web della Reuters.
Israele vede una minaccia nei “delegittimatori”.
di Douglas Hamilton – 23.1.2011
Proteste, boicottaggi, embarghi e sanzioni all'estero, insieme alla resistenza interna, hanno contribuito a portare all'isolamento e, poi, alla fine dell'apartheid in Sud Africa negli anni’90.
Ora, gli israeliani temono che gli attivisti pro-palestinesi, o anti-israeliani, stiano utilizzando le stesse tattiche contro il proprio paese, con sempre maggiore efficacia.
Carlos Santana, Gil Scott Heron, Elvis Costello, Gorillaz Sound System, i Klaxons, i Pixies, Faithless, Leftfield, Tindersticks, Meg Ryan e il regista Mike Leigh hanno deciso di non andare in Israele negli ultimi mesi.
Alcuni artisti da molto tempo sulla scena e più noti – tra cui Paul McCartney, Elton John e Rod Stewart - hanno invece ignorato la pressione della campagna per il boicottaggio.
Il sito web boycottisrael.info ne tiene conto.
Gli analisti israeliani dicono che la pressione viene esercitata sugli artisti da una rete globale di "delegittimazione".
Implicazioni strategiche
Il Sud Africa bianco è stato ostracizzato in una campagna durata anni. Oggi, Facebook e Twitter possono inviare messaggi di protesta a livello mondiale in pochi secondi, esercitando una pressione sugli artisti per convincerli a stare lontano da Israele e attirando l'attenzione di milioni di fan.
Per Israele, non è solo una questione di sentirsi isolato e incompreso. Ci sono serie implicazioni strategiche.
Con i negoziati di pace portati avanti dagli Stati Uniti fermi da settembre, i Palestinesi si sentono come se fossero “al posto di guida”, secondo quanto affermato da Yuval Diskin, capo dell'agenzia di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, in una valutazione per il Parlamento.
"Questo processo si sta facendo strada," ha detto. "C'è una crescente tendenza verso il riconoscimento di uno stato palestinese, e una diminuzione della capacità di Israele di manovrare diplomaticamente".
Nessun paese ha riconosciuto l'annessione israeliana di Gerusalemme Est o i suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. È altrettanto improbabile che gli Stati Uniti e i suoi alleati riconoscerebbero una dichiarazione unilaterale di sovranità palestinese.
Le grandi potenze e le Nazioni Unite insistono che l'unica soluzione durevole al conflitto in Medio Oriente consiste in un accordo negoziale che porti alla creazione di uno stato palestinese. Sia Israele sia i Palestinesi sostengono di essere impegnati per questo obiettivo sfuggente.
Tuttavia, Israele è preoccupato che qualche mossa unilaterale - forse in occasione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre - possa cambiare tutto, segnando un trionfo diplomatico di cui gioirebbero coloro che si augurano la definitiva distruzione dello Stato ebraico.
Nessun recupero
Israele è stato colpito dalle critiche internazionali per il suo attacco di tre settimane a Gaza che ha ucciso 1.400 palestinesi nel 2008-2009, e di nuovo per l'uccisione di nove attivisti turchi lo scorso maggio in un raid contro una flottiglia che cercava di rompere l'assedio di Gaza.
Sotto pressione da parte degli alleati stranieri, Israele in giugno ha allentato il blocco a un milione e mezzo di Palestinesi. Ma non vi è stato un effettivo recupero dal danno alla sua immagine. Israele dice che gli attivisti cinicamente e ingiustamente ignorano il fatto che Hamas e altri gruppi armati islamici a Gaza sono votati alla sua distruzione.
Il think tank Reut Institute, che si concentra su questioni di sicurezza e socio-economiche, sostiene che i delegittimatori cercano di negare il diritto di Israele ad esistere, raffigurandolo "sistematicamente, volutamente e diffusamente” come “crudele e disumano”, negando in tal modo la legittimità morale della sua esistenza.".
Israele è "marchiato come il nuovo Sud Africa dell'apartheid" che, secondo i delegittimatori, può essere addomesticato soltanto con la forza.
Essi hanno deliberatamente confuso la linea di confine tra la critica genuina e la demonizzazione, quindi anche le critiche in buona fede alla politica israeliana potenzialmente fanno il gioco della loro campagna, afferma il think-tank.
Delegittimazione è una parola ora utilizzata frequentemente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e da alcuni dei suoi ministri.
Quando i giovani Ebrei statunitensi hanno interrotto il suo discorso a New Orleans a novembre, li ha severamente criticati come delegittimatori inconsapevoli.
Il suo ministro degli esteri, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, sta creando una commissione parlamentare per indagare sui finanziamenti di gruppi israeliani e stranieri, come Human Rights Watch, che sospetta facciano parte della rete globale di delegittimazione.
I critici di Lieberman sostengono che è lui a distruggere la reputazione di Israele come democrazia, liquidando pubblicamente le possibilità di una pace in Medio Oriente.
Oltre l'80 per cento dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite riconoscono Israele. Con la recente aggiunta di otto Stati latino-americani, 108 paesi ora riconoscono lo Stato palestinese. Con una sufficiente pressione dell'opinione pubblica, i Palestinesi sperano che il numero si accresca.
L'impressione di alcuni israeliani che gran parte del mondo abbia dei pregiudizi nei loro confronti è stata di recente oggetto di satira con la parodia di una scuola materna in un popolare programma televisivo di satira israeliano dal titolo "Un paese meraviglioso".
Recitando la loro lezione, i bambini cantano: Israele non ha "nessuno con cui parlare" di pace. "La rimozione degli insediamenti non porterà la pace", cantano. "L'esercito di Israele è morale". "Dategli la Cisgiordania e loro vorranno Haifa".
Quando la maestra indica il "piccolo Israele" su un globo terrestre e chiede: come chiamiamo il resto del mondo?, i bambini rispondono in coro: "antisemita!".
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