Gli ennesimi colloqui di pace tra Israeliani e Palestinesi, appena iniziati, si trovano già in una fase di stallo, a causa dell'ostinato rifiuto da parte di Israele di sospendere l'attività di espansione delle colonie: proprio in questi giorni, il governo Netanyahu ha approvato la costruzione di 3.500 nuove unità abitative, di cui 238 a Gerusalemme est.
E', dunque, abbastanza normale che non siano in molti a nutrire fiducia nel buon esito di questi negoziati e, tra essi, vi è anche il leader di Hamas Khaled Meshaal, qui intervistato da Gianni Perrelli per l'Espresso n.41 in edicola la scorsa settimana.
La pace di Israele e' solo un bluff.
colloquio con Khaled Meshaal di Gianni Perrelli
Il negoziato per il Medio Oriente è un'altra volta in un vicolo cieco per colpa dell'ostinazione di Israele. Noi Palestinesi non abbiamo la forza sufficiente per poter dialogare alla pari. E il loro premier, Benjamin Netanyahu, non fa nulla per colmare questo squilibrio e favorire lo sviluppo della trattativa. E rifiuta tutte le nostre proposte...
Khaled Meshaal, 54 anni, leader dal 2004 di Hamas (il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza e che nella galassia della resistenza ha le posizioni più radicali), è pessimista sulla ripresa dei colloqui promossa da Barack Obama tra Netanyahu e il Presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. E' da quattro decenni in esilio, non trascorre mai due notti di seguito nello stesso letto, ha subito almeno tre attentati.
Il più grave, nel settembre del '97, fu ordito proprio da Netanyahu (anche allora premier) che inviò a Amman una squadra di dieci agenti segreti. I sicari si intrufolarono di notte nella casa di Meshaal e, mentre dormiva, gli iniettarono una dose di veleno nel collo. Due degli attentatori furono arrestati. Re Hussein di Giordania intimò al governo israeliano l'invio dell'antidoto che strappò il capo palestinese alla morte.
"L'espresso" ha incontrato Meshaal in una sede superblindata alla periferia di Damasco. Occhio attento alle news che scorrono in televisione, scettico, quasi sprezzante, sull'invito rivolto da Netanyahu ai Palestinesi di non abbandonare il tavolo delle trattative.
"Abu Mazen, dopo la fine della moratoria sugli insediamenti, ha giustamente detto che è impossibile proseguire il dialogo. Ma il governo israeliano finge di cercare ancora la pace solo per dimostrare di essere veramente interessato al negoziato. Un modo per prendere tempo. Spetta alle grandi potenze smascherare questo inganno. In primo luogo agli Stati Uniti, ma anche all'Europa, che non può sottrarsi alle sue responsabilità. Perchè il dramma mediorientale è un bubbone che sta infettando tutto il mondo".
Migliorerebbe la prospettiva se in Israele fossero al governo i laburisti?
"Netanyahu è sicuramente un estremista. Ma anche quando erano al potere i laburisti non è successo niente. Il rifiuto degli israeliani dipende dal sionismo. Chi conosce la storia sa che è una filosofia di vita prima ancora che una dottrina politica".
Non pensa che Israele potrebbe avere un atteggiamento più morbido se decideste di liberare il soldato Gilad Shalit, prigioniero dal 2006?
"Per il momento il suo rilascio è fuori discussione. Nelle carceri israeliane i nostri prigionieri politici sono 8mila. Abbiamo proposto, in cambio della restituzione di Shalit, che ne liberassero un centinaio. Ma Netanyahu non è interessato".
Abu Mazen si è consultato con lei, magari indirettamente, prima di iniziare i colloqui di pace?
"No, i canali di comunicazione sono interrotti. Ma stiamo lavorando per riprendere a confrontarci. E' necessario fare uno sforzo comune per ritrovare l'unità fra tutti i gruppi della resistenza".
Hamas però è accusato di non rispettare a Gaza i parametri classici della democrazia.
"E' una affermazione ingiusta. Un frutto del complotto contro la nostra sicurezza che attraverso il blocco ha l'obiettivo di rovesciare il legittimo governo di Gaza".
Se fosse presente anche lei al negoziato quale strategia di dialogo adotterebbe?
"Prima di iniziare una vera trattativa per far cessare il conflitto, Israele dovrebbe impegnarsi a riconoscere sulla carta i nostri diritti. Solo così potremmo dialogare alla pari. Altrimenti, fino a che ci troveremo in una condizione di inferiorità, i colloqui per noi sono solo pericolosi. Servono invece a Netanyahu per uscire dall'isolamento cercando di relegare in secondo piano l'occupazione dei nostri territori. E sono utili anche ad Obama per rimontare la corrente alla vigilia delle elezioni di novembre".
Obama e Hillary Clinton sembrano in realtà guardare più lontano: al traguardo storico della pace duratura che conferirebbe un altissimo profilo all'attuale Amministrazione americana.
"Se è così, perchà non hanno mai mosso un dito contro la prepotenza degli israeliani? Noi abbiamo proposto di ripristinare le frontiere del '67. Ma gli Usa continuano ad avere un occhio di riguardo per Netanyahu che non mostra alcuna voglia di aderire a questo piano. Gli stessi giornali israeliani, sul fronte della sicurezza, scrivono che la linea politica di Obama è una garanzia per il loro popolo. E il mediatore americano George Mitchell nei suoi colloqui del Cairo ci ha esortato a non rompere il negoziato senza parlare della ripresa degli insediamenti".
Anziché irrigidirsi non sarebbe più costruttivo proporre qualche compromesso, andando incontro alla sacrosanta esigenza di sicurezza degli israeliani? Una trattativa non si sblocca mai se non si trova un punto di mediazione.
"Un giusto compromesso lo abbiamo individuato vent'anni fa quando, proponendo il ritiro di Israele nelle frontiere del '67, ci siamo detti disposti a rinunciare in cambio della pace al 20 per cento del nostro territorio. E' stata una concessione di non poco conto. Ora è ingiusto che ci chiedano altri sacrifici. L'obiettivo inderogabile resta la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, il ritorno ai confini antecedenti la guerra dei sei giorni, il diritto al rimpatrio dei profughi. Meno di questo non possiamo accettare".
Se neanche stavolta sarà individuata una via d'uscita, che scenario immagina per il futuro?
Se la porta resterà chiusa non potrà che continuare la nostra resistenza. Non abbiamo altra scelta".
Può scoppiare la terza Intifada?
"Può essere uno sbocco".
Ma accentuerebbe il vostro isolamento.
"Non siamo così soli. Ci è molto vicina la Turchia. E possiamo contare su amici fidati come l'Iran, la Siria, il Qatar, il Sudan".
Lei è mai stato contattato come possibile interlocutore dagli inviati di Obama?
"Direttamente no. Ci sono stati solo contatti marginali. Con funzionari in pensione mandati a Damasco per tastare il terreno".
Come giudica la politica estera di Obama?
"Le sue mosse iniziali sembravano dischiudere un approccio amichevole nei confronti del mondo arabo. Poi qualcosa è cambiato. E in questo negoziato Obama non si è certo stracciato le vesti per impedire che Netanyahu estendesse l'occupazione. E' possibile che il presidente americano sia animato da buone intenzioni, ma non riesce a metterle in pratica. O perchè non ha la forza sufficiente o perchè è ostacolato da influenze esterne".
Sul dossier Iran cosa pensa della linea di Washington?
"Penso che i problemi gli arriveranno ancora una volta da Israele, che sta valutando la possibilità di attaccare l'Iran".
Un'eventuale bomba iraniana non è una minaccia per tutto il Medio Oriente?
"Se a Obama da' fastidio la presenza dell'atomica in quest'area, perchè non interviene su Israele che l'ha in dotazione?".
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